Zona d’interesse di Jonathan Glazer
IL MALE ASSOLUTO
di Edoardo Nardi
Una riflessione a partire da The Zone of Interest, di Glazer. Il pensiero comune e condiviso sul film mette in evidenza principalmente una potente metafora sullo sterminio ebraico e sulla banalità del male, citando ripetutamente la Arendt. Ho l’impressione tuttavia, che non risieda in tale lettura l’efficacia del citato film. Si è parlato anche del debito con Kubrick, giusta osservazione, ma non solo da intendersi nella costruzione della perturbante colonna sonora o nella geometrica precisione della messa in scena, invero anche langhiana. L’aspetto preponderante del film, che richiama certo Kubrick, è a mio avviso da rintracciare nell’uso che gran parte delle forme d’arte contemporanee fanno della metafisica. Nell’epoca del pensiero post metafisico, figlio dei lumi e della dicotomia che dal XVIII secolo vide protagonisti Hume e Kant quali iniziatori delle due grandi correnti del pensiero moderno, mai più ricongiunte, il pensiero post metafisico si è imposto nell’occidente secolarizzato. Soltanto l’arte oggi ripresenta la metafisica come ponte tra passato e presente. Il muro che domina ogni inquadratura del film e che divide il modello familiare piccolo borghese nazista in scena e l’orrore del campo fuori scena, irrappresentabile come nella tragedia classica, è simbolo particolarmente efficace di quella dialettica tra suono ed immagine che ripresenta incessantemente il tema del doppio. Gran parte delle produzioni artistiche contemporanee, come detto, utilizzano la stessa prassi metafisica. Penso alle opere di Anselm Kiefer, che spesso la visione del film mi ha ricordato, o anche alla Settologia di Jon Fosse, con i due pittori dallo stesso nome che vivono l’esperienza della creazione dell’opera e quella della sua dissoluzione. De Certeau sostenne che la mistica, come la psicoanalisi, muovevano dagli stessi presupposti, erodere il terreno stesso che le sosteneva, nel caso della psicoanalisi la borghesia già al tramonto a favore della nuova società tecnologica. Portando all’estremo la forza della loro pratica, tali discipline sgretolavano il mondo che le aveva prodotte. Ecco, mi sembra che oggi il cinema, prodotto della borghesia tecnicizzata del XX secolo, si comporti allo stesso modo, succedendo alla mistica ed alla psicanalisi. Il film di Glazer ne fornisce la prova migliore. Ciò che è messo in scena non è tanto lo sterminio etnico, ma il riverbero oscuro e distruttivo che a sua volta tale sterminio produce sul mondo piccolo borghese, incarnato nel modello produttivo nazista. In Glazer, come in Kiefer, sono le rovine a dominare la Storia. La dissoluzione messa in scena nel film avviene in un duplice movimento. Da un lato, come ormai sappiamo ad esempio dalle tante riflessioni che George Steiner ha concentrato sul tema, il bene, inteso come cultura, sapere, benessere familiare, non impedisce il fiorire inaspettato del male. I nazisti avevano famiglie ordinate ed ascoltavano Schubert, ma quotidianamente perpetravano violenze innominabili. Dunque il bello non salva e non coincide con il bene, colpo al cuore dell’arte del XX secolo che tende da quel momento a ripiegarsi sull’elaborazione del lutto o su di una visione trionfalistica e vitalistica dell’essere. Dall’altra parte, le sequenze finali che mostrano alcune donne delle pulizie al lavoro in quei musei della memoria che oggi rappresentano i campi di concentramento e che ricordano i movimenti della servitù nella vita quotidiana della famiglia nazista, propongono un doveroso parallelismo tra la fruizione borghese che oggi spesso sottende le visite ai campi e l’altrettanto piccolo borghese mentalità di una famiglia come quella dell’ufficiale, arrivista ed inserita nei meccanismi della produzione e del mercato. In questo modo, con un ponte metafisico posto tra il visibile e l’invisibile, tra l’immagine piatta ed il suono che disturba, angoscia ed inquieta, tra l’assoluto male che illumina per contrasto lo squallore del quotidiano e le piaghe della Storia, il cinema porta al parossismo la funzione moralizzante che si è imposto da quando le tante immagini digitali del nostro quotidiano lo hanno relegato in un margine critico. Tuttavia, l’evoluzione del sociale ha messo in crisi lo stesso concetto di vita piccolo borghese che sopravvive in forme vuote, sterili e fragili, quella società in forza della quale il cinema si è affermato ed ha eseguito la propria parabola. Erodendo la sua stessa matrice, il cinema, ormai destinato alla consumazione dell’evento, o alla merceologia filologica dei musei e delle cineteche, accede ad un reale modificato, subendo a sua volta le mutazioni del presente. E’possibile che tutto ciò comporti una finale dissoluzione della metafisica nelle pieghe della tecnocrazia, ma sappiamo anche come mistica, metafisica e mito continuino a rappresentare delle costanti del genere umano.