ZANJ REVOLUTION di Tariq Teguia
Immaginare quello che potrebbero diventare
di Daniela Turco e Lorenzo Esposito
Tariq Teguia con Zanj Revolution realizza forse il film che finora ha maggiormente restituito la tensione, la rabbia, la carica incendiaria e la forza di propagazione delle ‘primavere’ arabe, senza che con questo sia finito nulla di quelle lotte dentro il suo film, che, paradossalmente, veniva girato proprio nello stesso momento in cui dalla Tunisia, all’Egitto, allo Yemen, stava montando la rivolta.
Non è un caso allora che uno dei momenti centrali di questo film così intimamente e continuamente delocalizzato, si dia nella lunga sequenza in cui, all’interno di uno spazio pubblico, vengono proiettate le immagini e i suoni di Ici et ailleurs di Jean-Luc Godard che si vedono fluttuare direttamente sui corpi delle persone che sono lì raccolte, trasmettendo in modo immediato e potente l’idea della necessità di farsi invadere e prendere dalle immagini di un film, ancora oggi controverso, sovversivo e assolutamente necessario, da usare per quello che è, uno strumento di lotta.
Tutto il film di Teguia potrebbe del resto essere definito come Ici et ailleurs, rinnova la propria preoccupazione geografica di fondo (algerina, ma non solo), distendendola in una capillare saggistica romantico-politica e nella fitta mappatura di città e di luoghi che tocca tutto il Medio Oriente (Algeri, Beirut, Baghdad, Siria, Palestina), la Grecia (Salonicco) e gli Usa (New York), contemporaneamente “qui” e “altrove” dunque sia per motivi strettamente diegetici, sia per una pressione, e una passione tutta politica che monta intensamente dall’esterno, e parla silenziosamente delle rivoluzioni arabe, che scorrono contemporaneamente al farsi del film, entrandovi, malgrado tutto, come presenza fantasmatica e come pura forza di vita. (Con un terzo livello, ancora più affascinante, legato allo scontro linguistico dei dialetti arabi, che si trasforma in un corpo a corpo capace di raccontare parallelamente l’apprendistato strettamente cinematografico del cineasta, che impara e sperimenta mentre gira il suo stesso film, che dal conflitto delle lingue estrae la lingua del film).
Ma è soprattutto il cinema di Godard, di cui si avvertono qui in maniera più diretta al lavoro, film come Le petit soldat, Lotte in Italia, La chinoise, Detective, a costituire l’ossatura del film, che soprattutto mette a valore un metodo godardiano di fare cinema, che lavora sui frammenti, fa un uso dei libri presentati come materiale vivo che entra nel film in modo naturale, presi in mano o nominati dai personaggi. Attraverso questa insistita e finalmente naturale e non citazionista stratigrafia godardia, Teguia dice due o tre cose che sa del colonialismo, della lotta di classe, delle crisi finanziarie, delle ribellioni mediorientali, della rivoluzione, della storia, dell’amore. E lo fa nella sua maniera unica, con un fraseggio insieme dilagante e stringente, acido e dolce, estatico e duro, una sorta di mappatura circolare delle lotte secolari e contemporanee nel Mediterraneo che quanto più si allarga tanto più si fa serrata, fino a concentrare tutte le sue forze in cerca della resistenza della memoria, quand’anche mitico-leggendaria. Così anche Gramsci, Moby Dick, Nietszche, Butor, Darwish arrivano a far parte dell’intreccio complicato e stratificato di questo film appassionante e tuttavia straniato, segnandolo e definendolo.
La storia stessa del film si inabissa e riaffiora carsicamente, mostra alcuni incroci spazio-temporali e alcuni incontri, ma quasi casualmente, non si è mai “qui”, si è sempre “altrove”.
A Beirut si incontrano un giornalista algerino, Ibn Battuta, impegnato in una ricerca su una rivolta di molti secoli fa, quella Zanj Revolution (dodici secoli fa, si racconta, si rivoltarono al sultano e fondarono un’utopica città libera, e ora le loro gesta riecheggiano dalle paludi intorno a Baghdad alle tasche gonfie di pietre del ragazzo ribelle di Algeri) che dà il titolo al film, e una ragazza palestinese, Nahla, un’apolide bella e determinata, un corpo resistente, che appartiene alla diaspora palestinese dopo il 1948 (e non è un caso che sia lei alla fine a partecipare alla manifestazione in Grecia e che, entrando materialmente nella realtà viva della lotta, chiuda il film). Un’offensiva idealmente centrifuga e imprendibile, una guerriglia del secondo millennio operata da due avventurieri la cui militanza è esattissima e diffusa, simile a una dispersione di cellule che d’improvviso e senza preavviso vengono attratte dal nucleo di una battaglia campale, nel quale si gettano a capofitto, per poi ripartire invisibili e rinnovate (si incontrano per caso a Beirut e lui le chiede: “Di dove sei?” e lei risponde: “Di dove vuoi che sia, sono di qui, sono dovunque su questa terra, sono palestinese”).
A differenza dei due suoi film precedenti, Rome plutot que vous, e Inland, che mettevano in tensione, con disperazione, tutta la difficoltà geo-politica del suo paese con la spinta utopica dei suoi personaggi, Tariq Teguia con Zanj Revolution, dice qui qualcosa di essenziale sul tempo e cioè che a volte, per andare avanti, è necessario guardare indietro; per questo una rivolta di schiavi neri contro il califfato degli Abassidi in Iraq può diventare il punto di vista da cui guardare la contemporaneità, e per questo la lezione godardiana viene adoperata con questa intensità, sottraendola cioè a qualsiasi omaggio o citazione scontata, per usarla semplicemente come discorso politico in atto.
Sul modo che Tariq Teguia ha di filmare questo viaggio del suo personaggio alla ricerca di una storia di lotta sepolta nell’antichità, che arriva poi sensibilmente a coincidere con il viaggio dello stesso farsi del film, per immagini opache, sporche, infinitamente non definite, sequenze tronche e spaesanti, che delle varie città raccontano con cruda, poetica concretezza i non luoghi, o i punti di transito, o gli spazi qualsiasi, che il protagonista fotografa regolarmente, anche se lì non c’è niente, soltanto per “immaginare quello che potrebbero diventare”, fa venire in mente con forza l’idea foucaultiana di “eterotopia”, che, con le parole di Foucault “ha come regola quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili.”… “ Le eterotopie inquietano, probabilmente perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzitempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi , ma anche quella meno manifesta che fa “tenere insieme” le parole e le cose”. (M. Foucault, Utopie.Eterotopie, Cronopio 2008).