WELCOME TO NEW YORK di ABEL FERRARA
Rifiutato dal festival di Cannes, ecco un intervento sul potentissimo film di Abel Ferrara Welcome to New York.
Ultracorpi
Alessandro Cappabianca
È il potere (dei soldi) a generare con tanta frequenza l’ossessione sessuale? Da questo punto di vista, tra politici, banchieri, finanzieri, imprenditori, è possibile reperire diverse tipologie affette da questa sindrome, come del resto aveva già mostrato Scorsese in The Wolf of Wall Street – ma il suo Jordan Belfort/Di Caprio, almeno, era carino.
Il cinema di Abel Ferrara, invece, è stato da sempre un cinema di mostri, di corpi spesso anche fisicamente abnormi, fuori dimensione, al di là (o al di qua) di tutti i canoni estetici hollywoodiani – un cinema di ultracorpi, si potrebbe dire (pensando al suo remake del film di Don Siegel), come se per lui un filone cinematografico, sia pure esiguo, sfuggito chissà come al filtro/imbuto della riproducibilità tecnica, continuasse malgrado tutto a veicolare materiali da pratiche “basse” (non ci meraviglia, dunque, che adesso stia girando, con Willem Dafoe, un film su Pasolini).
Ma chiamare ultracorpo quello debordante, ormai quasi deforme, inguardabile sia nudo che vestito, di Depardieu, in fondo non è esatto: ultracorpi sono quelli delle escort, artefatti costruiti secondo uno stampo rigidamente calcolato, carne plastificata, perfettamente adatta alle operazioni da svolgere: carne funzionale, con licenza, semmai, di qualche raro ornamento o svolazzo feticista (una ha un aquilotto tatuato sul pancino). Ultracorpi sono quelli degli uomini di potere, dei banchieri, dei politici, degli avvocati, dei signori, delle mogli e delle amanti, giù fino alle guardie del corpo (ultracorpi paradossalmente addetti alla protezione di altri ultracorpi) – perfino Jacqueline Bisset, tra le dame (come moglie di Devereaux), diventa ultracorpo, nelle mani di Abel.
Per Devereaux, invece, bisognerebbe parlare di corpo arcaico, di sopravvivenza d’una razza antica (o di una regressione ad essa), in questo somigliante ai corpi sgraziati, pre-cinematografici, dei vecchi immigrati italiani filmati in Mulbery Street, durante la festa di San Gennaro. Corpo arcaico, quello di Depardieu, ma anche quello dei poliziotti ingrassati, delle cameriere di colore, sfatte e talmente prive di fascino che a stento si crede DSK possa essersene interessato. A questo proposito, Devereaux sembra alla ricerca ossessiva di sopravvivenze arcaiche perfino a contatto con i corpi plastificati delle escort – prova ne sia la costanza con la quale prova a usarli come superfici da leccare o la protervia con la quale esige la prestazione del blow-job.
Si diverte, Devereaux, quando, rilasciato su cauzione dopo l’arresto, ridotto ai domiciliari, rivede in televisione un vecchio film di Truffaut, quel Domicile conjugal cui i distributori italiani attribuirono il titolo sciagurato (ma che qui forse suonerebbe meno incongruo) di Non drammatizziamo… è solo questione di corna. Di corna o di carne. La moglie di Jean-Pierre Léaud lo aspetta a casa, travestita alla madama Butterfly – ma qui, come in Truffaut, non è in vista alcun harakiri, e neppure alcuna ammissione di colpevolezza, a meno di non considerare tale lo sguardo silenzioso, enigmatico, che Devereaux, sorbendo una tazza di caffè recatagli da un’altra premurosa cameriera, rivolge alla macchina da presa nell’ultima inquadratura.