VOUS N’AVEZ ENCORE RIEN VU
Continuiamo, dopo la sua recente scomparsa, a interrogarci sul cinema di Alain Resnais. Dopo la copertina riservata al suo ultimo film sul numero 643 di “Filmcritica” da poco uscito, torniamo a parlare anche del penultimo dal fatidico titolo…
VOUS N’AVEZ ENCORE RIEN VU
IL TEATRO, IL CINEMA, LA MORTE
di Alessandro Cappabianca
“Tutte le volte che s’invoca un dio si conosce la morte.
E si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare un
destino. “
(C. Pavese – “L’inconsolabile”)
Il Teatro ha, con la morte, un rapporto stretto e al tempo stesso problematico, poiché sempre, nella successione degli atti scenici, c’è almeno un momento (finale) nel quale anche i personaggi morti si ripresentano vivi sul palcoscenico, a prendersi gli eventuali applausi e a ringraziare. Come farà allora Euridice a tornare addirittura da quell’Ade che sembrava averla definitivamente inghiottita? Non l’aveva ri-persa per sempre Orfeo, voltandosi a guardarla prima del tempo? O forse ancora una volta Monsieur Henri, come rappresentante del Destino, ha revocato i suoi decreti?
Si dirà: ma in fondo il momento degli applausi designa un fuori-testo inessenziale, in cui gli attori si sono già spogliati dei loro personaggi e si presentano, in quanto attori, per quello che realmente sono. Già. Ma cosa sono gli attori? Cosa sono i comédiens? Resnais se lo è sempre chiesto, e offre, in Vous n’avez encore rien vu, la sua risposta più esplicita: gli attori sono spettri.
E se sono anche spettatori, allora sono, letteralmente, spettr-attori.
Però Resnais può affermarlo così esplicitamente, e comunque con efficacia maggiore rispetto a Jean Anouilh (da cui pure prende le mosse), in quanto fa cinema, il che significa che i suoi attori, le sue attrici, nel momento stesso in cui assicurano la propria presenza, con ciò accettano di assoggettarsi a un procedimento d’assenza nel cuore della presenza stessa – accettano cioè di diventare, dal set al film, immagini immateriali, ombre illusorie. Convocati telefonicamente per nome e cognome (i loro nomi e cognomi d’attori e attrici) per un appuntamento misterioso nella villa del regista scomparso (sembra si sia appena suicidato), Pierre Arditi. Sabine Azéma, Lambert Wilson, Anne Consigny, Michel Piccoli, Matthieu Amalric ecc., prima ancora d’essere accolti all’ingresso da un impeccabile maggiordomo, sono già ridotti a spettri, benché Resnais, citando Murnau, affermi “Quando passarono il ponte, i fantasmi vennero loro incontro”. Quali fantasmi? Quelli dei personaggi di Anouilh, tante volte interpretati? In realtà sono loro stessi i fantasmi, gli attori e le attrici, “in carne, ossa e voce”, in procinto di smaterializzarsi nelle proiezioni fantasmatiche di Orfeo, Euridice, il Padre, la Madre, Monsieur Henri ecc.
Il regista (e autore) defunto, Antoine D’Anthac, come incarnazione del dispositivo/cinema, già parla dall’Ade, ossia da uno schermo, dopo essere morto (o essersi fatto passare per tale). La sua intenzione era forse fin dal principio quella di intrappolare i vecchi attori, con il pretesto di dare un giudizio sulla nuova messa in scena, nell’eterna ripetizione di gesti e battute dell’Eurydice di Anouilh, fidando sul fatto che essi non avrebbero resistito al coinvolgimento.
Quello che ne viene fuori è un ibrido, un rimescolamento di vecchie e nuove messe in scena, dove l’una reagisce con l’altra, nell’annullarsi d’ogni marcatura temporale precisa. E’ Piccoli, interprete del padre di Orfeo, il primo a rispondere alle battute degli attori della Colombe, un po’ per scherzo, e man mano sempre più seriamente. Poi Arditi. Poi Azéma. Poi tutti gli altri. Arditi e Azéma, prima coppia Orfeo/Euridice, si alternano con la seconda coppia, formata da Wilson e Consigny. Poi Arditi e Wilson, dal salone, interloquiscono con i giovani attori della Colombe e questi, dallo schermo, rispondono. L’Euridice della Colombe riceve una lettera e Azéma non resiste alla tentazione di mimare, anticipandolo, il gesto di stracciarla. Anche le scenografie entrano in un processo di metamorfosi: a parte lo scambio, ovvio, tra il salone e il magazzino in disuso di Marsiglia dove agiscono i ragazzi della Colombe, parti del salone stesso si tramutano in foyer di teatro, in marciapiedi della stazione, in sala d’aspetto, perfino in ingresso agli Inferi, segnalato dal grande affresco d’una maschera tragica. Il colore della tappezzeria d’una camera d’albergo, conservando lo stesso disegno, si tramuta da marrone in verde. Una porta si apre all’improvviso in mezzo a una parete della stanza, poi si raddoppia, con un effetto split-screen. Sempre in split-screen, i due Orfeo, Arditi e Wilson, ordinano un caffè allo stesso cameriere.
Fino al doppio colpo di scena finale, coup de theatre (D’Anthac non è morto) subito dopo negato (D’Anthac si suicida davvero, annegandosi in un lago). Alle esequie (stavolta vere?) interviene anche l’Eurydice della Colombe, però restando in disparte, senza mescolarsi ai vecchi attori…
Mai il cinema è stato, in modo così flagrante, affare di fantasmi, scrigno ripieno di ceneri che, se dischiuso, sprigiona funebri apparizioni. E naturalmente il tutto assume ora, dopo la morte di Resnais, ulteriori, metafisiche risonanze.