VISITA OU MEMÓRIAS E CONFISSÕES di Manoel de Oliveira
La casa-cinema
Daniela Turco
Nell’incontro con il film postumo di Manoel de Oliveira, ci si sente in sintonia con il pensiero formulato da Jean-Luc Nancy sul ritratto, quando osserva che ogni ritratto contiene sempre in sè anche un sottrarsi, un tirarsi indietro, nell’atto stesso del suo mostrarsi, che lo rende, paradossalmente, non più prossimo, ma più sconosciuto, rinchiuso in un mistero, che non si scioglie. Così avviene anche per Visita ou memórias e confissões, strano, enigmatico oggetto costruito, quasi, per giocare con il tempo, per distendersi vertiginosamente tra il passato e il presente, realizzato prima (più precisamente nel 1981), per essere secretato e visto soltanto dopo (la propria morte), come un messaggio infilato in una bottiglia, e affidato all’ingranaggio inarrestabile del proprio tempo di vita.
E tuttavia, c’è fin dai primi fotogrammi del film come un’aria scanzonata, a partire dai credits pronunciati dalla voce stessa di de Oliveira – come Godard per Il disprezzo – “un film di Manoel de Oliveira su Manoel de Oliveira, forse è eccessivo ma ormai è stato fatto”, mentre si aprono i cancelli della sua casa, in quel tempo messa in vendita per pagare dei debiti, quasi come fossero i cancelli di Xanadou, e la visita, guidata dalle due voci-presenze “fantasma” di Diogo Doria e Teresa Madruga, che in una misteriosa soggettiva, cominciano ad aggirarsi in questa casa-labirinto, una complicata teoria di stanze, affollate dal mobilio, dai libri e dai quadri.
R. W. Fassbinder aveva detto una volta che con tutti i suoi film avrebbe voluto costruire una casa, alcuni sarebbero stati i muri, altri la cantina, altri ancora le finestre, e questa casa-cinema di Manoel de Oliveira, che man mano, una stanza dopo l’altra, si rende visibile allo sguardo, sembra avere la densità e la stratificazione di un sito archeologico, che in realtà molto più che dare informazioni sul passato, diventa un luogo di scavo e di produzione per le sue immagini a venire. Quante le case presenti nel suo cinema, dalle dimore sontuose incrociate in Vale Abrao, Party, O principio da Incerteza, Espelho Magico, e quanti i dettagli che da questa casa che a breve gli sarà tolta, si proietteranno, traslocheranno, nei suoi film successivi, in primo luogo le fotografie, già mostrate qui come materiali viventi della memoria, come presenze affettive che dalla scrivania di Manoel de Oliveira troveranno uno spazio nuovo nelle fotografie di famiglia raccolte sul tavolino di Je rentre a la maison, che da sole, senza bisogno di parole, dicono il lutto.
La casa di Vilarinha che sta per essere venduta si fa in sè materia non di una memoria privata, soltanto, ma di un immaginario ancora a venire, che forse proprio da lì prende forma e ispirazione.
Manoel entra nel suo film postumo, con la caratura, sempre corretta da un’ironia leggera, di un cineasta che del cinema ha conosciuto tutte le età, verticalmente, su fino al muto, e che mantiene un tono scherzosamente amatoriale mentre fa funzionare il proiettore, facendo scorrere i filmini familiari. Maria Isabel, la moglie cui il film è dedicato, anticipa qui la meravigliosa dichiarazione d’amore che si riascolterà, molti anni dopo, in Cristovao Colombo. O Enigma: l’amore è dedizione, è paziente comprensione, mentre l’ombra che nella sua opera, e dentro i suoi personaggi, fantasmi e no, ricopre un ruolo così fondante, trova forse la sua radice in un passo di Spinoza che spesso de Oliveira amava ricordare Noi supponiamo di essere liberi perchè noi non conosciamo le forze oscure che ci trascinano. Le ombre ricompaiono in uno dei passaggi più belli di questo film, quello in cui attraversa, ripreso dall’alto, uno studio cinematografico vuoto: è la finzione, dice Manoel, il volto più autentico del cinema, perchè si oppone alla realtà, restando nello stesso tempo il modo migliore di raccontarla.
Sulla sua scrivania una riproduzione della Gioconda di Leonardo, rappresenta in sè l’enigma, costeggiato in tutte le sue forme, che resta forse la cifra più profonda di un cineasta immenso e di un uomo gentile che continuava a fare del cinema e a credere in quella saturazione di segni magnifici immersi nella luce della loro assenza di spiegazione.