VISAGES VILLAGES di Agnès Varda
Histoires des yeux
di Alessandro Cappabianca
Come dispositivo multimediale in forma di film sui meccanismi della visione, qui il cinema (Agnès Varda) guarda il lavoro della fotografia come istallazione (JR), e ci induce a constatare come ogni macchina (fotografica) che guarda, seppure montata su quattro ruote, è a sua volta guardata da un’altra macchina (invisibile), ossia dalla mdp. Tutte e due, poi, sono guardate dall’occhio dello spettatore, che solo metaforicamente possiamo chiamare macchina; ma in Visages villagesil gioco non finisce qui. Varda e JR, di comune accordo, filmano/fotografano il volto d’una Francia periferica, operaia o rurale, sul punto di scomparire, stampando visi, corpi, occhi sui muri di case abitate o abbandonate. Dunque si tratta di documentare un’istallazione, facendone un film. un po’ come la Varda faceva con l’istallazione degli specchi in riva al mare in Les èlages d’Anès. In ogni caso si porta un donoe la Francia lo ricambia, ricambia lo sguardo, si fa guardare (perfino tramite i deprecabili selfie) e guarda a sua volta. Fotografo delle strade di città, per sua stessa definizione, JR accetta di seguire la Varda (seguirla o accompagnarla, come un giovane amico affezionato) alla scoperta d’una Francia provinciale sull’orlo della sparizione, per i villaggi della Provenza, le spiagge della Normandia, i docks di Le Havre, e poi in Svizzera, sul lago Lemano, alla ricerca d’un Godard che, al solito, non si fa trovare.
I muri delle case, delle fattorie, delle fabbriche, gli autotreni, le cisterne, i serbatoi, perfino le scogliere e le rocce in bilico sul mare, acquistano occhi, diventano capaci di restituire lo sguardo, come la scatola di sardine galleggiante sull’acqua restituiva lo sguardo di Lacan. Questi occhi sono finestre suppletive, come finestre si aprono e, aprendosi, lasciano buchi che non si sa più se appartengono al muro o al corpo che c’è stampato sopra. Film che è un gioco d’occhi e anche d’occhiali.
Con l’età (siamo verso i novanta) gli occhi della Varda hanno anche loro bisogno di restauri. Vediamo la scena d’una piccola operazione chirurgica, poi Agnès prova la vista su una serie di lettere bianche giganti agitate da una folla di figuranti disposti lungo i gradoni d’una scalinata. Sì, va bene, quello sguardo funziona ancora, è ancora in grado di adempiere il voto femminista (avere il coraggio di guardare, non curarsi d’essere guardate) – ma è anche l’occasione per ricordare quei maledetti occhiali scuri di Godard, che lei riuscì a fargli togliere quando girava Les fiancès du Pont Mac Donald. Era il 1961, era l’inizio della nouvelle vague, con Godard in veste d’attore comico c’erano Anna Karina, Eddie Costantine, Brialy, Sammy Frey ecc. Anche JR ha il vezzo di portare sempre gli occhiali scuri, ma non per questo vede il mondo a colori foschi, ed è disposto a levarseli (magari solo per qualche attimo) se si tratta di consolare la sua amica d’una piccola delusione: Godard, col quale avevano appuntamento nella sua casa in Svizzera, si è tirato indietro.
Gli occhi delle foto giganti, stampate sui muri delle case, guardano e si lasciano guardare. Sono foto di operai, allevatori, camionisti, bambini, ragazze – anche di animali (capre, cavalli…) – foto di vivi, appositamente immortalati in gigantografie, ma anche foto di morti, di persona che un tempo lì avevano abitato o lavorato. Se si tratta di morti, i loro occhi di grandi fantasmi pensierosi sembrano guardare da un’altra dimensione, come stupiti d’essere di nuovo convocati su una scena che un tempo gli fu familiare. Per Agnès, sono come le spiagge d’un tempo (e relativi specchi), come il garage di Jacquot, come i muri (Mur Murs) di Los Angeles, decorati dagli operai messicano. Pazienza se Godard ha dato buca. La rivincita consisterà nel ripercorrere di corsa, ma in sedia a rotelle (sospinta da JR), le sale del Louvre, rifacendo, a novant’anni, la scena di Bande à part.
Storia di occhi e di occhiali, storia di visi, quella di Visages villages, storia di sguardi. Storia dei dispositivi di visione, delle loro affinità e differenze, da aggiungere alle analisi barthesiane. Ormai la camera chiara produce fantasmi giganteschi, in cui lo studium è concentrato sulle dimensioni e il punctumè da ritrovare, seppure c’è, nelle irregolarità delle superfici edilizie che fanno loro da supporto. I muri fatiscenti in mattoni sono come l’equivalente dei cartoncini ingialliti delle vecchie foto. Il soggetto prende posizione sotto o accanto all’immagine del suo doppio gigantesco, assimilato alla pietra. Il cinema mostra la tomba di Cartier-Bresson, immersa nel verde. Mostra un ciuffo d’erba che esce da un occhio, sulla decalcomania d’un muro diroccato. Negli occhi stessi è l’istallazione, guardata dall’occhio della cinepresa.