Venezia 80: Tsukamoto, Holland e Naderi
Lo spazio dell’ombra
di daniela turco
Jacques Derrida aveva dedicato molti dei suoi testi al tema della spettralità, e in particolare, in una conversazione del 2001 con i Cahiers, che partiva dal suo Ecografie della televisione, si era soffermato su quella dimensione spettrale del tutto specifica che possiede il cinema, che per Derrida è, infine, l’arte di lasciar ritornare i fantasmi, un’arte magica che nello stesso tempo può diventare terribile.
In Shadow of fire di Shinya Tsukamoto, incomprensibilmente escluso dal concorso ufficiale e presentato nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia, l’elemento della spettralità è la dominante stessa del film, tanto da emergere con una tale intensità da diventarne il motore stesso, la forma-fantasma del film.
Da diverso tempo e in tutti i suoi ultimi film, Nobi (Fires on the plain, 2014), Zan (Killing, 2018) Shinya Tsukamoto ha riflettuto sulla guerra e sulla violenza, tuttavia con Shadow of fire riesce a spingersi oltre, e non solo per aver realizzato uno dei film più belli e strazianti visti alla Mostra, ma per avervi inscritto con determinazione tutta l’urgenza di un pensiero radicale contro la guerra.
Shadow of fire – il titolo originale Hokage, è composto da caratteri che significano fuoco e ombra – è situato nell’atmosfera sospesa e plumbea di una guerra conclusa e di una catastrofe appena avvenuta, così soverchiante da restare inespressa, se non per accenni : “era tutto bruciato…”, viene detto a più riprese. Perfino l’interno della casa dove vive la protagonista (Shuri) nella prima parte del film, si rivela in alcune sequenze come un ammasso di macerie annerite dopo un incendio. Il film entra in più punti in dialogo con Pioggia nera (1989) di Shohei Imamura, dove l’esperienza immediatamente post-atomica si rendeva visibile attraverso i segni sui corpi, nel marchio delle bruciature, nella perdita di ciocche di capelli, nella cornice di un paesaggio di rovine. Come in quel film, anche in questo la protagonista si guarda attonita allo specchio come davanti a un abisso, silenziosa, perduta a se stessa. Tanto, che in più di un punto del film ci si domanda se ci si trova di fronte alla realtà fisica di un luogo desolato, o se invece la distruzione che si vede è un paesaggio tutto mentale. E’ davvero ciò che vediamo la casa di questa donna, bella e disperata, così spesso sorpresa a risvegliarsi dal sonno, dagli incubi, o invece, in modo molto più estremo, tutto il film non è nient’altro che un’allucinazione prolungata di lei, che, sopravvissuta alla devastazione, rimette in scena intorno a sé i fantasmi del figlio e del marito perduti in guerra? La bellezza profonda e straziante del film si spende tutta in questa incertezza, in questa linea d’ombra e di ombre in cui il film è collocato, nell’astrazione di un dopo guerra non meglio definito, eppure preciso nell’evocare il disastro atomico come quando appare, in una sequenza l’immagine nerastra di una città-modellino, azzerata dalla distruzione. Ma è nell’intensità insistita delle dissolvenze incrociate, nell’imprevedibilità dei raccordi – anche sceneggiatura, montaggio e fotografia del film sono di Tsukamoto – che si sente nel film la pressione di un mondo nascosto, misterioso e lontano; sono le immagini del cinema italiano dell’immediato dopo guerra (Rossellini, De Sica… ), che a sua volta ritorna in questo film come un fantasma, meravigliosamente incarnato nell’incantevole figuretta del bambino (Oga Tsukao), che con la sua sola presenza illumina il film, portando, di colpo, il calore della vita in una desolazione di morte. Il piccolo è un orfano di guerra, che ruba dove può, e che finisce per caso nella casa di lei per salvarsi da qualcuno che lo insegue per un furto. La donna, che per mantenersi, oltre a servire dei poveri pasti occasionalmente si prostituisce, lo accoglie un po’ controvoglia, così come fa anche con il soldato reduce (Hiroki Kono), che a sua volta entra in casa sua cercando un po’ d’amore e di saké. Fra i tre nasce inavvertitamente il sogno impossibile di una famiglia, di una vita insieme, il soldato un tempo insegnante, dà lezioni di matematica al bambino, che da parte sua, rifornisce la casa del cibo che si riesce a procurare al mercato. Ma il sogno si trasforma molto presto negli incubi che assalgono di notte il bambino, nel dolore inarticolato che accomuna la donna e il soldato, senza speranza di poterli unire. Le poche immagini felici di una vita insieme, gli abiti nuovi cuciti per sé stessa e per il piccolo, i momenti di gioco non possono durare che brevi istanti, mentre resta la durezza di una pistola che il bambino ha raccolto per strada e che servirà, nel segmento successivo del film, a segnare il tempo di un’altra oscura storia di guerra, per poi essere usata dalla donna per uccidersi, fuori campo, alla fine del film. E’ la disumanità della guerra, di ogni guerra, quelle di ieri come quelle di oggi, il fantasma che si muove senza tregua in Shadow of fire, e sono gli effetti della guerra quelli che il bambino osserva nei reduci, tra cui il soldato, ombre ammassate nel buio di un anfratto del mercato, e sono ancora gli effetti della guerra, le conseguenze della bomba, che hanno fatto ammalare la donna. Eppure, di questo film così disperatamente immerso nell’oscurità, popolato da fantasmi, per contrasto, rimane impressa la luce che viene dal visetto di questo bambino sveglio, che ha già visto e conosciuto troppo, come resta impressa la bellezza inusuale di un montaggio che sa accordare i volti ai sentimenti, e che riesce malgrado tutto a strappare al buio una scintilla di vita, qualcosa che somiglia perfino alla speranza.
Se il viaggio a ritroso di Shinya Tsukamoto nella memoria più dolorosa del suo paese si compie nell’ambito della guerra di ieri, Agniezska Holland, con Green Border si fa invece carico di uno degli episodi più drammatici, a ridosso delle guerre di oggi, mettendo al centro del suo film i fatti dell’autunno del 2021, quando il presidente Lukashenko aveva cinicamente attirato i migranti in Bielorussia con la promessa falsa di un facile accesso in Europa, nell’intento di destabilizzare i paesi confinanti, la Polonia, e, di conseguenza tutta l’Unione Europea. Agnieszka Holland, i cui film hanno spesso affrontato, come questo, l’intreccio tra le piccole storie e la Storia, proprio dopo la presentazione di Green Border, premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia, ha subìto attacchi di inaudita violenza da parte del governo del suo paese, la Polonia. La sequenza di apertura di Green Border, inizia, a colori, con una visione dall’alto della magnifica foresta che si estende tra Polonia e Bielorussia, ma quasi subito questa marea verde e ondeggiante di pini a poco a poco si scolora e si converte nel b/n, come segno preciso di una perdita, che accompagna tutto il film. Holland compone in capitoli questo film scarno, vicino ai fatti e per questo molto vicino all’umano: la famiglia/ la guardia/ gli attivisti/ Julia, fino all’epilogo, con la chiara volontà di seguire lo sviluppo drammatico della situazione attraverso una necessaria molteplicità dei punti di vista, dove ognuno dei diversi personaggi si trova alle prese con una realtà che spesso non è quella che appare. In una conversazione di alcuni anni fa con Agnieszka Holland (cfr. Filmcritica n° 678, settembre 2017) la regista aveva parlato a lungo del suo interesse per le storie dei singoli dentro la Storia, viste nella prospettiva del destino e della dimensione esistenziale umana; quale libertà ha il singolo di fronte agli eventi, da dove proviene la sua identità? Viene dall’interno – la si chiami anima o carattere – o invece è qualcosa che viene dall’esterno, dal rapporto continuo con l’altro da sé, che ci fa assumere questo o quel ruolo? Queste domande, che Holland formulava in quell’incontro, sono ancora in atto in Green Border, dove si osserva il dramma dell’immigrazione da vicino, senz’ombra di retorica, ma con uno sguardo partecipe e attento che prova a indicare come stanno realmente le cose. Mostrare, non dimostrare, questa di Holland è stata anche la lezione di Brecht, così come è stata la lezione di Rossellini, la sua scelta anti-autoritaria che non imponeva un unico punto di vista, lasciando invece, senza fretta, che fossero i fatti stessi a parlare, e soprattutto chiedendo allo spettatore di fermarsi a pensare, prima di qualsiasi giudizio. Nel gruppo dei migranti in volo verso la Bielorussia, all’inizio del film, c’è una famiglia siriana, che viene da Harasta, dove ha perso tutto, e che spera di poter raggiungere i parenti in Svezia. Al loro piccolo gruppo si affianca Leila, insegnante afghana, che ben presto condivide con loro l’esperienza della frontiera e la disillusione di un accesso sicuro in Europa. E’ su questo confine ai margini della foresta, segnato dal filo spinato e controllato dalle guardie di entrambi i paesi, che Polonia e Bielorussia giocano tra loro un violento crudele ping pong sulla pelle dei migranti, sballottandoli da una parte all’altra del confine, senza rispetto né pietà per i vecchi e per i bambini, divertendosi anzi con crudeltà a strattonarli, a maltrattarli. Qualcuno di loro proverà perfino a lucrare sulla richiesta di acqua da bere, chiedendo un prezzo assurdo per una bottiglia, salvo poi davanti alle giuste proteste, rovesciare tutta l’acqua per terra, per sfregio. Come spesso accade nei film di Holland, è attraverso la presenza dei bambini, dei ragazzi che viene orientato il film e non solo da un punto di vista narrativo. Anche qui l’adolescente Nur e la sorellina Ghana insieme alle schermaglie di una quotidianità perduta, portano in un film così doloroso e tragico, il gioco e la fantasia comune ai ragazzini di ogni parte del mondo, come quando Nur elenca in inglese all’insegnante afghana tutti gli animali che ha visto o forse sognato, in quella foresta durante la notte: una giraffa, una zebra, un elefante… Più avanti nel film, Nur sperduto nella foresta insieme alla maestra afghana, per sfuggire alle guardie di confine, morirà sprofondando in una palude, nel buio, senza che Leila, possa fare nulla per aiutarlo. Holland però non si concentra soltanto sui migranti, ma, cambiando fronte, e capitolo, sceglie di seguire da vicino anche Jan, guardia al confine polacco in procinto di diventare padre, e nel capitolo successivo fa entrare in scena anche gli attivisti che ogni notte cercano di portare aiuti, sostegno, e cibo caldo ai migranti, e in un altro capitolo ancora, Julia, una psichiatra che dopo essere stata testimone impotente della morte di Nur, vicino a casa sua, a sua volta decide di aiutare gli attivisti mettendo la propria casa a disposizione. Il dato più straordinario di Green Border, che accosta con impressionante flagranza documentaria fatti realmente avvenuti, deriva proprio dalla struttura prospettica che Holland è riuscita a costruire tra le ombre di questa foresta, per far risuonare altre ombre, più opache, nascoste dentro le vite delle persone. In campo ci sono i persecutori e i perseguitati, ci sono gli attivisti, c’è chi si vuole impegnare in un aiuto concreto e chi invece preferisce non farsi coinvolgere e non rischiare nulla, come l’amica di Julia che non le presterà più la macchina quando le dice che le serve per trasportare i migranti. Holland, in quel microcosmo che è la foresta tra Polonia e Bielorussia, nello sfondo reale di una tragedia in atto, ricostruisce l’eterna scena del mondo, dove ogni singolo attore può scegliere, se vuole, se ha compreso, chi vuole essere. Per questo Jan, alla fine del film, dopo aver visto e fatto esperienza dell’arbitrio che il suo ruolo comporta, delle fughe, degli inseguimenti, dei morti, quando deve controllare il furgone dove si è nascosta la famiglia siriana ormai senza più Nur, dopo uno scambio muto di sguardi con loro, nascosti tra le casse, senza denunciarli, lascerà passare il furgone, andando contro il suo ruolo e disobbedendo agli ordini, perché ha finalmente compreso fino in fondo che cosa significa restare umani. L’epilogo del film, infine, documenta con amarezza un modo completamente diverso di gestire la frontiera, quando dopo l’invasione russa del febbraio 2022 la Polonia aveva accolto oltre un milione e mezzo di profughi ucraini in fuga dal loro paese. Si avverte un senso di tristezza profonda all’interno del film, che non deriva soltanto dalla sua atmosfera, dalle storie di vite prese in un ingranaggio che le oltrepassa comunque sempre, quando non le distrugge, ma che va a coincidere con lo sguardo stesso che Holland rivolge all’Europa, ai suoi confini, così ferocemente difesi ovunque, al prezzo di queste stesse vite, che non sembrano mai riguardarci. Per questo il suo film è stata forse la visione più sconvolgente a Venezia, l’estrema crudezza di un viaggio compiuto al termine della notte, privo di qualsiasi appiglio consolatorio, di cui Holland si fa carico con grande coraggio per consegnarlo allo spettatore, per quello che è, uno strumento per capire fino in fondo chi siamo, uno specchio oscuro, in cui poter vedere noi stessi e l’Altro.
Dopo la visione dei bambini perduti dentro il bosco, nella notte di Green Border, i bambini filmati nel sole in Harmonica (1973)di Amir Naderi a prima vista potrebbero far pensare al piacere infantile di una favola, ambientata in un villaggio sul mare, ma le cose non stanno esattamente così.
Presentato nella sezione Venezia Classici della Mostra, Harmonica tratta l’infanzia per quello che è, come un tempo certamente fiabesco, ma già denso di tutta la violenza, le passioni e i contrasti che fanno parte della vita. In Harmonica risuona molto dell’esperienza personale di Amir Naderi, nato in Iran nel 1946 e rimasto orfano da bambino, è quasi impossibile non vedere in Amiru, il protagonista principale del film, massiccio e tenero, un’immagine lontana del regista stesso. Harmonica è la cronaca di un’ossessione: il bambino più ricco del villaggio ha avuto in dono, un’armonica a bocca che diventa l’oggetto agognato dagli altri bambini, che la vorrebbero suonare, ma più di tutti da Amiru che, disposto a tutto, pur di poterne cavare qualche nota, diventa lo schiavo del bambino ricco e odioso, che, salendogli sulle spalle si fa portare in giro da lui per tutto il villaggio. Ci sono i bambini terribili di Buñuel, ma anche l’Antoine Doinel di Truffaut, ad accompagnare come fratelli fantasma, le avventure di Amiru, che non descrivono soltanto i giochi e il mondo un po’ scherzoso e un po’ crudele di un gruppo di bambini, ma riescono a rivelare incidentalmente una logica di sfruttamento che è la regola del gioco, alla base di questa piccola comunità, dove i bambini poveri, come Amiru, per aiutare in casa, fanno piccoli lavori di consegna. Ma del film resta soprattutto l’emozione di scoprire in uno dei primi film indipendenti di Amir Naderi attraverso l’ossessione per l’oggetto-feticcio rappresentato dall’armonica, la pura radice primaria di altre ossessioni a venire, che formeranno il motore, il nucleo incandescente in tutti i suoi film successivi da The Runner, a Manhattan by Number, a A,B,C…Manhattan, a Marathon, a Cut, a Monte, e dove ognuno dei quali non fa che rimettere in circolo la magnifica ossessione di Amir Naderi per il cinema come dispositivo e significante immaginario di assoluta importanza vitale per un orfano come lui, cresciuto e formatosi nel buio delle sale, dove è diventato molto di più di un semplice cinefilo. Come Serge Daney diceva di sé stesso, anche Amir Naderi è un cine-figlio.