Venezia 80: Io capitano di Matteo Garrone
IL SOGNO LA POLVERE IL GRIDO
di Tiziana M. Di Blasio
Con uno sguardo in triplice contro-campo, geografico, sociale e culturale, Io Capitano di Matteo Garrone è il racconto del viaggio dall’Africa verso l’Europa di due adolescenti senegalesi, Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), strutturalmente in-carnato in un dispositivo iconico rovesciato rispetto alla prassi diegetica consolidata e distribuito in versione originale in lingua wolof[1].
Obiettivo dell’itinerario intrapreso infatti non è la fuga dalla persecuzione, dalla guerra o dalla fame, ma il perseguimento del proprio sogno adolescenziale nella sua evoluzione verso l’età adulta come in un vero e proprio romanzo di formazione.
Coerentemente l’occhio della cinepresa, esente da contingenze cronachistiche, si arresta nel fuori-campo di una meta raggiunta, ma non esibita nel suo approdo, finale aperto in rifrazione autoriale con quello de Les Quatre Cents Coups, opera che apre ufficialmente la Nouvelle Vague, nel primo piano di un volto adolescente sulla riva del mare che interpella lo spettatore sulle conseguenze del proprio gesto di ribellione individuale.
Volto interrogativo sul proprio futuro quello dell’Antoine di Truffaut, fiero di una conquista collettiva quello del Seydou di Garrone.
Un’analogia ancor più stringente da non sottacere è quella dell’esperimento cinematografico Appunti per un’Orestiade africana di Pier Paolo Pasolini in cui l’autore dopo aver dichiarato che: «la conclusione ultima non c’è, è sospesa» così termina: «Il procedere verso il futuro non ha soluzione di continuità. Il lavoro di un popolo non conosce né retorica né indugio. Il suo futuro è nella sua ansia di futuro… ».
Con-sequenziale è l’adozione di predominanti campi lunghi e panoramiche ad evidenziare la scelta di procedere per sottr-azione tematica, aprendo il senso a devi-azioni onirico/magiche, simbolico/stilistiche afferenti alla sfera antropologica della materia trattata. E se tale prospettiva antropologica può senz’altro rinviare al cinéma-verité di Jean Rouch, autorevole animatore della produzione cinematografica nordafricana, Garrone adotta qui un personale e inconsueto registro linguistico.
Pur in un’analoga ricerca di verità Garrone, con le proprie migrazioni dell’immaginario, restituisce una densa dimensione relazionale sin dall’inizio del procedimento narrativo nell’ininterrotto atteggiamento proiettato oltre il sé del protagonista. Un dispositivo questo che lambisce anche la componente onirica come appagamento del proprio desiderio attraverso l’inconscio per realizzarsi infine nella consapevolezza dell’atto compiuto espresso in amore disinteressato.
Io Capitano tralascia l’eccedenza tematica – ni enflure, ni surcharge direbbe Bresson[2] – per immergersi nelle astrazioni lineari del deserto e del mare, delle dune e delle onde, senza tempeste né burrasche, a increspare i moti dell’animo tra angoscia e speranza.
Quella del viaggio, in Garrone, è una polvere che si deposita e penetra gli esseri viventi come ne Il Messia di Rossellini[3], e i corpi, impastati di sudore nel crudo della sofferenza e quasi avvolti da lembi di polvere, vengono ri-vestiti dalle cromie dei luoghi in dis-seminazioni tra prossimità ed erranze.
Lembi come sintomi secondo l’accezione di Didi-Huberman quando si sofferma sul lembo pittorico: «Événement trop singulier pour proposer une stabilité de la signification, le pan pictural fait sens comme un symptôme, et les symptômes n’ont jamais d’infrastructure transparente, c’est pourquoi ils extravaguent sur les corps, disparaissent ici pour resurgir là, là où on ne les attend pas, et constituent à ce titre une énigme du lieu et du trajet autant qu’une énigme de la signification»[4].
L’erranza dei corpi con la loro gravità sulla sabbia del deserto stilizza orme materiche sfuggenti nella levità del miraggio a trasfigurare, in un universo altrimenti esclusivamente virile, l’abbandono dolente della madre e quello della migrante morente, ed è ugualmente affidato a una figura femminile, nei travagli del parto durante la traversata del Mar Mediterraneo verso l’Italia, il compito di suscitare un reiterato sentimento di pietas in Seydou.
Sono pittoricamente le trame cromatiche e le tessiture iconografiche a riverberare influenze arcaiche e contemporanee, dai tonalismi di Rothko a segmentare lo spazio agli intensi Ecce Homo di Rouault, da La Pietà di van Gogh a quella “rovesciata” in Io Capitano come in Roma città aperta, senza trascurare altri gesti di com-passione di cui il film è pervaso, riecheggianti il Cireneo e la Veronica delle stazioni della Via Crucis.
Ri-attuando il metodo neorealista l’autore opta per interpreti non professionisti alla maniera di Rossellini per il quale un volto ignoto «si limita a mostrarsi e lascia che “dimostrino” solo le parole che pronuncia».
Il grido innerva l’intero itinerario filmico, grido dell’uomo contrappunto sonoro al silenzio della Natura, del deserto e del mare. In crescendo dalle intonazioni corali delle danze e dei rituali di una fervida identità culturale alle pressanti intimazioni dei trafficanti ansiosi di sbarazzarsi del loro carico umano, dagli ordini imperiosi dei militari corrotti alle strida minacciose dei carcerieri ed alle urla di sofferenza dei detenuti, per giungere al grido liberatorio che trasforma Seydou, dopo le traversie dell’orrore risonanti di echi di cuori di tenebra, da incolpevole scafista suo malgrado, in “capitano coraggioso” per aver condotto e tratto in salvo tutti i migranti del suo barcone.
Un finale sottratto all’attesa dello sbarco che si rac-corda con quanto scriveva Emerson nella sua lettera al Presidente degli Stati Uniti van Buren per denunciare l’allontanamento forzato dalle proprie terre dei nativi Cherokee che violava i diritti e la dignità umana: «but sometimes a scream is better than thesis»[5].
Sogno. Polvere. Grido. Sono i codici di una scrittura che sa sottrarsi all’eccesso, in uno sguardo che si allontana, ma non per freddezza.
È una distanza amorosa, come la chiama Barthes riferendola a se stesso in quanto spettatore «et cette distance n’est pas critique (intellectuelle); c’est, si l’on peut dire, une distance amoureuse»[6] che Garrone fa propria in quanto autore.
Una distanza per rispetto, per discrezione…
Una distanza per amore.
[1] Il tema dell’immigrazione è presente nella filmografia di Matteo Garrone già dai suoi primi lungometraggi Terra di mezzo (1996) e Ospiti (1998).
[2] R. Bresson, Notes sur le cinématographe, Gallimard, Paris 1997, p. 50.
[3] «Ora questo Messia era atteso come un uomo potente, con corazze fiammeggianti, spade e dardi invincibili. Al contrario, viene fuori proprio dalla polvere della Palestina, ed è l’uomo più umile di tutti. La sua forza è l’amore per gli umili; quello che conta per lui è partire dall’uomo proprio nel suo seme più semplice». V. Fantuzzi, «Il Gesù di Rossellini», in: La Rivista del Cinematografo, n. 3, marzo 1975, p. 149.
[4] G. Didi-Huberman, Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art, Éditions de Minuit, Paris 1990, p. 313.
[5] R.W. Emerson, «Letter to President Van Buren (April 19, 1838)», in: The Complete Works of Ralph Waldo Emerson. Miscellanies, v. XI, 1906, p. 571.
[6] R. Barthes, «En sortant du cinéma», in: Communications, n. 23, 1975, p.107.