Venezia 80: Allen, Friedkin, Polanski
Gli anziani cineasti graffiano
di Vittorio Giacci
“Le rughe della vecchiaia formano le più belle scritture della vita,
sulle quali i bambini imparano a leggere i loro sogni”
Marc Levy
Al cinema a volte permane ancora, a causa dell’impressione di realtà, l’equivoco tra Vero e Verosimile, tra Riproduzione e Rappresentazione, per cui ciò che scorre sullo schermo continua ad essere ritenuto una registrazione del Reale anziché un “pensiero che muove”. (1)
Un analogo pregiudizio sembra persistere quando si parla di cinema giovane, facendolo coincidere con l’età anagrafica del suo realizzatore anziché con il rigoglio narrativo della sua mente e la freschezza stilistica del suo sguardo, e nonostante innumerevoli prove al contrario, come la maturità espressiva di Lubitsch raggiunta e mostrata fin dalla sua prima opera o la giovanile trasparenza di Buñuel, crescente con il procedere degli anni.
Una verità confermata dalla presentazione a Venezia delle opere, fuori concorso ma non per questo meno degne di attenzione, di tre anziani cineasti, Woody Allen, William Friedkin (classe 1935) e Roman Polanski (classe 1933), i primi due alle soglie dei novant’anni, il terzo a novant’anni compiuti, e tutti e tre doverosamente insigniti di premi Oscar.
“Ci sono adolescenze – notava saggiamente Alda Merini – che si innescano a novant’anni”.
Pur nell’ estrema diversità dei loro stili e dei loro personali mondi poetici, tali opere costituiscono preziose attestazioni di un’idea di cinema che non si appaga di una trama ma la coinvolge come dimensione estetica, codice di scrittura, regola di linguaggio che si inscrive nelle radici stesse di quest’arte, nelle sue origini e nei suoi sviluppi, incidendosi in codificati dispositivi finzionali e, contemporaneamente, in innovative variazioni espressive, inebriandole al tempo stesso di quella saggezza e di quella follia che graffia l’ovvio e lo stereotipo e che solo i grandi autori sanno possedere in così magico equilibrio.
Con Coup de chance, op. n. 50° ambientata in Francia, Woody Allen si rivolge alla règle du jeu renoiriana (anche là una collocazione alto borghese parigina; un fine settimana trascorso tra amici in una villa fuori città; una relazione adulterina; un omicidio) per riflettere, da autore con a huge worldview, con un’ampia visione del mondo come dice lui stesso non senza ironia, sulle sorti costantemente intessute di tragico e di comico, una cifra stilistica questa che contraddistingue l’intera opera del regista.
Quella di Allen è un’umanità alla ricerca di se stessa, che si muove vanamente e senza sosta da una situazione all’altra e da un ambiente all’altro, strattonata tra le imprevedibili cadenze del caso fortuito e le rigide regole della volontà di controllo sul disordine del vivere.
“Allen – osserva Roberto Escobar parafrasando Charlie Chaplin che affermava che la vita non è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo lungo – riesce a vedere il mondo in primo piano e nello stesso momento in campo lungo, cogliendone la tragedia e la commedia insieme”. (2)
Tutto sembra scorrere nell’esistenza di una coppia sposata considerata perfetta, tra occupazioni professionali e impegni mondani, ma basta che la donna abbia il suo coup de chance nell’incontro occasionale con un lontano compagno di liceo perché ogni cosa venga rimessa in discussione e crolli fino al tragico/comico epilogo, un secondo più decisivo e a sorpresa colpo di fortuna che tinge l’intera vicenda di noir e di disincantato pessimismo.
Woody Allen e Vittorio Storaro, in mirabile condivisione autoriale grazie anche a una collaborazione consolidata nel corso di cinque opere consecutive, svolgono una duplice narrazione, il primo nel procedere lungo l’inarrestabile fluire dei dialoghi, il secondo nel de-scrivere con la luce i caratteri dei personaggi e i décor eleganti dei quartieri alti della Ville Lumière, in un sapiente e stringente avvicendarsi di campi e piani-sequenza a creare l’impressione di una continuità spazio-temporale che include i protagonisti nei loro rispettivi ruoli, in una ammaliante sinfonia audiovisiva.
The Caine Mutiny-Court Martial, opera postuma di William Friedkin, scomparso poco dopo aver terminato il film, presentato a Venezia dove nel 2013 gli era stato assegnato il Leone d’oro alla carriera e di cui nel 2017 era stato proiettato The Devil and Father Amorth, un documentario sul famoso esorcista, non vuole essere un remake della pellicola realizzata nel 1954 da Dmytryk e neppure del film televisivo diretto nel 1988 da Altman, bensì una rilettura in chiave aggiornata del dramma per il teatro del Premio Pulitzer Herman Wouk.
La scelta di Friedkin, un progetto a cui pensava da anni, avviene nel rispetto rigoroso dell’unità di luogo, tempo e azione, eliminando ogni possibile dispersione emotiva su ciò che da sempre caratterizza la sua opera, la lotta ineluttabile tra il Bene e il Male (“All the Films I have made are all about the thin line between Good and Evil”), e che qui si incentra in via esclusiva nel contrasto dialettico tra giustizia e ingiustizia, esemplificato nelle altalenanti opposizioni procedurali tra accusa e difesa, nella fattispecie relative a un caso giudiziario avanti la Corte marziale militare riguardante l’ ammutinamento da parte del primo ufficiale di marina con la sua decisione, prevista dal regolamento di destituire il capitano Queeg (interpretato da Kiefer Sutherland nel ruolo che era stato, nella versione di Dmytryk, dell’indimenticabile Humphrey Bogart) il quale aveva mostrato evidenti segni di instabilità mentale durante una tempesta in mare, dunque non più in grado di svolgere la propria funzione, per assumerne in sua vece il comando della nave.
E’ questo conflitto apparentemente logico, razionale, probatorio, a coinvolgere il regista che, per esaltarlo drammaturgicamente, disloca la vicenda dalla seconda guerra mondiale al dopo guerra in Iraq, eliminando scene in esterni per ambientarla in piena continuità cronologica, nel luogo chiuso e claustrofobico di un’aula di tribunale dove si svolge il processo, in un teso susseguirsi di arringhe e testimonianze riprese in modo essenziale, con abili angoli di ripresa e sottili movimenti di camera.
Intrecciando fino a fonderli Discorso e Racconto, Temps et Récit direbbe Paul Ricoeur, si allontana dall’opera ogni aspetto di cronaca forense per esaltare, in forma di apologo, la contrapposizione tra dubbio e certezza, tra problematicità del dibattimento e imperiosità della sentenza, avvolgendolo pessimisticamente in un alone di ambiguità valoriale che deflagra, a sentenza emessa, anche in questo film, in sorpresa finale.
Con The Palace, girato con la spavalda, impertinente ribalderia dell’opera prima e la sapienza introspettiva dell’età matura, Roman Polanski, reduce dalla toccante esperienza autobiografica di Hometown – la strada dei ricordi, documentario sulle dure condizioni della propria infanzia e adolescenza in Polonia, torna all’ansia perturbante di Repulsion, Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano, Frantic, coniugandola però con il parodistico vitalismo di Che? e con l’umorismo nero di Per favore non mordermi sul collo, a descrivere il caos imploso dentro la dimensione concentrazionaria di un universo irrimediabilmente chiuso, figurazione espressiva che ha sempre connotato tutto il suo cinema ma che qui esplode con esacerbata veemenza e caustica ironia. La attua anch’egli nell’osservanza meticolosa delle unità aristoteliche e con modalità ancor più radicale, nel racconto di una sola giornata, la più emblematica dell’intero millennio, quella tra il 31 dicembre 1999 e il 1 gennaio 2000 dove la tecnologica maledizione del Millennium Bug avrebbe dovuto sancire quella Finis Mundi temuta per secoli da antiche profezie e con essa la scomparsa dell’intero genere umano, e in un unico spazio, quello di un lussuoso albergo sulle Alpi svizzere dove arricchiti e potenti ospiti si riuniscono per trascorrere la notte di Capodanno in attesa del giorno del Giudizio, tra pagana smodatezza, scetticismo esistenziale, incredulità esteriore e qualche interno brivido di timore ancestrale.
L’evento diventa subito messa in scena di una sarabanda tragi-comica intrisa di sarcasmo e di angoscia su un gruppo di uomini e donne che dicono di attendere/esorcizzare quella scadenza così apocalittica senza rendersi conto che per loro è già avvenuta nel momento stesso in cui ciascuno di loro ha optato, per dirla con Fromm, per l’Avere anziché per l’Essere, e perché ogni attimo di vita dovesse essere valutato secondo un prezzo anziché un valore, diventando maschere grottesche di egoismo e ipocrisia, sepolcri sfolgoranti soltanto di insulsa vanità.
E’ una corale, sardonica commedia umana su una borghesia malata che, proprio come in Balzac, ha nel denaro la sua esclusiva unità di misura, una variegata tipologia sociale priva di principi e totalmente amorale (composta da trafficanti e faccendieri; imprenditori corruttori e funzionari pronti a vendersi; ambasciatori indegni e oligarchi russi senza scrupoli che si scambiano furtivamente valigie di banconote nel momento storico del passaggio dall’era di Eltsin all’era di Putin; e poi ancora, star dello spettacolo in declino; nobildonne ridicole e fuori dal mondo, un luminare della chirurgia plastica a bizzarro contrasto con la galleria di corpi in disfacimento che lo circonda, e neo-vedove a rischio di eredità), un’umanità condannata senza scampo alla irreversibile finanziarizzazione di ogni pensiero, azione o sentimento.
Sono personaggi racchiusi in un vicolo cieco che si comportano, tra equivoci e macchinazioni, compiacenze ed eccessi, nell’obbligata stanzialità di una co-abitazione forzata, come quelli de L’angelo sterminatore, dove gli ospiti di un ricevimento non potevano uscire dal palazzo nonostante non vi fosse alcuna porta chiusa a impedirlo, prigionieri anch’essi solamente di se stessi, impossibilitati non fisicamente ma socialmente, proprio come nel capolavoro bunueliano (simbologia degli animali compresa) a varcare la soglia dei loro ruoli e senza che sopraggiunga nessuna fine planetaria, ma per auto-estinzione interiore.
Su di essi svetta, come un ambiguo Caronte, la figura di un inappuntabile direttore/traghettatore, tuttofare, perennemente occupato a soddisfare richieste e pretese di una clientela proterva e arrogante, compresi due decessi e l’opportunistica esigenza di far sparire dall’hotel un cadavere durante i fuochi d’artificio del veglione.
Il cinema di Polanski non è una finestra sul mondo ma, al contrario, un mondo senza finestre, molto distante dalla sofisticazione dei dedali della commedia lubitschiana o dalle atmosfere sfuggenti e disorientanti di L’anno scorso a Marienbad.
In The Palace non vige altresì il proverbiale aforisma di Gran Hotel, capostipitedel genere d’ambientazione alberghiera (“gente che va, gente che viene”), ma l’esasperante fissità di un contrordine a-spaziale e a-temporale, di un labirintosenza vie di fuga dove si aggirano, tra stanze, sale e saloni, sagome di morti-vivi, di mostri, di alieni, di ultra-corpi, nella futile prestanza dei corpi maschili e nell’impietoso trascorrere del tempo sui volti femminili.
L’alba del nuovo giorno, del nuovo secolo, del nuovo millennio, si affaccia sull’immagine finale apparentemente serena, l’unica in esterni insieme a quella dell’inizio, della facciata del palazzo dell’albergo mentre fiocca la neve, preceduta da un piano-sequenza che vaga sul pavimento del salone principale cosparso di vestiti, rifiuti, avanzi di cibo sparpagliati dai commensali nelle loro sfrenatezze notturne, a scoprire, anche qui con effetto a sorpresa, il cane e il pinguino di due clienti che si stanno accoppiando in un rapporto innaturale, surreale metafora di un caos totale, iniziato quella notte e tuttora in fase di attuazione come uno spaventoso Big Bang mentale dove la psiche è deflagrata senza esplosioni in un rito silenziosamente implosivo.
Se per De Sica l’appuntamento con il giudizio universale era solo rimandato, per Polanski è avvenuto davvero, soltanto che nessuno se ne è accorto o ha fatto finta di non accorgersene, e a lui non resta che contemplarne gli effetti in una scia cosmica più lunga del previsto.
“Per girare un film – ha dichiarato il regista – bisogna battersi contro tutti”, con un’affermazione che sembra adattarsi perfettamente a quest’opera, girata forse anche contro il suo stesso pubblico, in quanto esemplificazione immaginifica di un pessimismo senza speranza, con ogni probabilità conseguente anche a sue tormentate vicende personali riemergenti dal passato.
Con The Palace Polanski pare volerci consegnare, la testimonianza di questo suo stato d’animo realizzando, come fece a suo tempo Pasolini con Salò o le centoventi giornate di Sodoma, il suo film più infungibile.
Colpiscono di questi tre cineasti l’energia creativa e la coerenza delle loro impuntature autoriali grazie a cui l’avvenimento, secondo la regola aurea del cinema classico, deve seguire e non precedere, il segno condizionandone il senso, per liberarsi dai vincoli della progressiva standardizzazione imposta dalle piattaforme digitali e dalle nuove metodologie distributive che presuppongono, anziché tanti pubblici diversi un solo pubblico globalizzato e universalmente omologato.
E’ una resistenza che si ri-attua nel ricorso a precetti considerati – spesso e a torto – remoti, dalle unità aristoteliche controbilanciate dalla coralità di personaggi, alle tecniche virtuose del piano-sequenza; dalle figure del discorso quali l’allegoria delle situazioni e la metafora del luogo chiuso; dal ritenere che sceneggiatura, fotografia, scenografia, montaggio, commento musicale, recitazione, siano tutte con-presenze artistiche essenziali.
Sono esercizi di stile necessari al raggiungimento di un risultato d’insieme in un’arte che è ineludibilmente collettiva.
Le rughe non hanno impedito a questi artisti di continuare a scrivere pagine di cinema per sogni incantati di bambini e – aggiungiamo – di spettatori. Ed è un piacere per occhi intelligenti a cui sarà difficile rinunciare.
Note
Edoardo Bruno, Il pensiero che muove, Bulzoni, Roma, 1998.
Roberto Escobar, Il mondo di Woody, Il Mulino, Bologna, 2020.