Venezia 79: Gli ultimi giorni dell’umanità e Fragments of Paradise
Trasportati dalla corrente
di Francesco Scognamiglio
Due amatori, sollecitati da una brezza di creatività, si mettono in contatto con i soggetti delle loro rispettive ossessioni.
Due film vengono presentati alla 79° Mostra del Cinema di Venezia. Uno è stato prodotto negli Stati Uniti e ha tutto in regola per essere un buon documentario, l’altro, italiano, è invece più atipico e sperimentale.
L’ossessione di K.D. Davinson, documentarista americana, giunge fino all’Anthology Film Archive per proporre al fondatore, nonché regista, artista e poeta, Jonas Mekas, un documentario che valorizzi in qualche modo tutto il suo lavoro nonché il suo vissuto. Quasi contemporaneamente Alessandro Gagliardo incontra enrico ghezzi, regista e teorico del cinema, della televisione e del video, per coinvolgerlo ed esortarlo in una missione, realizzare il film che aveva sempre sognato di fare.
Questi due giovani sognatori si interfacciano improvvisamente con due delle più grandi personalità del “cinema-video in spalla” poiché interessati alla loro fedeltà nel registrare liberamente il proprio vissuto.
Rispolverano quindi il loro grande archivio, completo di lavori personali o contestualizzanti (per Ghezzi interferiscono anche i film storici passati la notte per il suo programma televisivo “Fuori Orario”, mentre per Mekas sono inseriti altri film dell’avanguardia newyorkese).
Sebbene i due film in questione concepiscano il rimontaggio dell’archivio in diverso modo, Fragments of Paradise e Gli ultimi giorni dell’umanità mostrano innocentemente molto del footage privato girato in casa, o comunque raffigurante ambienti familiari, come: salotti frequentati da amici, uffici e studi circondati da cultura.
“As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty”
Jonas (ri)vive nei filmati con la moglie Hallis Melton e i suoi figli Sebastian e Oona (entrambi produttori del film), nell’iconico loft a New York, luogo intenso per la sua crescita intellettuale e per il suo metodico lavoro notturno.
Grazie ai frammenti ricostruiti dalla documentarista Davinson si ha un quadro completo di quello che è stato l’Indipendent American Art Cinema degli anni 60’ a cui Jonas Mekas ha partecipato attivamente e di cui ne è soprattutto il salvatore. Grazie alla fondazione e all’archivio moltissime opere sono ancora oggi consultabili poiché accuratamente conservate o restaurate.
Il film si snoda poi in diverse situazioni di vita in cui i vari Mekas frantumati nel tempo sono sempre impegnati a testimoniare la propria esistenza. Da un Mekas appena approdato in una terra straniera, lontana, in compagnia di suo fratello minore, Adolfas, a un artista rispettato da tante delle grandi personalità contemporanee a lui vicine (Warhol, Ginsberg, Ono e Lennon), dalla celebrazione degli spazi in cui si sente smarrito a un viaggio di ritorno in Lituania per ritrovare le sue origini perdute. Il documentario si incanta nel guardare il tutto come un grande affresco del suo atto d’amore. Ogni immagine è un’idea in divenire.
La danza del filmmaker rappresenta la passione di filmare dimenticandone il motivo. Fino all’estasi di vedere la propria vita come un film già mentre la si racchiude in un formato.
Contro l’utilizzo del mezzo come rappresentazione controllata, le idee e il lavoro arrivano dopo l’estasi del making, con un’organizzazione sintetica a posteriori, come quella attuata per realizzare questi film. E Jonas ha proprio danzato fino alla fine. Fino alla sua ultima serie di video per il web, 365 Day Project, un progetto che consisteva nel postare ogni giorno un contenuto video sul suo sito internet[1]. Commuovendosi in uno degli ultimi video di questo progetto, Jonas mostra la sua fragilità, scuote la camera, la lancia persino a terra, si chiede perché stia continuando a filmare nonostante parte della sua vita sia andata via. Si intuisce che non ha davvero fino in fondo affrontato la questione più grande della sua vita; il perché di tale ossessione nel filmare.
Ormai è vecchio. Ha il dubbio che senza la camera avrebbe vissuto una vita normale. Invece ogni giorno per Jonas, come per enrico, è sempre stato vissuto come fosse l’ultimo. Hanno avuto bisogno di dare ancora più importanza al loro sentire interiore bloccando per sempre la nostalgia nelle riprese di quegl’istanti. Hanno sentito che quella nel mondo era la cosa giusta da fare, era quello che gli spettava.
“Don’t go against the flow”.
Fino agli ultimi giorni Jonas è stato trasportato dalla corrente delle illusioni, dai frammenti di paradiso, dagli scorci di bellezza. La figlia Oona, ripresa in casa in uno degli ultimi momenti del film, si accorge che il padre sta registrando sé stesso nel controcampo.
Le lacrime della figlia di Ghezzi, Aura, sono dietro la porta, spiate dall’occhiello della serratura. Voleva essere lasciata in pace dalla telecamera, si sta godendo la tristezza con il finale di puntata delle serie televisiva Friends. È così che inizia Gli ultimi giorni dell’umanità.
“É una sorta di controcampo mentale di quello che vediamo. E soprattutto il luogo della libertà è il luogo del desiderio di un essere in quel luogo, che non può realizzarsi, non può essere. Raramente si è sentito di come il cinema sia già dall’inizio una sorta di fantasma estremo del desiderio e allo stesso tempo una sorta di conferma di quanto il desiderio sia un fantasma, il desiderio di vedere, di oltrepassare i limiti del frame. Di essere colui che vede o di essere la cosa vista che ci appartiene come desiderio e non in quanto soddisfazione”.
Queste sono alcune parole sul cinema espresse da enrico ghezzi e che accompagnano le immagini di una navicella e del suo equipaggio, si presuppone, in viaggio nello spazio. In particolare si vede all’interno della navicella un liquido senza più una forma definita, una bolla d’acqua che fluttua nella stanza assumendo di continuo nuove geometrie grazie l’aiuto degli astronauti che giocando soffiano verso di essa.
Secondo queste parole la sofferenza, e allo stesso tempo la missione del filmaker, si fonderebbe su una perenne identificazione con il soggetto ripreso. Cambiando così di continuo forma, colui che vive con la camera in mano non smetterà mai di contemplare sé stesso nel controcampo di ogni inquadratura che gira poiché ricerca continuamente il proprio essere, la propria forma.
Un’esperienza variegata, piena di interferenze, è quella a cui il film ambisce ed è il modo in cui hanno pensato l’intero workflow del progetto chiamandolo “La macchina che cattura l’eccedenza”[2] o l’intera struttura della colonna sonora pensata e composta da Iosonouncane.
Siamo in balia di un film calamità.
Le immagini della fine del mondo sovrastano lo schermo. Gli animali scappano (dal footage di King Kong) in ogni direzione. La terra è contaminata da riproduzioni.
Attraverso le spaccature del terreno, direttamente dal nucleo del pianeta, esce la lava. Matrice di immagini. Il fuoco sputa gli ultimi ricordi della realtà inventata, il cinema. È la fine del mondo.
Inizia la forma di non comunicazione, di resistenza, che ha sempre caratterizzato il protagonista di questo film.
Un oggetto non identificato cade lentamente nell’atmosfera terrestre. Iniziata la discesa nella mesosfera, l’oggetto assume una reale velocità e l’inquadratura una reale difficoltà nel cacciarla. La durata della caduta offusca la situazione spaziale osservata introiettandola verso una sensazione altra, quella di avere un proiettile in viaggio nel nostro cervello.
Il mondo è finito e in questa fase siamo immersi nelle immagini del mondo, estrapolate dalla memoria, filmate dagli occhi o dalle mani di un unico individuo, enrico, che a sua volta viene pensato da chi più di tutti è stata filmata, sua figlia, Aura.
Nell’interminabile distesa di mare si intravede soltanto una nave, proprio quella descritta in uno dei Racconti del Terrore di Edgar Allan Poe: “Una discesa nel Maelström”. Un narratore improvviso, Toni Servillo, ne legge alcuni passaggi.
L’imbarcazione (quella del film) giunge finalmente in un gorgo. Sembra non esserci più speranza. Ma proprio nel gorgo il grande osservatore trova pace. Finalmente il mondo può finire e possiamo vedere in tutta tranquillità le cose come sono. Comincia a manifestarsi, quindi, la visione della malinconia istantanea di cui parlava lo stesso Ghezzi in qualche video prima. L’urlo interno chiama l’intero equipaggio alla caduta. E infine un’enorme imbuto li trasporta nella profonda eternità. La fine è arrivata per l’imbarcazione, ora è comprensibile avere paura, ma l’immagine della distruzione regala all’osservatore un ultimo sospiro di speranza. Siamo fuggiti dall’apocalisse grazie alle immagini, così fuggiremo da questa nave gettandoci in mare, e ancora per sempre.
Il film si perde nell’archivio più privato di enrico, passando da un estratto dell’omonimo spettacolo di Ronconi, l’esercito dei morti di Sogni di Kurosawa, ritornando infine alla sfera presente, enrico ora, sua figlia ora che tra le poche ultime parole kafkiane si perde nelle dissolvenze. E ancora, dopo Bela Tarr, un ultimo scorcio sulle immagini sentimentali del passato.
Non importa fare un film o non farlo, per enrico e Jonas sembra interessare la vita. Vogliono regalarla al mondo conservandone le registrazioni. Il senso con cui cercano il confronto non gli ha mai concesso una risposta e quindi si abbandonano all’istinto di continuare a fare decidendo in ogni momento, combattendo contro loro stessi, se filmare o no gli ultimi giorni dell’umanità.
[1] http://jonasmekasfilms.com/365/month.php?month=1
[2] https://ilmanifesto.it/ghezzi-e-compagnia-una-macchina-catturaeccedenz