Venezia 79: Conversazione con Lav Diaz
A cura di Daniela Turco e Bruno Roberti
Sempre più coraggioso nel realizzare i suoi film, che ogni volta chiamano in causa il regime autoritario e violento in vigore nelle Filippine, spesso, come in questo caso, sfidandolo apertamente, Lav Diaz a ogni suo nuovo film prosegue un dialogo aperto da molto tempo con il suo paese, Le Filippine, profondamente amato e altrettanto profondamente detestato per i regimi di governo impresentabili che vi si sono succeduti da molti decenni, aggiungendo con ogni nuovo film un altro tassello al grande mosaico storico politico estetico culturale e morale che con passione di studio, ricerca e tenacia va componendo da anni.
Inspiegabilmente escluso dalla selezione dei film in concorso, questo suo ultimo, splendido film, Kapag Wala Nang Mga Alon (When the Waves Are Gone), ritorna su un periodo molto specifico della storia recente delle Filippine, il 2016, quando Rodrigo Duterte, allora Presidente in carica, aveva deciso di scatenare una guerra contro la droga, che era diventata in realtà una guerra contro i tossicodipendenti e contro i poveri, facendo decine di migliaia di morti.
I due protagonisti del film, Hermes Papauran (John Lloyd Cruz) e Primo Macabanty (Ronnie Lazaro) lavoravano entrambi come detective, il primo era stato allievo dell’altro, fino a quando Hermes, scoprendo la corruzione e la violenza del proprio maestro, fa in modo che vada in prigione. Hermes, tuttavia, presto si rivela non essere migliore dell’altro, macchiandosi a sua volta di abusi e di atti di violenza criminale. Quando Primo Macabanty, dopo dieci anni, esce finalmente di prigione, il suo unico pensiero è quello di potersi finalmente vendicare.
Interamente modulato nella morbidezza di un 16 mm che vibra attraversando uno spettro infinito di sfumature, tra il buio e la luce, il film prepara senza fretta lo scontro finale tra i due, in una chiave dostoevskiana particolarmente consueta e cara a Lav Diaz, introdotto ai testi russi durante l’adolescenza dal padre, e da sempre molto vicino alla poesia e alla letteratura, che gioca in tutti i suoi film un ruolo centrale. Il film noir evocato come un fantasma offre qui a Lav Diaz la possibilità di fare a sua volta i conti con un cinema visto da ragazzo, nelle lunghe camminate compiute per raggiungere dalla casa sperduta nella campagna dove viveva, il cinema che si trovava a parecchi chilometri di distanza; si sente infatti risuonare nella stessa grana morbida del 16 mm, il lavoro profondo di Wells, come quello di Walsh, Wellman, Hawks, che ritorna, come un’onda del mare per riprendere a scorrere in sottotraccia. E’ la forza sommessa e potente del cinema che Lav Diaz mette continuamente in moto, al di là della malattia, al di là del dolore, della violenza e della morte. Politico e poetico il cinema di Lav Diaz lo resterà sempre, nella stessa chiave con cui Martin Heidegger, nel suo saggio “E perché i poeti”[1],poteva parlare di Hölderlin e Rilke, scrivendo che
“i più arrischiati in quanto cantori della salvezza, sono i poeti del tempo della povertà”, cioè coloro che praticano l’essenza stessa della poesia. Poeti che come Rilke, come Höllderlin, “sono dei precursori che non si dileguano nell’avvenire, ma che provengono da esso….”.
Anche Lav Diaz nel cinema, oggi, è uno di questi poeti nel tempo della povertà, che con lo sguardo rivolto al passato e dentro le pieghe più oscure e scabrose del proprio paese, a dispetto della malattia, della follia, e della morte di ogni speranza, di cui pure è, ed è stato cantore, continua ad avere, insopprimibilmente, una sconfinata fiducia nel cinema. Con le parole di Werner Herzog: In celluloid we trust… (d.t.)
La nostra prima domanda riguarda come sempre il titolo del tuo film, anche perché i tuoi titoli sono sempre molto significativi; When the waves are gone – quando le onde se ne sono andate -, è il titolo di questo tuo ultimo, splendido film, un titolo che ancora una volta ha a che fare con il tempo; ci chiedevamo come l’avevi formulato.
L. D. In realtà una prima idea del film ancora non del tutto definita, risale a circa sei anni fa, quando in un primo abbozzo avrebbe dovuto essere una storia di gangster, una storia di vendetta tra due personaggi inizialmente legati dall’amicizia e poi da un atto criminale, che alla fine arrivano a una resa dei conti che non prevede via d’uscita…
Sapevo di voler lavorare su questo genere di cose, qualcosa che ruotava intorno all’idea della vendetta, poi però questo progetto è stato continuamente rimandato, finché alla fine è diventato questo film e il titolo è una metafora legata al fatto che le Filippine sono un arcipelago, migliaia di isole circondate dal mare, dove l’acqua è ovunque, il rumore delle onde si sente dappertutto. Si tratta di una metafora del fatto che nella storia delle Filippine si è sempre dovuto lottare duramente con tutta una serie di cose, prima con il colonialismo, poi con l’imperialismo, e in seguito con la dittatura e con tutte le atrocità ad essa connesse, i Marcos, che adesso sono tornati… Ecco, volevo proprio andarci dentro, guardare da vicino tutto questo, la violenza, le contraddizioni, le crepe, tutto quello che non funziona nella nostra cultura. Di qui, il titolo When The Waves Are Gone.
Abbiamo letto che nel realizzare questo film hai preso spunto dal romanzo di Alexandre Dumas Il conte di Montecristo…
L. D. Veramente non è proprio così. Non ho mai pensato a Il conte di Montecristo in rapporto al film, ma stranamente è venuta fuori questa cosa, tuttavia sono grato per questa connessione non voluta con quel romanzo, tutto sommato… mi piace…
No, in realtà l’atmosfera del film prende spunto molto di più dalla realtà del mio paese, le Filippine, quando il film è stato girato, tra il 2020 e il 2021, durante la pandemia, Duterte era ancora presidente delle Filippine, ma il film si riferisce a un periodo precedente, cioè agli avvenimenti del 2016 quando Rodrigo Duterte aveva deciso di dichiarare guerra alla droga. E di fatto si è trattato proprio di una guerra, di una vera e propria strage, con un uso deliberato e feroce della violenza da parte delle istituzioni.
Sì, uno dei personaggi nel film lo definisce un vero e proprio olocausto…
L. D. Sì, infatti, ci sono state moltissime uccisioni all’epoca, presentate come se si trattasse di qualcosa di assolutamente normale, ma come può essere normale avere ogni giorno qualcosa come cinque o dieci morti, e certe notti perfino una trentina? Tra l’altro la maggior parte delle persone uccise dalla polizia o dai vigilantes erano innocenti, gente povera per lo più, gente senza speranza…Secondo la commissione per i diritti umani, secondo Amnesty International, si era arrivati a un numero incredibile di vittime, molte di più delle 6600 vittime ufficiali, il doppio se non il triplo; con queste cifre si è davvero trattato di una guerra, e naturalmente ci sono stati dei giornalisti che hanno seguito tutto questo, foto-reporter che hanno fotografato tutto questo…
Nel film tu dai molto rilievo al personaggio di Raffy, il foto-reporter amico dell’investigatore Hermes, impegnato in prima linea a fotografare i massacri operati dalla polizia.
L. D. Sì, il foto-reporter esiste realmente, si chiama Raffy Lerma. Volevo assolutamente che entrasse nel film, perché i suoi libri che documentavano queste uccisioni, quando sono stati pubblicati mi avevano molto colpito. Ma Raffy Lerma, è una persona molto schiva e non ha voluto entrare nel film nella parte di se stesso, così di comune accordo abbiamo trovato un attore che gli assomigliasse, per portare nel film la forza e il coraggio del suo lavoro.
Prima ti ho fatto una domanda a proposito della letteratura, che ha da sempre un rapporto stretto con il tuo lavoro, perché so che i libri sono sempre stati molto importanti per te, in particolare certi autori russi come Tolstoj e Dostoevskij per te fondamentali anche grazie al tuo ambiente familiare; se non sbaglio, i tuoi genitori erano degli insegnanti….
L. D. Erano assistenti sociali, e certamente credevano molto nell’istruzione, nella letteratura, nella lettura…
Avendo seguito il tuo lavoro da molti anni, ho sempre pensato che se tu non fossi un filmaker potresti essere assolutamente uno scrittore… In particolare, ho sempre pensato che la tua opera abbia dei punti di contatto con quella di Balzac, che romanzo dopo romanzo costruiva LaComédie humaine, un potente affresco del suo tempo. Analogamente penso alla tua filmografia come un work in progress in cui si sente che ogni film non è a sé stante, ma è una tessera di qualcosa di molto più vasto e imponente…
L. D. Sì, certo, direi che è proprio così, l’hai descritto molto bene…Balzac tra l’altro è uno scrittore che insegna moltissimo con il suo stile a creare un ambiente.In effetti, in un certo senso ho sempre considerato la mia idea di cinema e il mio modo di filmare molto vicina a quello di uno scrittore che lavora a un romanzo: mi trovo a creare dei personaggi veri, che poi prendono corpo e vivono nel film.
Questo tuo ultimo film sembra anche essere molto legato a un certo cinema d’autore, si pensa a Touch of Evil di Orson Welles…
L. D. Sì certo, ho iniziato scrivendo di cinema, sono stato un critico cinematografico, e quindi i riferimenti alla storia del cinema ci sono sempre, inoltre in un certo senso ogni film guarda al cinema, e con questo intendo proprio alla natura del cinema. E’ proprio tipico del mezzo che usiamo guardare alla storia del cinema come a un qualcosa di vivo, noi dobbiamo così tanto al cinema del passato, mi riferisco ai suoi primi momenti quando il cinema è nato, è come una sorgente cui è sempre giusto rivolgersi.
Per te sembra essere sempre molto importante concentrarti sui sentimenti delle persone, compresi quelli più negativi…
L. D. Sì, e su tutte le emozioni…
L’odio, la vendetta, sono dimensioni che esplori spesso…
L. D. Sì, in particolare l’inferno…
In un certo senso tu rendi lo spettatore dei tuoi film libero proprio quando, nel momento in cui viene messo faccia a faccia con il male che si trova in ogni tuo film, è invitato a prendere una posizione…
L. D. Sì, certamente, anche perché gli esseri umani sono creature molto complesse, c’è un insieme di bene e di male, si può essere entrambe le cose. C’è sempre questa dicotomia, questa dualità che ci fonda, per cui da un lato possiamo essere buoni, ma possiamo anche diventare cattivi. La nostra natura è questa.
All’inizio del film c’è una citazione molto interessante di Hercule Poirot, il detective creato da Agatha Christie, in cui viene detto che “per arrivare alla verità bisogna seguire un processo che parte dall’interno e non dall’esterno”. Questa citazione del metodo di Poirot sembra essere una descrizione precisa anche del tuo modo di lavorare, di girare un film…
L. D. Sì, infatti è così, è proprio la frase giusta cui ancorarsi, per iniziare a lavorare. Agatha Christie era riuscita molto bene, nel creare il suo personaggio Poirot a dare questa idea di un processo di investigazione che non finisce mai, di una ricerca infinita di indizi, giorno e notte, che nel suo percorso crea la verità, in alcuni casi, almeno. Questo nel film viene esteso, e nello scambio di parole tra il poliziotto, che è a sua volta un detective, e il foto-reporter, si parla a un certo punto della necessità di essere guerrieri, e di una realtà dove tutto, ogni cosa ha che fare con la sopravvivenza e con la paura…
In un certo senso questa dichiarazione diventa politica quando tu parli di paura in relazione al fascismo e a un regime di oppressione; anche Hannah Arendt nel suo Le origini del totalitarismo, metteva in evidenza come la paura possa diventare una leva essenziale per la struttura dei regimi totalitari.
L. D. Sì, infatti. E l’unico strumento concreto per opporsi a questo è il coraggio.
In un certo senso i due personaggi del film, il poliziotto Hermes Papauran e il suo antico maestro Primo Macabantay sono quasi la stessa persona, ciascuno sembra essere il doppio dell’altro.
L. D. Sì, come dicevo prima, si ha di nuovo a che fare con una battaglia tra il bene e il male, che è interna all’anima di ognuno; in questa prospettiva i due possono essere considerati come una stessa persona…Si tratta di una battaglia interna, questo magma di bugie e di lacerazioni interne all’anima di entrambi…
Tra l’altro ci sono dei gesti e dei movimenti precisi che li accomunano: entrambi muovono dei passi di danza.
L. D. Si tratta di un rituale. Non è quasi nemmeno una danza, si tratta di una pratica primordiale, molto antica, che li situa in una posizione simmetrica di esposizione rispetto all’altro, e, anche qui, come si diceva prima, attraverso la danza possono arrivare a coincidere l’uno con l’altro.
Le donne sono sempre molto importanti nei tuoi film e ciò avviene anche in questo. Nel film c’è la sorella maggiore di Hermes che dice diverse cose importanti, tra cui “le istituzioni sono il male”, che appare come una critica dura e molto coraggiosa e diretta. Sembra che siano soprattutto le donne ad avere il coraggio di dire come stanno le cose.
L. D. Certe dichiarazioni agganciate a qualcuno in modo molto determinato, in questo caso a una donna, creano in un certo senso l’idea di una creatura più autorevole; la nostra cultura vista dall’esterno è molto patriarcale, e di fatto è anche per questo che ho voluto dare a una donna, e soprattutto alla prospettiva morale di una donna, la possibilità di esprimere una considerazione così dura. E questo anche perché i personaggi maschili sono delle persone abbastanza tremende, cercano di trovare se stessi e cercano una sorta di redenzione, cercano un aiuto per pagare un prezzo morale. Hermes ne è consapevole, ma è perduto lo stesso, e questo si manifesta letteralmente sulla sua pelle malata, e si manifesta anche nella sua lotta continua per ancorarsi, per trovare un posto in cui stare. Alla fine trova un modo per accettare il sacrificio, ma a quel punto la sorella è già morta…In un certo senso penso che ci si debba ancorare alle donne, che incarnano una certa autorità; nel film sono sicuramente le donne a possedere una maggiore autorevolezza, e sono anche molto belle, naturalmente…
Anche la natura entra nel film con la sua forte presenza, come sempre succede nei tuoi film, nel tuo lavoro si osserva spesso questo forte contrasto tra la visione naturale del tuo bellissimo paese, che si sente che tu ami profondamente, e la forte critica politica mossa a tutti gli aspetti che non vanno….Qui nel film la natura possiede una forza straordinaria, il mare praticamente divora la spiaggia…
L. D. Sì, la natura ci dona moltissime cose, ma nello stesso tempo può anche essere estremamente distruttiva, di nuovo, è proprio della natura essere così: da un lato generosa, mentre dall’altro ti può uccidere. La natura è qualcosa di insidioso, può essere accogliente come una madre, e infatti la chiamiamo Madre Natura, ma ci può anche fare del male. Anche qui, ritorna la dualità di cui si parlava prima… Nel caso del mio paese lo si può vedere molto bene, le nostre vite dipendono molto dalla natura, il mare può essere generoso, ma anche molto pericoloso. E i tifoni che arrivano ogni anno, spesso possono essere estremamente distruttivi, ma poi quando tutto si calma, e la vita si rigenera dopo l’inferno, la natura può tornare ad essere qualcosa che nutre. E’ qualcosa di ciclico, che ricomincia sempre.
L’ultima sequenza del film è molto intensa, perché si passa dal nero della notte alla luce dell’alba, molto bruscamente. Per lo spettatore questo passaggio è molto violento, lo colpisce con la sua cruda bellezza…Come hai ragionato su questo passaggio dal buio alla luce?
L. D. Si tratta anche qui di qualcosa di metaforico, questo passaggio avviene dopo che i due sono morti e ci sono i loro due corpi, c’è la luce che aumenta, e nello stesso tempo c’è ancora del grigio, del nero… E anche di fronte a queste morti non è detto che bisogna per forza accettare tutto nella vita, credo invece che bisogna continuare a lottare contro tutte le atrocità che vengono commesse, continuo a credere nella lotta…
Tu infatti continui a lottare molto mandando avanti il tuo lavoro…
L. D. Sì, certo, lo faccio con il cinema, io voglio sentirmi responsabile…
Tu comunque continui a vivere nelle Filippine, quando non sei impegnato altrove…
L. D. Sì, certo, vivo lì. Credo che la vita per me sia ancora qualcosa per cui lottare.
Sono assolutamente d’accordo, e per Karl Marx era lo stesso, il senso della vita per lui, come per te, risiedeva proprio nella lotta, e secondo lui è proprio questo che rende la vita bella…
L. D. Sì, infatti, la vita è bella, ancora… Poi, certo, dobbiamo accettare di lottare con l’oscurità, con la pazzia, va bene, ma possiamo ancora vedere una bella luce che arriva…
Uno dei due protagonisti del film si chiama Hermes; la scelta di questo nome è stata casuale…
L. D. Mah, stavo solo cercando dei nomi che potessero funzionare…
Il film colpisce per l’investigazione del tempo che lo fonda, fin dal titolo When The Waves Are Gone. Si pensa infatti subito alla dimensione del tempo. Un po’ come se il tempo entrasse in gioco come un’onda, mentre lo spazio è uno spazio labirintico…
L. D. Come ho detto prima uso la parola onda nel titolo come una metafora, che in quanto metafora, appunto, possa abbracciare molti livelli, come le fratture all’interno della nostra cultura e le lotte delle persone, contro l’imperialismo degli americani, la furia dei giapponesi, fino all’impero dei Marcos, e tutto questo è ben rappresentato dall’immagine delle onde, onde cioè che possono essere impositive e violente, ma possono essere anche grandi in un senso positivo, rappresentando quell’aspetto di nutrimento che la Natura incarna in sé, l’idea di una vita che può essere vissuta con ritmi diversi da quelli imposti dall’Occidente, legato agli orari, alla velocità, una vita vissuta invece con i ritmi e con i tempi necessariamente più lenti propri della Natura.
Ritornando alla sequenza finale del film, nel brusco rovesciamento che si crea nel passaggio dal buio alla luce, c’è come una sorta di jump cut …
L. D. Sì è vero c’è questo salto verso la luce, ma non c’è cambiamento di prospettiva rispetto a quello che verrà dopo; Macabantay a questo punto ha compiuto il suo rituale, attraverso le tre pugnalate che sono un modo molto antico per torturare le persone…
Questo tipo di rituale esisteva veramente?
L. D. Non proprio, questa cosa l’ho inventata, basandola comunque su racconti sulla tortura anticamente praticata in questa zona del mondo. Non è comunque completamente inventata, è una storia che appartiene alla tradizione orale e che ho ascoltato da alcune persone anziane che me l’hanno raccontata. Malesia, Indonesia e Filippine, fanno parte di un bacino culturale comune, e in questi racconti tramandati oralmente a volte ci si imbatte in persone che sono state torturate in quel modo.
Non sorprende incontrare nel tuo lavoro questa ricchezza narrativa, fatta anche di racconti orali, perché è molto evidente che i tuoi film sono sempre sostenuti da una ricerca molto accurata, storica, sociale, antropologica ecc…
L. D. Ah sì certamente; cerco sempre di ancorare le mie storie al passato, a un periodo storico o a un’epoca precisa, e per fare questo un lavoro di ricerca è fondamentale.
A un certo punto nel film si sente una donna ambulante che grida ripetutamente “balut” come in The Woman Who Left…
L. D. Ah, sì balut è una prelibatezza tipica delle Filippine, molto comune nella nostra cultura, si tratta di un uovo d’anatra fecondato, che viene bollito e poi va mangiato con del sale e un po’ d’aceto, è assolutamente delizioso, specialmente per noi filippini…
Nei tuoi film la religione gioca sempre un ruolo significativo si pensa soprattutto a film come Century of Birthing, ma anche ad altri, e questo avviene anche in questo, naturalmente. Qui il personaggio di Primo usa la religione …
L. D. …per controllare le persone.
Sì e tu sottolinei sempre molto questo uso distorto della religione…
L. D. Sì hai usato la parola giusta, è un uso distorto, infatti. Sì la religione, o la fede, può essere usata in questo modo impositivo sulle persone. Questo lo si può vedere molto bene nel mio paese, ma anche in Sud America ad esempio.
L’ossessione per il rituale e per la danza accomuna Hermes e Primo
L. D. Sì come ho detto prima l’ho introdotto per mostrare come venga usato da loro come una specie di rituale, l’ispirazione di questo viene dalla nostra cultura, naturalmente sono presenti tutte le danze moderne, come la samba, ecc., ma io per realizzare questi movimenti ho chiesto ad entrambi loro di accentuare tutta una serie di istinti radicati, quasi primordiali. In un certo senso è anche influenzato dalla Zumba, non so se la conoscete, è molto divertente, ed è una strana mescolanza fra una danza e degli esercizi di ginnastica.
Mentre stavo facendo delle ricerche per la location del film, tra novembre 2020 e gennaio 2021, ero da solo nella parte a sud dell’isola alla ricerca dei luoghi in cui girare il film, ed era ovviamente in vigore il distanziamento, per via del Covid, e le mascherine, e a un certo punto, in un posto molto vicino al mare, ho visto dei gruppi che avevano messo su della musica e mentre ballavano la Zumba, sorridevano tutti, senza seguire le regole del distanziamento, e in questo si avvertiva una specie di sfida, trasmettevano un grande senso di libertà. In quel periodo stavo scrivendo la sceneggiatura, ma poi quando stavo girando il film questi balli in strada mi sono tornati in mente e ho voluto far entrare nel film questo senso molto fisico della danza e dei movimenti del corpo.Volevo che qualcosa di più grande di loro, come la danza, gli facesse creare dei movimenti, e che quando entrambi sono presi dalla danza, questa alla fine diventa per tutti e due una danza di morte. E’ un rituale.
C’è anche la presenza della malattia di Hermes ma anche della sorella, tu ovviamente stai accennando a una malattia più ampia…
L. D. Sì, naturalmente. La psoriasi di Hermes e il diabete di sua sorella non sono che le manifestazioni incarnate di uno stato di malattia molto più vasto, che è annidato nel nostro sistema, nella nostra cultura, nella nostra società, la psoriasi non è una malattia contagiosa ma è comunque molto insidiosa, può arrivare a distruggerti. Sì in un certo senso è una rappresentazione di un qualcosa di devastante, come la corruzione non può essere distrutta facilmente, perché il male può sempre prendere il sopravvento. E non si può fermare, ora ad esempio nelle Filippine la dinastia dei Marcos è ritornata…
Sì e anche i Duterte, la figlia di Rodrigo, Sara Duterte è ora Vice Presidente delle Filippine
L. D. Sì infatti. E’ un loop.
Come è stato girato When The Waves Are Gone?
L. D. L’ho girato in 16 mm. Un formato molto antico…Abbiamo comprato la pellicola dalla Kodak e ce li siamo fatti spedire a Manila. E poi visto che non c’erano possibilità nelle Filippine abbiamo trovato un laboratorio per lo sviluppo non troppo caro in Romania, e quindi per lo sviluppo l’abbiamo mandato lì.
E’ stata una tua scelta precisa quella di girare il film in 16 mm e perché?
L. D. In realtà è capitato per caso…Quando stavo per iniziare a girare un amico mi ha detto: “ Lav, abbiamo a disposizione della pellicola in 16 mm, hai voglia di usarla?”
E io naturalmente ho risposto, che sì certo, il film lo avrei girato in 16 mm…
Per questo il film ha questa meravigliosa morbidezza del b/n, questa gamma di sfumature …
L. D. Sì, sono possibili molte sfumature con quel formato, che si comporta in un modo diverso, che dà anche una diversa prospettiva al film.
[1] Cfr. M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1977.