Venezia 79: Citarella, Shrader, Wiseman, Eustache…
Il giardino segreto. Venezia ’79.
di Daniela Turco
Mi capita spesso di ripensare a un testo molto particolare di Giuseppe Turroni, critico e teorico tra i più visionari e geniali di Filmcritica, in cui paragonava i diversi registi del cinema americano a degli elementi naturali o a corpi celesti. Per Turroni Nicholas Ray, per esempio, era il sole, John Ford l’albero, e, ancora, Raoul Walsh la roccia, Vincente Minnelli il pesco in fiore. Ma erano soprattutto i fiori, nei loro vari aspetti, a rappresentare altrettanto bene George Cukor, Mervyn Le Roy, Douglas Sirk, che per Turroni era “il fiore bagnato dalla rugiada”[1], e altri ancora. Tutti, non a caso, registi americani, letti da Turroni in profondità, nei loro sogni o deliri, nella loro verità e nella geometria perfetta delle loro forme, della loro luce, e tutti immersi nell’allegoria vivente e nello splendore di un giardino dell’Eden.
Per caso, nell’edizione 2022 della Mostra del Cinema di Venezia, l’immagine di un giardino, reale o fantasmatico, ricorrente in diversi film, mi ha riportato alla memoria quel testo meraviglioso di Turroni, che aveva visto nella forma di un fiore “la tradizione del vero cinema americano, della luce ambigua, del fiore perfetto, innocente e scaltro, duro e tenerissimo.” [2]
Se si prende allora, per esempio, Master Gardener di Paul Schrader, è proprio la coincidenza mentale e reale di un giardino, con tutti i suoi processi di nascita e di cura, a diventare la forma stessa del film, dove il protagonista Narvel Roth (Joel Edgerton), un uomo solitario di mezza età, dall’oscuro passato, è il giardiniere che si occupa di Gracewoods Gardens, l’ampio giardino ricco di piante e di serre, che appartiene a una ricca vedova Norma Haverhill (Sigourney Weaver), con cui Narvel va occasionalmente a letto. Quando però Norma gli affida la nipote Maya (Quintessa Swindell), una giovane di colore, la figlia orfana di sua sorella e di un afro-americano, perché le insegni a occuparsi delle piante, tutta la sua ordinata routine, all’improvviso, salta. Nel passato Narvel aveva fatto parte di un gruppo para-militare di suprematisti bianchi, dalla cui morsa criminale si è riuscito a strappare attraverso un programma di protezione dell’FBI, e questa storia oscura più che venire raccontata appare direttamente impressa nella sua carne: il suo dorso infatti è interamente marchiato da tatuaggi che celebrano l’orgoglio bianco. Schrader lascia deliberatamente spazio al gioco delle contraddizioni, che qui, ironicamente, prendono corpo nell’amore che nasce, imprevedibile e improvviso, tra la ragazza di colore Maya, sola e con problemi di tossicodipendenza, e il giardiniere Narvel, solo come lei, già membro di un gruppo neonazista e violento, votato all’odio razziale.
Paul Schrader continua a seguire le linee-guida di Robert Bresson, secondo il quale devono essere sempre i sentimenti a introdurre gli eventi, e non l’inverso, ed è in questo senso che si aprono nel tessuto del film, certi scarti repentini, che da First Reformed, in poi, prendono la forma inequivocabile della nascita dell’amore, con la sua capacità di sovvertire le cose e di portare lo splendore del vero e del nuovo, nel cuore del già vissuto/visto. A chi rimprovera a Schrader di continuare a rifare sempre lo stesso film, andrebbe risposto che se il diario, la scrittura, la solitudine, il sound della voce off interna, restano gli elementi strutturali di un dialogo con Bresson, che non si può interrompere, Schrader tuttavia riesce sempre a rimodulare con ogni suo nuovo film un paesaggio che sembra consueto solo in apparenza, mentre ogni volta ci aggiorna su che cosa oggi è davvero importante filmare. C’è sempre un’America ferita e dolente a causa dei suoi stessi errori, a entrare ripetutamente nei film più recenti di Schrader, severo come pochi altri registi americani con il suo paese, sia la terra desolata e depredata di First Reformed, nelle cui pieghe si annida la brutalità insensata di una lunga teoria di guerre e di morti inutili, o siano i tavoli da gioco di The Card Counter, che non riescono a esorcizzare l’incubo degradante di Abu Graib, che ogni notte ritorna per chi l’ha vissuto. Come in The Card Counter, William e La Linda attraversavano insieme l’isola incantata, risplendente di luci, dell’orto botanico del Missouri, così in Master Gardener l’esplosione dell’amore tra Narvel e Maya si rispecchia nella fioritura magica, repentina e notturna dei fiori, che circondano i due amanti come un abbraccio, nella sequenza più erotica e trascinante del film, che trova nell’incontro nel bosco tra il ragazzo e la donna matura di Tea and Sympathy di Vincente Minnelli, una simmetria rovesciata.
Giuseppe Turroni, critico-inventore e lettore profondo del cinema americano, mettendo in rapporto i registi americani con i fiori, non faceva altro, in fondo, che precisare e definire gli elementi essenziali e i confini del cinema americano, già fissati, secondo John Ford, tra il deserto e il giardino, un’idea la cui genealogia può risalire fino a Walter Whitman che, nel suo Foglie d’erba, considerava gli Stati Uniti, con le loro montagne, e le sconfinate praterie, in se stessi un immenso poema, quella stessa poesia violenta e tenerissima – che circola in Master Gardener – di un giardino dell’Eden.
La centralità catalizzatrice di un giardino si ritrova anche in Un Couple di Frederick Wiseman, si tratta di La Boulaye, sull’isola di Belle-île al largo della Bretagna, un giardino selvaggio che diventa il contrappunto naturale delle parole dell’attrice Nathalie Boutefeu, unica presenza e voce umana nel film, nei panni difficili di Sofia Tolstoj. Non è la prima volta che Wiseman introduce qualche variazione sottile, nella sua personalissima chiave interpretativa del documentario (anche questo, comunque, lo è), per concentrarsi su una pièce (scritta in questo caso a quattro mani insieme all’attrice Nathalie Boutefeu), che è il risultato di un montaggio a partire dai diari di Sophia e dalle lettere che Tolstoj le scriveva. Wiseman, infatti, nel 2002 si era basato su un altro epistolario, per realizzare il suo The Last Letter, tratto da un capitolo di Vita e destino di Vasilij Grossman, dove una madre ebrea durante l’ultima guerra mondiale scrive un’ultima straziante lettera al figlio prima di venire uccisa dai tedeschi. C’è quindi una violenza trattenuta nelle lettere che va espressa, pronunciata, portata alla luce – è questo movimento dall’interno all’esterno a interessare soprattutto a Wiseman -, una violenza, che cerca attraverso le pagine del diario una strada per esporsi, e che affonda le proprie radici nel disagio di una coppia formata da Lev e Sophia, segnati dall’istituzione del matrimonio, dalla differenza d’età, dai lutti per i figli morti da piccoli, dalle incomprensioni e dalla gelosia. Una violenza che trova una corrispondenza segreta e un’apertura al dialogo in questo paesaggio selvatico, arroccato sul mare, battuto dal vento e dalle onde.
E’ la stessa breve durata, di poco più di un’ora (64’) del film, a sorprendere lo spettatore per la sua densità concentrata, Wiseman infatti riesce a condensare la materialità di un’intera vita di coppia in un segmento spazio-temporale che si fa saturare non soltanto dal dolore, dall’amore e dalle attese deluse tra due sposi, sempre viste dallo sguardo/voce di lei, ma si lascia contemporaneamente occupare dalle piante e dall’erba, dai cespugli colorati dai fiori, dagli insetti e altri animali, filmati con la stessa attenzione. Vedendo Un Couple è quasi inevitabile ripensare al lavoro compiuto nei loro film da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, attraverso l’uso degli stessi elementi: la parola scritta/ pensata/detta, da un lato e dall’altro la presenza “naturale” del paesaggio, anche se è proprio a partire da un’analogia di ricerca, che si scoprono invece esiti differenti. Mentre il lavoro di Straub-Huillet di fronte alla natura, secondo un segno politico-economico va nella direzione, all’interno dell‘inquadratura, di uno stesso diritto di esistenza, dove la foglia di un albero, un fremito di vento, il rumore di un ruscello, non hanno mai in sé un valore meno importante dell’uomo, il lavoro di Wiseman, preso a sua volta tra la parola e le immagini di una natura non indifferente, sembra orientarsi piuttosto verso un rapporto che si spinge al limite del conflitto, tra uso della parola e spazio in cui viene espressa, come quando Sophia si trova a parlare dei suoi sentimenti di gelosia, in un punto del giardino in cui è completamente circondata da cespugli di fiori gialli, che con la loro esplosione cromatica estremizzano il carico di violenza e di angoscia che la governa. Un Couple, come Padre Pio di Abel Ferrara, inizia con l’immagine del cielo, ma, per entrambi i film, si tratta di un cielo drammaticamente non riconciliato, che lascia nello spettatore il senso di un’esperienza di concreta inquietudine, di difficile risoluziione. Di Un Couple restano impressi i due momenti girati negli interni e più immediatamente legati alla scrittura, Sophia al tavolino al lume di candela all’inizio del film e di nuovo illuminata da una lampada, alla fine, che la mostrano sola davanti alla pagina, in contrasto, fuori dalla casa, con certe sue magnifiche entrate laterali dentro l’inquadratura, che viene attraversata da Sophia in diagonale, ossessionata dal suo tormento interno e in cerca di un’impossibile liberazione. Questi due versanti opposti, interno/esterno, nella chiave “musicale” della stasi e del moto, non si annullano affatto a vicenda, ma si rivolgono l’uno verso l’altro in una tensione desiderante, che percorre i momenti teatrali della natura come i movimenti naturali dell’anima (e del corpo), ed è precisamente in questo fluire non riconciliato, dove si compie la danza delle api, il volo di un gabbiano, la fatica fisica e mentale di essere una moglie, che vive e si muove il film.
E poi, negli ultimi giorni di un festival certo non memorabile, è arrivato Trenque Lauquen di Laura Citarella, che ha cambiato di colpo il quadro di insieme e ha portato un modo nuovo, mobile e incredibilmente vivo, di lavorare sulla stessa dimensione narrativa del cinema, nella sua relazione con lo spettatore, con cui si stabilisce un rapporto immediato e sorprendentemente avventuroso. Realizzato da Laura Citarella, figura centrale del movimento del nuovo cinema argentino, un collettivo emergente di giovani cineasti, attori e produttori, e girato a Trenque Lauquen, la cittadina a 500 km da Buenos Aires, da cui prende il titolo, il film si divide in due parti e in dodici capitoli, che come altrettanti sentieri che si intrecciano e si allontanano, formando uno strano labirinto di corrispondenze e di vuoti, inseguono l’assenza di Laura (Laura Paredes, che insieme a Laura Citarella ha scritto la sceneggiatura), una ricercatrice e classificatrice botanica, che a Trenque Lauquen è stata vista per l’ultima volta. All’inizio del film, a cercarla sono il fidanzato di Laura Rafael (Rafael Spregelburd) e Ezequiel (Ezequiel Pierri) detto Chicho, un collega che la accompagnava nelle sue ricerche di campioni di piante e fiori nella campagna intorno a Trenque Lauquen, Presenza e assenza sono i due aspetti contrapposti e spesso sovrapposti che muovono il film, mentre Laura, esclusa dalle immagini al presente della sua ricerca, a poco a poco entra invece in campo attraverso le immagini- ricordo del fidanzato e di Ezequiel, entrambi – lo si scoprirà lentamente – innamorati di lei, ed entrambi ossessionati dalla sua inspiegabile sparizione. Come ha giustamente osservato, Bruno Roberti, fin dall’inizio dei 260 minuti della sua durata, la ricerca di Laura a Trenque Lauquen fa ripensare a quella di Laura Palmer in Twin Peaks3, con cui questo film di Laura Citarella condivide una stessa deriva verso l’ignoto e verso l’oltre-umano, che qui affonda direttamente le proprie radici nel real maravilloso, la preziosa linfa vitale che scorre da sempre in tutta la letteratura sudamericana. E come avveniva nella serie di David Lynch, la letteratura entra anche qui, perifericamente, ma non per questo con minore potenza, lasciando spazio e tempo per annodare i fili a uno spettatore/lettore, che si lasci prendere per mano e incantare dal piacere rizomatico e molteplice di questo film/testo in divenire, che ne contiene molti di più, al suo interno. Quello che affascina del film di Laura Citarella è soprattutto questa straordinaria ricchezza produttiva, che espone la gemmazione organica di una linea narrativa che ne nasconde parecchie altre, più segrete e interne, prese misteriosamente nel progredire di una deriva che gioca sullo slittamento, sullo scarto, sulla mancanza. Laura, la protagonista, in un punto del film, all’interno delle pagine di un libro di Alessandra Kollontaj, da lei consultato nella biblioteca di Trenque Lauquen, come documentazione per il programma sulle donne nella Storia, che tiene alla radio locale, scopre per caso un carteggio segreto, che risale agli anni ’60, tra due amanti, Carmen Zuma e Paolo Bertino, che usavano le pagine del libro per scambiarsi le lettere, e questo strano e affascinante detour, che viene raccontato da Laura a Ezequiel, mentre lo coinvolge al punto di farlo innamorare di lei, permette al film, a sua volta, di trasformare in immagini un epistolario segreto nascosto in un libro, e di inseguire l’incerto destino degli amanti in un altro continente. Racconti che procedono da altri racconti, che ne producono altri ancora e poi si perdono, amanti che si cercano, che vivono in continenti diversi, dove la donna a un certo punto, come avverrà poi a Laura, scompare. Ci sono molti fili dispersi in Trenque Lauquen che si interrompono, o perdono forza, mentre altri si sovrappongono, dentro un tessuto narrativo emozionante e sfuggente e che a partire dalla figura enigmatica di Laura è largamente dominato da fantasmi. È inevitabile forse avvertire questo tipo di risonanza in una terra come l’Argentina, eppure lungo tutto Trenque Lauquen si sente al lavoro una pressione indefinita e urgente, che diventa sempre più incalzante man mano che il film procede, in cerca di una rivelazione che sempre, però, si sottrae e che ha oscuramente a che fare con i luoghi, con una terra desolata e strana, impossibile da decifrare completamente. Sempre sul fronte dei fantasmi, in un altro punto del film, appare a Laura un’altra donna, Elisa (Elisa Carricajo) in cerca di un particolare fiore giallo, che le serve – le dice – come cibo per una misteriosa creatura, che tiene nella casa dove abita con una donna. Il punto di vista di Laura, infine, scivola dentro il film insieme alla sua ultima ricerca dell’ignoto, che finisce in una casa ormai abbandonata dalle due donne che l’avevano abitata, e dove è rimasta solo una stanza-serra interamente occupata dalle piante, unica traccia di quella misteriosa creatura mutante, e che adesso è, come loro, scomparsa. Nell’ultima parte del film, mentre cambia repentinamente anche il suo formato che passa ai 35 mm, si sente allora come Trenque Lauquen stesso sia diventato – o, invece, sia sempre stato – un film-creatura mutante in misterioso divenire, realizzata da una donna-madre; una produzione aliena che mentre offre allo spettatore una prodigiosa ricchezza di riferimenti e di risonanze, che scorrono da Jorge Luis Borges, ad Adolfo Bioy Casares, da Roberto Bolaño, a Virginia Woolf, ecc., si sottrae progressivamente alla vista, preparando il terreno per una via di fuga e nuovo spazio e respiro all’immaginazione, Sta forse in questo il modo sperimentale, in metamorfosi e terribilmente aperto al desiderio, secondo Laura Citarella, di fare del cinema.
Nel chiudere questo breve percorso tra i film di Venezia, nel segno di un giardino segreto che entra nella visione, come parte strutturale ed essenziale, più ancora che come presenza contingente, non può mancare Mes petites amoureuses (1974) di Jean Eustache, presentato a Venezia nella sezione dedicata ai film classici restaurati, per la presenza della campagna francese, del verde dei prati e dell’erba che si riverbera nei verdi anni del giovanissimo Daniel (Martin Loeb), preso da Eustache nel passaggio dalle scuole medie all’adolescenza, fragile e doloroso, eppure pieno di luce. Il piccolo Daniel viene tolto dalla casa della nonna a Pessac per andare a vivere con la madre (Ingrid Caven, splendida e altera) e il suo amante spagnolo (Dionys Mascolo) in un’altra città. Strappato agli amici e alla scuola, che la madre non gli fa continuare per mancanza di denaro, tra l’officina meccanica dove va a fare l’apprendista e il bar dove incontra nuovi amici e dove osserva le ragazze, Daniel appartiene alla stirpe inquieta e irresistibile degli Antoine Doinel, troppo sensibile, solitario e strano per adeguarsi alla vita, troppo sognatore e insolente per non cercare, almeno un po’, di cambiarla. Questa feroce terra di nessuno che segna il passaggio tra infanzia e giovinezza, immersa nella luce stupefacente di Nestor Almendros, viene osservata da Eustache con la necessaria durezza e la malinconia di qualcuno che sta raccontando se stesso e il proprio passato; indimenticabile il primo bacio della sala cinematografica (e di una ragazza, sua vicina di posto), dove scorrono le immagini di Pandora di Albert Lewin, e dove il cinema appare, per come è, con tutta la sua irresistibile potenza erotica che travolge sensi, pensiero e sguardo. Daniel dirà, “non saprò mai perché sono uscito, prima della fine…” Sì, dalla visione restaurata di Mes petites amoureuses si esce colpiti e come storditi per il troppo incanto, per la troppa realtà, per l’aria fresca che circola dentro le inquadrature e le fa respirare, per questa capacità straziante di vedere e di far vedere un filo d’erba, o un ragazzo, che cresce che Jean Eustache, cineasta mai abbastanza rimpianto, dolorosamente, possedeva; di film così meravigliosi, teneri, puri/impuri e tremendamente duri, non se ne fanno davvero più…
[1] Cfr. G. Turroni, “Cinema del cinema”, in Filmcritica n 229/230, novembre-dicembre 1972.
[2] Id.