Venezia 79: Bentu di Salvatore Mereu
Tra spighe e vento: l’attesa promessa di una danza
di Marco Allegrezza
“Son dunque i venti un invisibil corpo,
che la terra che l’mar che l’ciel profondo
trae seco a forza e ne fa strage e scempio.”
De Rerum Natura,
Tito Lucrezio Caro
Per la quarta volta sfogliano al vento le pagine di letterati sardi, e si fermano ora al racconto di Antonio Cossu, autore conterraneo di Salvatore Mereu, regista di questa opera cine-rurale: Bentu, il vento dell’isola delle isole, la Sardegna. Il film è in concorso alle Giornate degli Autori della 79a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Mereu persegue due suoi soliti binari paralleli, uno è quello del cinema che prende origine e trae ispirazione dalla parola scritta a quella scritto-parlata della dimensione filmica, l’altro è quello del suo habitat naturale, che torna e ritorna a essere la propria terra natia.
Già in Sonetàula (presente alla Berlinale 2008) aveva attinto dal romanzo omonimo di Giuseppe Fiori, portando sullo schermo l’ambientazione sarda dell’entroterra brullo; poi aveva eletto Bellas Mariposas di Sergio Atzeni, autore del racconto tradotto in film, presentato nel 2012 in concorso a Venezia nella categoria “Orizzonti”. Infine, prima dell’approdo freschissimo di Bentu, la sua penultima creazione c’era stato un adattamento da Assandira, romanzo di Giulio Angioni, con Gavino Ledda protagonista, anch’esso presente all’edizione del 2020 della Mostra, Fuori concorso.
Dunque Mereu torna a Venezia con la Sardegna, con un nuovo spunto letterario dai colori aurei paglierini, dai toni caldissimi e con una desiderata e sofferta attesa.
Un film semplice, che nella sua semplicità minimalista sveste di ogni strato le barriere – grotowskianamente intese – del racconto filmico, denudandosi fino al grado zero, allo stato essenziale, alla “povertà dell’arte”.
L’autore sembra voler adottare uno sguardo austero e una grammatica rigorosa in aperto dialogo con l’ambientazione rurale e luterana, dove i personaggi hanno gli animi riscaldati dalle giornate assolate e dal clima torrido, ma faticosamente esprimono morbidezza. La loro intimità viene manifestata in un modo del tutto personale, con un’altra comunicazione, unica come quella del sardo (spesso erroneamente assimilato a dialetto, ma in vero lingua ufficiale d’Italia). La fissità comunicativa è fra i connotati filmici che spesso siamo abituati a rintracciare nelle opere che perlustrano questa terra, tra i tanti vengono in mente Padre padrone dei Taviani e L’agnello di Mario Piredda.
Un’ora e dieci scandita da un ritmo solenne, composto di attese, articolato dalla capacità di resistere al tempo e al ciclo naturale, in attesa del sacro ritorno dell’elemento cardine del racconto, l’epifania implorata: l’arrivo del vento.
Un’etnografia rituale giocata attorno all’assenza di un fenomeno naturale, che il titolo del film subito annuncia (“bentu” è la derivazione di “vento” in lingua sarda), e alla speranza di un anziano pastore sardo, Raffaele, che, come un messia di terre promesse, incarna la resilienza, senza maledire nulla e nessuno dalle forme antropiche a quelle ecosistemiche, vivendo un granitico sodalizio con il luogo agreste che lo ospita, lottando pazientemente e pacificamente contro il tempo e lo spazio.
Questa traiettoria onirica dai richiami ancestrali narra la storia e il legame di due personaggi, che sono i veri e propri protagonisti, oltre e accanto allo scenario naturale.
In questa fiaba assolata, Raffaele vive un rapporto di amicizia paterna basata su incontri ripetuti ma non scontati con un giovane curioso, Angiolino, che costellano la vita lenta dell’anziano. Durante le ore di cammino che il bambino compie dal suo villaggio alla dimora del vecchio, non c’è spazio per la logistica urbana e contemporanea: si suda e si fatica alla maniera di una volta, valorizzando ogni scelta e gesto con una consapevolezza diversa da quella che si rivolge di solito ai comfort odierni.
Fra i due si instaura un rapporto puro e genuino, come le fronde del grano mosse dai soffi di vento che culla i loro dialoghi. Le conversazioni sono spesso prive di parola e trovano fondamento nei silenzi nei rumori della natura, nei gesti e negli sguardi fra discente e maestro. Il bambino è alla ricerca della libertà, vuole poter cavalcare al di sopra dei campi dorati. La richiesta da parte di Angiolino di montare la cavalla del pastore-magister è assidua, e si concluderà in segreto portando a compimento il rito di passaggio. Ma è possibile volare fino al sole senza far sciogliere la cera che tiene insieme le ali?
La doppia attesa va dispiegandosi con pazienza: da una parte chi attende il vento per la semina del proprio raccolto, quasi unica fonte di sostentamento, dall’altra chi aspetta il galoppo della libertà.
La poetica di questo racconto è nuda e cruda, proprio così come la natura si comporta, come il tempo che scade per le biologie umane, come il vento quando soffia troppo forte o, quando decide di non farlo affatto. Ogni situazione segue i suoi dogmi, senza poter scampare ad alcun intervento drammaturgico bonario; vediamo la realtà nel suo manifestarsi ruvido e amaro, contrapposto alle immagini calde di una fotografia che addolcisce e edulcora un po’ il verismo tipico dell’autore.
Raffaele, la vecchia sentinella del grano relegata nella sua estrema ruralità, ai margini della civiltà, nella sua piccola abitazione francescana, declina il tacito invito della modernità a utilizzare le macchine e non accetta compromessi: crede in qualche dio che prima o poi farà soffiare il “bentu”, così forte da far separare le spighe di grano dalla paglia, permettendo la raccolta del grano secondo le antiche usanze.
Va menzionata un’importante istanza, che riguarda la genesi di questa opera e che a essa deve la sua attuazione. Il film proviene da un’esperienza scolastico-formativa con l’università di Cagliari, dove, insieme a un gruppo di studenti del corso di laurea magistrale in Produzione Multimediale, il regista si misura nel tentativo di fare un film collettivo. Questo gruppo misto di studenti e di un docente si dedica con passione al notevole sforzo di dar vita alla storia, impiegando mezzi umili ed essenziali come lo è la sostanza del film. La sua lenta e complicata gestazione, la frugalità ed essenzialità “assomiglia molto alla sfida che il protagonista ingaggia con la natura, col vento, nel tentativo di assicurarsi il raccolto”[1], come dichiara Mereu. In Bentu, la volontà rende possibile la realizzazione di un film, più che le possibilità oggettive dei mezzi di produzione.
La dedizione con cui il protagonista persegue la sua impervia via somiglia alla scelta complicatissima dell’autore di voler rappresentare qualcosa che apparentemente sembra impossibile da raccontare. Una duplice missione dall’audacia biblica: non solo raccontare il vento, ma rivelare la sua non presenza e il peso di questa mancanza. L’autore e il suo personaggio si ritrovano in un duello d’amore e di speranza che, come i proverbi ci indicano, è l’ultima a morire. Forse.
Con questa opera continua un mosaico, un collage italiano che lavora con estrema intensità sulla necessità del fare cinema andando oltre al valore delle storie e infrangendo il reale con poeticità etica. Una vague che vede fra i suoi navigatori più intrepidi autori come Pietro Marcello, Alice Rorwacher e Michelangelo Frammartino, che ascolta, guarda e indaga territori e abitanti di territori, con placidità e curiosità, in un dialogo aperto che ritrae alcuni dei tratti più bucolici e rurali peculiari della nostra penisola, modellando componimenti magici, sognanti ma estremamente reali e veri.

[1] Pressbook Giornate degli Autori della 79a Mostra Internazionale di Cinema di Venezia: https://www.unica.it/unica/protected/384770/0/def/ref/NTZ384765/