Venezia 78
Due film veneziani
di Luigi Abiusi
Lo sguardo ancillare al logos, o, peggio, all’assunto programmato, pedagogico: questo sarebbe, proprio dal punto di vista prettamente linguistico, L’événement di Audrey Diwan vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia; anzi non tanto il film, che a pensarci bene ha una sua struttura, appunto una propria ottica, per quanto discutibile, quanto la postura, la maniera di intenderlo, di gran parte della critica, concentrata sull’assunto, sul referente, l’aborto, piuttosto che sulla scrittura. Il fatto è che io do per scontato il diritto all’aborto e alla rinuncia alla maternità da parte della donna: non c’è neppure bisogno di parlarne, di parlarne tra noi cosiddetti progressisti, discutere di ciò che è ovvio, l’assunto. C’è bisogno invece di parlare del tipo di sguardo che Diwan posa sulle cose, che è uno sguardo aggressivo, nichilista, cinico, alla maniera di Haneke o di Larrain, di un post-mortem sedimentato di cianosi. Quindi in effetti c’è un linguaggio connotato, c’è un’estetica alla base dell’Événement ma nel senso di una corporalità vissuta tutta come oppressione, livore, occlusione mefitica; e nel senso di un’estrema freddezza dell’inquadratura che congela i tessuti dell’immagine fino a provocarne la morte. Se c’è una responsabilità quindi nel procedimento di Diwan non è certo nell’impugnare un tema, ripeto, sacrosanto, quanto in questa modalità mortifera di trattare la sostanza cinematografica, facendone giogo, peso, embrione, quando non vero e proprio cancro che cova malefico nel ventre, di cui liberarsi, e che in effetti piomba nel fondo della latrina con tonfo simile a quello di uno stronzo. È la riduzione al fecale di ciò che è fetale, che resta tale, cioè feto, non feci, a prescindere che sia giusto (cosa che in effetti è) liberarsene o rinunciarvi, una cosa o l’altra, dipende dai punti di vista, appunto: ecco è una questione di sguardo. L’occhio deve dare conto di questa differenza di sostanza e soffermarsi sullo straziante esaltante meccanismo della vita e della morte in cui è inscritto ogni “avvenimento”, deve cioè mostrare il risvolto poetico, fors’anche lirico, legato al tragico, il precipitato di dolore esistenziale («solo il dolore è vero» scriveva Campana in esergo al Più lungo giorno), che va oltre il contingente, l’événement, e si proietta nelle ambagi del tempo. E non parlo del rimorso che Anne dovrebbe avere, del senso di colpa: questa sarebbe un’interpretazione ridicola, da papaboys, tanto più se venisse dal dettato di un ateo o, se mai, di uno che crede solo nelle immaginifiche inferenze del Segno. Parlo di cinema, di come vedere e mostrare le cose: in questo caso del trattamento scatologico del feto, non parlo dell’assunto, del referente; parlo della forma non della cosa, quindi della necessità del poetico che leghi il particolare al Tutto, all’annaspare senza ragione degli esseri sulla crosta terrestre, o anzi in ragione di assenze, costanti mancanze, estirpazioni necessarie.
E a proposito di questa forma The Last Duel di Ridley Scott, presentato fuori concorso, appare più convincente, più congruo con una visione sensibile delle cose. Qui lo sguardo, l’incedere del film, si ramifica assumendo tre diverse angolazioni sulla cosa, sulla condizione femminile colta in un passato che però non manca di riverberarsi nel presente. La riprensione nei confronti del maschio è totale: potenza dell’immagine, di quell’icona che era solo in potenza e che ora Scott riesce a cagliare in sequenze precise, prive di ogni reticenza. Così come totale è la partecipazione alla vicenda di Marguerite, alla sua dignità, intelligenza e fermezza d’animo non priva di tenerezza, di sensibilità appunto. Un’emotività – spesso in accezione femminile, in adesione al femminile – verso cui Scott ha sempre dimostrato di protendere facendone spesso immagine viva, catartica, vibrante: ciò anche prescindendo dall’archetipo di Thelma & Louise e considerando magari film più marginali come The Counselor, forse troppo sottovalutato e invece complesso sostrato di elementi psicologici ed esistenziali. Ecco cosa manca all’Événement tutto ingombro di corpo lancinato e occhi cinici, pesanti, lividi: la riflessione esistenziale, universale, a partire da ciò che è circoscritto, dall’avvenimento sotto la cui luce di rimando prenda nuova luce. Penso a due romanzi recenti, due opere prime rispettivamente di Raven Leilani, Chiaroscuro e Megan Nolan, Atti di sottomissione, in cui il femminismo non si riduce ad aggressione indiscriminata, cieca, cinica, ma si problematizza, si sfrangia tra lotta orgogliosa, nuda confessione, autoironia, ossessione. L’assioma non è in discussione, soprattutto nel libro di Nolan, e si afferma all’interno di una prospettiva prismatica, in cui la sensibilità, il desiderio anche spinto, conturbante, il masochismo, la riflessività non soggiacciono alla sinossi, allo stereotipo dell’aggressione contro tutto e tutti e, magari, la parità dei diritti, anche del diritto a non essere genitore, diviene il prodromo, il motore di un diritto dell’essere, del diritto brulicante, perturbante a essere.