Venezia 78
Vertigo
di Daniela Turco
A volte, di un festival, sono certe scelte di linguaggio a restare ancora più impresse dei film
in cui si trovano, come un modo insolito di inquadrare o di lavorare il tempo, o la forza di determinati movimenti di macchina, che di per sé trasmettono con la loro presenza un senso di vertigine.
In Reflections di Valentyn Vasyanovych, in concorso al Festival di Venezia, ad esempio, è il rilievo dato alla profondità di campo – come realtà fisica e come forma simbolica – a diventare il senso stesso del film, che infatti da lì prende forza e direzione, ponendo lo spettatore di fronte ad uno spazio profondo, ambiguo, che chiede e, nello stesso tempo, resiste a essere esplorato.
Così, a partire da Reflections, la vertigine mi è sembrata la figura più intensa e ricorrente, comune a una serie di film visti al festival, iniziando dal lavoro sulle inquadrature terse che precipitano verso il punto di fuga del film di Vasyanovych, per continuare con l’immersione verticale, scavata nel tempo di Il buco di Michelangelo Frammartino, dove la ri-scoperta di un’avventura speleologica coincide con un atto di creazione.
In The Card Counter di Paul Schrader, la vertigine, invece, prende improvvisamente corpo attraverso l’uso deformante e baroccodel grandangolo, che immerge un’intera sequenza nella violenza degradante e circolare di Abu Ghraib, portando così nel film un segno politico, in contrasto violento con le rimozioni colpevoli della “democrazia” americana, un iter coraggioso già iniziato da Schrader con First Reformed,
Nel “corto” The Night di Tsai Ming liang, invece, la vertigine sale in modo imprevedibile, dall’incontro-sopralluogo su alcuni dei luoghi ricorrenti e anonimi, che si trovano sempre disseminati nel suo cinema, qui, svuotati di quei corpi significanti – uno per tutti: Lee Kang sheng -, che da sempre hanno illuminato la costellazione di Tsai, e dai quali ha preso vita e senso la sua opera-mondo. Una vertigine trasmessa da questo strano mediometraggio, a metà tra il diario occasionale e il sogno, in cui vengono ripresi spazi vuoti, incroci di strade, fermate d’autobus, chioschi, cavalcavia – presenza determinante nei suoi film – dalle pareti coperte di frammenti di manifesti consumati dal tempo, che interpellano la memoria dello spettatore, attraverso tredici inquadrature fisse, filmate dallo stesso Tsai Ming liang, malinconico regista-flaneur, che nel novembre del 2019, nella notte di Hong Kong, sembra andare alla ricerca di luoghi e di un tempo perduto altrove, sperando nell’incontro, sempre possibile, con il Cinema, che, come la notte, inesorabilmente fugge via. E’ questo infatti il titolo originale del film, Liang ye bu neng liu (La dolce notte fugge via), lo stesso di una canzone cinese degli anni Quaranta, che malinconicamente conclude il film. Forse, come dice la nota di regìa, si tratta di un omaggio alla città di Hong Kong, eppure l’assenza di Lee Kang sheng, che si registra solo in pochissimi film della filmografia di Tsai Ming liang, – specialmente dopo Days – , porta nel film un senso di vuoto sconfinato, un’assenza, che resta.
In un certo senso, in ognuno di questi film, visti alla Mostra, si apre un abisso, che per Reflections va ben oltre il tema della guerra nel Donbass, spingendosi nelle fratture interne del soggetto, nei rapporti tra le persone, nel non detto scavato da quel vissuto, mentre la guerra immaginata come esperienza-limite, apre anche nel film di Schrader una voragine dove si affollano le immagini-incubo di Abu Ghraib, come eterno ritorno del rimosso, deformato nella dilatazione del grandangolo, a tormentare per sempre la coscienza di William Tell (Oscar Isaac), il protagonista del film.
Nel film di Valentyn Vasyanovych, la guerra compare fin dalla prima scena, mimata da un gioco tra ragazzi, che si sfidano a paintball nella palestra della scuola che si intravede nella profondità di campo dietro lo schermo di un vetro trasparente, che ben presto si ricopre di macchie colorate, mentre in primo piano, il chirurgo Serhij (Roman Luc’kyj) è impegnato in una conversazione sulla guerra russo-ucraina con Andrij (Andrij Rymaruk), il nuovo compagno della ex-moglie, in licenza dal fronte. E’ il 2014, all’inizio del conflitto russo-ucraino, che già si rifletteva nel film precedente di Vasyanovych, Atlantis (2019), e che qui si carica di una crudezza estrema, con l’uso deliberato del piano sequenza durante le sessioni di tortura dei prigionieri, a colpi di trapano elettrico. Reflections potrebbe sembrare – e lo è – un film sulla violenza e sulla brutalità della guerra, tuttavia, ciò che a Vasyanovych sembra importare di più, è riuscire ad agganciare la piètas di certe scelte o di certi gesti, come quando Serhij, a un certo punto fatto prigioniero dai russi, si trova costretto a uccidere Andrij, per mettere fine alla sua insopportabile sofferenza dopo le torture, e, in seguito a contrattare con l’addetto allo smaltimento dei cadaveri, perché il suo corpo possa essere restituito alla famiglia. Perfino la cremazione dei resti di un piccione che si era schiantato contro la sua finestra, di cui si occupa Serhij insieme alla figlia Polina (interpretata dalla figlia di Vasyanovych, Nika), è un gesto pietoso che mette in contatto padre e figlia dando loro il tempo di parlare della vita, della morte, della colpa, del senso del lutto. La bellezza del film di Vasyanovych nasce da questo contrasto radicale, tra il rigore e la trasparenza delle inquadrature e l’opacità insondabile delle vite, l’ambiguità vertiginosa delle scelte che compiono le persone, evidente in sequenze dove spesso la presenza dei vetri crea un ulteriore diaframma rispetto alla scena inquadrata, mettendola in abisso, come la sala operatoria, racchiusa da pareti di vetro, dove Serhij lavora, o il cristallo del parabrezza della macchina su cui viene proiettato il film che vede insieme alla figlia, o la stessa finestra panoramica del suo appartamento che sovrasta città, contro cui urta il piccione, ingannato dal riflesso. Serhij, quando viene rilasciato dai russi non racconterà né all’ex moglie nè alla figlia Polina che Andrij è morto per mano sua in prigione, invece, quasi inconsapevolmente gli si sostituisce, regalando a Polina il drone che Andrij le aveva promesso e iscrivendola al corso di equitazione, come l’altro si era impegnato a fare. Quello di Serhij è un semplice gesto di riparazione, o si tratta invece della piena ri-occupazione di un proprio ruolo perduto con la figlia e la ex-moglie, come forse farebbe intendere la magnifica sequenza finale? Sul palcoscenico di un teatro, a turno, i vari partecipanti di quello che sembrerebbe un gioco o una terapia di gruppo, devono indovinare dal modo di camminare l’identità di chi si sta muovendo alle loro spalle; tra di loro ci sono anche Serhij, sua figlia e la sua ex moglie, che, alla fine della prova, dopo essersi “riconosciuti”, sembrano avviati a ricomporre il nucleo familiare. E’ indicativo che il film si apra e si chiuda con due giochi-rappresentazioni: il primo che mima una scena di guerra, dove si vince quando si colpisce l’Altro, e il secondo che si fonda invece sul riconoscimento dell’Altro, attraverso un sentire amoroso, che per leggere l’invisibile, deve attivare, in ascolto, la propria attenzione. In fondo, il progetto di Vasyanovych, sembrerebbe proprio quello di far coesistere questi due aspetti contrapposti – da lì, la sua rischiosa bellezza – e cioè di portare avanti attraverso l’uso dello schermo-finestra-quadro, della profondità di campo, del piano- sequenza, una riflessione teorica su tutti gli aspetti più filosofici del linguaggio cinematografico e sulla loro funzione, mettendo nello stesso tempo di fronte allo spettatore, a sua volta chiamato a decifrare l’invisibile, quegli aspetti della realtà che risultano più duri e più difficili da comprendere, come la guerra, la morte, l’oscurità della vita, i pezzi dispersi di un puzzle forse impossibile da ricomporre.
La presenza del carcere ha un ruolo essenziale anche nel film di Paul Schrader, che infatti fa procedere dalle inquadrature fredde e asettiche della sua cella l’iter di William Tell, ex militare ossessionato dal proprio passato, diventato in prigione un abile giocatore di poker. Anche Schrader non smette di coltivare la propria ossessiva passione per lo stile trascendentale di Robert Bresson, su cui ha scritto molto, e il cui fantasma non smette di far circolare produttivamente tra le immagini dei suoi film. Perché se il cinema, come non si stanca di ripetere J.L. Godard, è una forma che pensa attraverso le mani, non avviene per caso che il passaggio di esperienza tra i due cineasti si compia attraverso l’immagine finale di Pickpocket – due mani che si stringono attraverso le sbarre di una cella – che infatti ritorna in The Card Counter a illuminarne l’ultima inquadratura, splendida per densità di durata, lungo i titoli di coda, dove le dita di entrambi – di William e della sua donna, La Linda -, senza potersi toccare, non smettono di incontrarsi attraverso il vetro del parlatorio del carcere. Ma la vicinanza a Bresson, è evidente anche per l’importanza data da Schrader alla scrittura: in The Card Counter, le parole sono tatuate direttamente sul corpo di William, e come nel precedente First Reformed, il protagonista, in analogia con il curato di campagna, il ladro di Pickpocket e altri personaggi bressoniani, annota i suoi pensieri in un diario, mentre in tensione con la pagina scritta, ritorna la presenza della voce off, con la stessa funzione ossessivo-ripetitiva già usata da Bresson, fino a quando non arriva qualcosa, o qualcuno, a spezzare il martellare sordo del ritmo. Anche il magnifico soundtrack di The Card Counter, di Robert Levon Been si muove a sua volta nel film come una presenza-fantasma – era di suo padre, Michael Been, il soundtrack di Lo spacciatore –, che fa montare a ridosso delle immagini una stretta ansiosa, dove i battiti del cuore si mescolano al ritmo affannoso del respiro, un’immagine-suono perturbante di cui non ci si libera facilmente. In fondo, tutto il film, in cui William tenta invano, attraverso il giovane Cirk (Tye Sheridan), un processo di redenzione che possa salvare entrambi e spezzare le catene della colpa e della vendetta, è una meditazione dolorosa sull’alternanza tra libertà e costrizione, che porta a una negoziazione continua tra se stessi e le proprie ossessioni, alla disperata ricerca di una possibile trasformazione, che per Bresson era data dall’imprevedibilità della Grazia, e per Schrader è l’evento inatteso dell’incontro d’amore. Un amore, quello tra William e La Linda (Tiffany Haddish), che si fa strada nella geometria degli sguardi che si incrociano tra i tavoli da gioco, i banconi dei bar, i motel scalcinati, quegli aspetti dell’America che Schrader come pochi altri – Lynch, Scorsese, Ferrara, Eastwood… – sa portare in superficie, e poi, nell’esplosione di luci colorate, che brillano tra le piante nell’orto botanico del Missouri, che lo trasforma in una specie di isola favolosa fatta di luce dove La Linda ha portato William, nasce tra loro qualcosa di più potente dell’odio, della vendetta e perfino del carcere, qualcosa che si muove nel registro reale e metaforico di un miracolo della luce, che già prepara il loro incontro in prigione e l’ultima inquadratura di due dita che si toccano all’infinito.
Lo stretto rapporto tra la luce e il buio, che sta alla radice del cinema, costituisce anche il nucleo profondo di Il Buco di Michelangelo Frammartino, itinerario sperimentale di un’esplorazione nell’abisso del Bifurto, situato nel parco del Pollino in Calabria, una grotta carsica che scende nel sottosuolo per 683 metri. In fondo, il film di Frammartino fa in verticale, lo stesso gesto che Vasyanovych compie in senso orizzontale. Entrambi i registi, attraverso la profondità, lavorano alla ricerca dell’autenticità di un’esperienza condotta attraverso i mezzi del cinema, spinti a scoprire che cosa ancora il cinema può, di fronte a un ignoto spazio profondo, siano i suoi confini quelli di una cella, o l’insondabilità dei sentimenti, o la configurazione tortuosa e sconosciuta di una grotta.
Il lavoro di Frammartino ha scelto da tempo la Calabria come luogo elettivo sia per provenienza familiare, sia per gli aspetti più ancestrali e segreti di questa terra, che già trovavano spazio in Il dono (2003) o in Le quattro volte (2010), dichiarando tuttavia di aver scoperto solo per caso, di recente, l’esistenza della grotta del Bifurto, che gli era subito apparsa come una specie di sorprendente “fuori campo” naturale del paesaggio. E se si tiene presente che nelle note di regia che accompagnano il film, Frammartino ha osservato di essere sempre stato colpito dalla coincidenza, a fine ’800, della nascita storicamente contemporanea della speleologia, della psicoanalisi e del cinema, appare chiaro come la ricostruzione della prima spedizione del 1961 di un gruppo di speleologi nell’abisso del Bifurto, non sia che il pretesto del film, soltanto il primo strato che emerge in superficie di qualcosa di molto più segreto e profondo, verso cui il film tende. Qualcosa che si spiega anche con la presenza di un direttore della fotografia come Renato Berta, che ha portato nel film di Frammartino tutto lo spessore della sua esperienza – si pensa al suo lavoro al fianco di Jean Marie Straub e Daniéle Huillet, in particolare, a Mosè e Aronne o a Fortini-Cani, film dove si può provare quasi una percezione fisica delle età geologiche, che dal paesaggio, dai blocchi rocciosi, passano direttamente dentro le sequenze -, che sa trasformare la ricostruzione di una spedizione di giovani speleologi in pieno boom economico, nel miracolo di un vero e proprio atto di creazione, come se le nuvole, la montagna, i boschi e alla fine la nebbia che scende sui prati, fossero visti per la prima volta, in una specie di alba del mondo.
L’incontro tra la spedizione degli speleologi e la grotta, in cui si scende per tentativi successivi, non è che uno degli aspetti di questa avventura che si tende continuamente tra la luce e il buio, in un’atmosfera sospesa dove, a un certo punto, è il tempo stesso ad andare fuori di sesto, ormai sganciato da ogni coordinata, fluttuando all’interno di questo “fuori campo” reale del paesaggio, mentre attraverso una magnifica insorgenza dei suoni – lo sgocciolio dell’acqua, i rumori attutiti – lo spettatore si sente trasportare verso un luogo misterioso e remoto, che fa pensare alle prime tracce di vita che precedono la nascita, impresse nell’inconscio. In questa chiave, come quello di Schrader, il film di Frammartino, attraverso l’uso del dolby Atmos, resta l’esperienza di passaggio sensoriale tra suono e immagine, più destabilizzante e pervasiva registrata alla Mostra.
E quando Frammartino prende parte e filma il progressivo sprofondare del gruppo dentro gli anfratti contorti della grotta, che all’esterno verranno riportati con attenzione nel disegno su carta dove si traccia la mappa dell’abisso, non fa che mettere in atto della pura poesia underground, che cerca di tenere insieme i fili invisibili di cose tra loro lontane, come ad esempio il rapporto misterioso che collega il viaggio verso la morte di Zì Nicola, il pastore in dialogo con i suoi animali, con il raggiungimento terminale del fondo della grotta, o come lo stesso titolo del film, non a caso identico a quello del 1998 (The Hole) – un altro film bagnato da un tempo “fuori sesto” – di Tsai Ming liang, un regista spesso indicato da Frammartino come fondamentale per la sua esperienza di cineasta. In questa chiave, Il Buco, si apre davanti allo spettatore con la stessa fascinazione di un sito archeologico, composto di vari strati e livelli, prima ancora percettivi che narrativi, dove l’invito ad abbandonarsi al buio fitto di risonanze e di richiami, in cui si riverbera anche l’esperienza della visione dello spettatore al cinema e dove l’esperienza sensoriale coincide con quella concettuale, fa entrare in contatto con le parti più sconosciute e profonde di sé. Di qui la vertigine e il dono raro di un film, che a sua volta, per tappe successive, tocca le zone della Storia, del mito, della ricerca antropologica, dell’avventura umana mossa dalla volontà di sapere e di quella animale, per cercarne con passione e rispetto le interferenze, i punti di incontro e di lontananza, i tratti condivisi di trasformazione.
Anche il film di Wilma Labate, La ragazza ha volato, è segnato da una frattura interna, uno spazio vuoto, che certamente entra attraverso dallo stupro compiuto da un ragazzo, Brando (Luka Zunic) su Nadia (Alma Noce, splendidamente schiva), la sedicenne protagonista del film, ma che va a toccare una realtà molto più problematica e vasta, che riguarda la mancanza di comunicazione tra le persone e un impoverimento progressivo del linguaggio, che molto ha a che fare con la nostra esperienza contemporanea di vita sociale, e di cui la violenza sessuale, del resto, in costante aumento, è uno degli effetti.
Per una regista come Wilma Labate che fa derivare dal prediletto Mouchette di Robert Bresson, l’archetipo su cui costruire i soggetti femminili anomali che si muovono dentro i suoi film, da Ambrogio (1992) a Domenica (2001), da MaledettaMia (2003) a Qualcosa di noi (2014), è più che scontato che ogni suo film venga costruito su precise scelte formali, che in La ragazza ha volato si fanno ancora più evidenti ed essenziali.
Nel lavoro di Wilma Labate, capita spesso che proprio i movimenti più intimi, i sentimenti interni ai suoi personaggi femminili – si tratta di donne, o di ragazze, radicalmente sole, che restano in mente per lo spessore fisico con cui sono filmate – si riflettano nei movimenti di macchina e li orientino, come avviene qui con il magnifico piano sequenza che apre il film, in cui la macchina da presa, quasi danzando, scivola dolcemente per le strade di un quartiere periferico di Trieste, dove è stato girato, e avanza tra i ragazzi e le ragazze che entrano e escono dall’inquadratura, come guidata dal caso, prima di scoprire la solitudine scontrosa e vulnerabile di Nadia e di iniziare per questo a seguirla. Analogamente, più avanti nel film, dopo lo stupro che Nadia ha subito da Brando, incapace di accettare di essere respinto dalla ragazza, saranno proprio le ellissi e gli scarti temporali, a imprimere nel film i segni più intensi fino a veicolarne la sintassi e il senso. Quando Nadia scopre di essere rimasta incinta, l’angoscia senza parole che guida i suoi itinerari attraverso una città difficile, di confine e di conflitti, la spinge alla fine a chiedere aiuto alla sorella maggiore, che vive fuori Trieste, una città, scelta deliberatamente da Wilma Labate per il colore grigio del suo mare, malinconico e poco mediterraneo. La stessa famiglia di Nadia, nell’incapacità di vedere il disagio della figlia, per stanchezza o distrazione, partecipa di questa miseria simbolica di linguaggio, che isola ciascuno nella solitudine e impedisce alla ragazza di spiegare l’origine della gravidanza e di parlare ai familiari della violenza subita. E’questo nodo intricato, in fondo, il tema reale che ci riguarda tutti da vicino e che entra trasversalmente all’interno di questo “piccolo” film indipendente, che nello stile della regista procede per sottrazione, per ellissi e per scarti temporali, di cui il momento più sorprendente e inatteso – che ribalta di colpo la violenza in vita – è l’immagine di Nadia che quando si alza dal banco a scuola, mostra in primo piano il corpo arrotondato dalla gravidanza. Non è dato sapere perché Nadia abbia scelto di tenere il bambino, nonostante fosse stata presa in precedenza un’altra decisione; il film lascia lo spettatore libero di individuare le eventuali risposte, mentre si sofferma invece sulla densità fisica di una serie di momenti del corpo, come l’abbandonarsi di Nadia al piacere autoerotico nel bagno della scuola, il suo riso liberatorio durante il corso di preparazione al parto, e dopo la nascita del bambino, il nuovo legame fisico dell’allattamento tra loro. Sono momenti emozionanti perché attivano livelli di realtà eccedenti, aspetti tumultuosi e incontrollabili della vita – di segno completamente opposto allo stupro -, che portano quasi a sganciarli dal filo narrativo e lasciarli sospesi, in ascolto del corpo e della sua lingua segreta e potente, che resta nel film l’aspetto più libero e aperto alla speranza.
In chiusura di questo attraversamento della Mostra nel segno dell’abisso e della vertigine è importante occuparsi di Fellini e l’ombra di Catherine Mc Gilvray, per la serietà della ricerca che lo sostiene e per l’approccio inusuale con cui il film avvicina il mondo di Federico Fellini, osservato attraverso l’incontro determinante del regista con l’analisi junghiana e in particolare con Ernst Bernhard, l’analista che l’aveva preso in cura. Il film di Catherine Mc Gilvray, però, non si limita a far luce su un aspetto essenziale e mai sufficientemente indagato della vita del regista, ma va oltre, intanto, compiendo un lavoro sperimentale sulla stessa forma-documentario, che viene aperta all’incontro tra materiali eterogenei, come le riprese realizzate a Cinecittà e sui vari set dei film di Fellini, che si mescolano ad estratti dei film stessi ( I vitelloni, 8½, Giulietta degli spiriti, La strada, ecc.), e al magnifico lavoro di animazione, di Gisella Penazzi – un altro film dentro il film -, che parte dagli stessi disegni di Fellini, e li “anima” facendoli muovere nel passo del cinema. Ma la forza più profonda e spaesante di Fellini e l’ombra, consiste nell’aver trasformato un’indagine insolita su un regista molto noto, nella flagranza di un’opera avventurosa, colta sul vivo nel suo stesso farsi. A legare tra loro i diversi materiali che formano il film, entrano infatti le immagini “al presente” di Claudia de Oliveira Teixeira, (già protagonista di L’Iguana (2004) di Catherine Mc Gilvray), nel ruolo di una documentarista che vuole fare un film su Fellini e il suo rapporto con la psicoanalisi e il sogno; è questa la messa in abisso in cui Catherine Mc Gilvray si rispecchia, lasciando solo alla sua voce in off, un segno della sua presenza, che accompagna – vicina e lontana – il movimento del film. Fellini e l’ombra a sua volta procede – come un’analisi vera e propria – mettendo in atto una specie di crisi permanente, giocata tra i raddoppiamenti, le ombre e i sogni-segni, che prendono vita dagli stessi disegni di Fellini, raccolti nel suo Libro dei sogni, tutti elementi alla ricerca – come il regista del resto ha fatto in tutta la sua opera – di un incontro con l’Ombra, nel senso junghiano di lato oscuro, di abisso, di archetipo dell’inconscio, il magma da cui nascono i sogni, le paure, i desideri, il luogo in cui si scende per incontrare se stessi e da cui attinge il pensiero creativo. Fitto di dialoghi singolari e illuminanti con le persone vicine a Fellini, in primo luogo Gianfranco Angelucci, suo collaboratore e amico, che accompagna l’itinerario del viaggio, il film, attraverso la ricerca di Claudia/Catherine, si muove tra Roma, Rimini, la città di origine di Fellini, amata e odiata, per spingersi fino alla torre di Bollingen, la dimora sul lago di Jung, dove è conservata la sua pietra alchemica. E dalla sceneggiatura (di Catherine Mc Gilvray, Caterina Cardona e Bruno Roberti) accanto ai temi della ricerca psicoanalitica in dialogo continuo con le immagini, si sentono emergere a tratti anche aspetti più esoterici e segreti, che Fellini immetteva nel disegno fluido dei suoi film dove l’acqua, il mare, il buio, la luce, l’archetipo femminile, e quello di un eterno fanciullo, trovavano spazio e respiro. Per questo il film si conclude necessariamente con un commovente teatro delle ombre in movimento dietro uno schermo bianco, interamente dedicato a Giulietta Masina, l’insostituibile compagna nella vita e nell’arte di Federico Fellini, nell’alchimia di un incontro davvero esoterico, da lui avvertito come predestinato e perfino anteriore al loro incontro reale; un’unione magica e ancestrale che coincide con la radice stessa della creazione, con il misterioso tesoro nascosto, da cui provengono i suoi film.
