VENEZIA 2014: NOBI di Shinya Tsukamoto
Alla radice del lampo
di Lorenzo Esposito
Quel che da sempre in Tsukamoto è messa in abisso dell’occhio attraverso la sua continua ristrutturazione nervosa, diventa infine nervo scoperto, posizione irrintracciabile dell’irrintracciabilità del punto di vista, spazio ridotto a brandelli e insieme di infinita catatonica capillarità (qui peraltro giocata sull’incunearsi nel capostipite Nobi di Kon Ichikawa, dove il Nobi di Tsukamoto, più che il remake – e lo è paurosamente punto per punto – sembra fiume che scorre sotto il letto del fiume, orizzonte su orizzonte, budella nel budello). L’immagine è immagine-luce, e la luce viene esposta a una fusione interna apocalittica, come se al posto del pennello si usasse una spada di fuoco, e al posto della tela ci fosse una lastra di metallo, in modo da generare (raschiare) le linee del disegno direttamente dalle scintille. Così l’arancio del cielo sembra risucchiato dalle esalazioni rosso fango mischiate a clorofilla (la giungla di sangue e acqua delle Fiilippine che imprigionano i giapponesi – con in mente il Lang dei Guerriglieri e il Lav Diaz più fluviale e misterico): fino a tornare all’originale bianco e nero del capostipite, inventando un lucore che è biancore capace di abbattere l’irrimediabile ‘deficienza’ digitale che non conosce il nero (mai visto nulla del genere: ancora in tempi di pellicola l’unico fu Freddie Francis in Dune di Lynch a fare un film a colori in bianco e nero; ma poi qui, come fossero anch’essi colore prima ancora che insorgenze filmiche, fulminei come traccianti passano il Fuller di Merrill’s Marauders , Coppola Apocalipse Now, Boorman Hell in the Pacific, Kubrick Fear and Desire, Inoshiro Honda Matango…).
E mentre il film si piega e si attorciglia, mentre pratica sul suo stesso corpo bruciature e sventramenti (con Tsukamoto ormai per sempre in scena, protagonista cristicamente devoto, cioè crocifisso, alle proprie immagini), l’occhio si allontana, allibito, sottratto alla scena, insieme vetroso e lucido come una gola in fiamme, abbandonato in uno spazio di nessuno che è oltre la macchina e oltre la mutazione viscerale della pupilla, strisciante sulla linea invisibile dello schermo, non più nostro e non più film, qualcosa di innominabilmente antropofagico (Julio Bressane ne apprezzerebbe il dislimite), che mangiando e succhiando e abbeverandosi direttamente dal bulbo supera anche lo stato fantasmatico, recede cioè da ogni automatismo conosciuto del filmare, diventa lembo, vibrazione, radice di un lampo, ultima propaggine sonora di un’eco infinita, convulsione pura, negazione di qualunque origine.
Dove siamo noi a questo punto? Forse dove resta l’anima di un soldato morso dalla fame e azzannato dall’orrore: nel vuoto svuotato, nella pupilla spenta e, al tempo stesso, nella rinascita connessa sempre all’accecamento, nello sfrigolio dell’ultimo fuoco. Slabbrati, tagliati in due, rimorti. Come l’immagine: quieti e ossessi.