VENEZIA 2014: JAYUEUI ONDUK (HILL OF FREEDOM) di Hong Sangsoo
La malinconica incertezza del tempo imperfetto
di Daniela Turco e Lorenzo Esposito
Time is out of joint, idea-pensiero shakespeariana che scorre in alcuni film visti alla mostra, come in 3Coeurs di Benoit Jacquot o in Hill of freedom di Hong Sangsoo, 66 minuti densi e tuttavia aerei, che mettono in questione un’idea lineare di tempo, a partire dalla cornice solo apparentemente banale di un quotidiano che non è mai tale e di un’immagine continuamente sottratta al tempo presente, che del resto, come ha sempre sostenuto Jean-Luc Godard esiste solo nei brutti film. Hong Sangsoo propone qui un altro dei suoi racconti di e sul cinema, scombinando dolcemente la linearità, anche se tutto sembra svolgersi nella malinconica incertezza del tempo imperfetto. Il film inizia con una ragazza coreana, Kwan, che trova un pacchetto di lettere che le ha lasciato un suo amico giapponese arrivato in Corea per farle visita senza però riuscire a incontrarla. Ma Kwan inciampa, le lettere scivolano giù per le scale e il loro ordine si scompone e così con il procedere delle sequenze si va costruendo una vertigine morbida e progressiva che gioca con gli elementi di un puzzle che non si potrà mai ricomporre perfettamente, come quando il cane della tenera proprietaria del caffè Hill of Freedom si è perduto, e Mori riceve da lei un invito a cena per ringraziarlo di averglielo ritrovato, diverse sequenze prima che il cane realmente scappi via…
È un film fessurato e intenso, l’idea stessa dell’ambiguità della dimensione temporale già parla di cinema ed entra nel racconto anche come oggetto concreto: il libro sul tempo che Mori porta spesso con sé e che viene posato sui tavolini del caffè dove si mangia, si fanno incontri e si parla. Niente gira a vuoto e tutto però è in questione: sono solo i sogni di Mori quelli che si vedono scorrere o sono realmente avvenuti… Un cinema che sogna concretamente, e che tocca in profondità la vita, che si riflette nel vetro di un caffè, che si scrive in una serie di lettere e di appuntamenti mancati, sfasature del tempo che scoprono tracce nouvelle vague.
Si sente come per Hong Sangsoo ogni film sia un capitolo sublime e sublimato di un progetto più grande (potentemente rohmeriano), piccola grande deviazione all’interno di una mappatura amorosa tanto ironica quanto ambiziosamente espansa e universale. In fondo vengono continuamente filmati i buchi di memoria, lo spazio astratto e astrale che si genera a ogni caduta e dopo ogni venir meno delle certezze temporali, come se ogni singola immagine, nel suo contemporaneo affastellarsi e ripetersi, fosse il custode di un compito segreto che il cinema si è dato per oltrepassarci e insieme tenerci in trappola. Varrà la pena un giorno provare a ricostruire tutta questa teoria misteriosa (un po’ dolorosa, un po’ ironica, un po’ paranoica) con cui a poco a poco Hong Sangsoo ricostruisce ciò che – continuamente smarrendosi – tiene in piedi il mondo (e questa sí, appunto, era la nouvelle vague). Un bicchiere di troppo, una parola di troppo, una sigaretta in più, molto silenzio, molte sparizioni, molti ritrovamenti, innumerevoli slanci e altrettanti disorientamenti, piccoli infiniti vortici e gorghi umani e disumani, come a dire di vita e di cinema.