Un trapezista che cammina sul filo
Incontro con Peter Bogdanovich. A cura di Edoardo Bruno, Alessandro Cappabianca, Lorenzo Esposito, Vittorio Giacci, Bruno Roberti, Daniela Turco, con la collaborazione degli studenti della Nuova Università del Cinema e della Televisione a Cinecittà.
Nel segno brillante, colto, straordinariamente tenero e divertente, infinitamente malinconico del cinema di Peter Bogdanovich, proponiamo qui un incontro con il regista statunitense pubblicato su Filmcritica n °495, maggio 1999.
Peter Bogdanovich, in quell’occasione si trovava a Roma per aver vinto il premio Umberto Barbaro per la migliore opera straniera, conferita al suo libro: Who The Devil Made It, poi pubblicata nel 2010 da Fandango, con il titolo Chi ha fatto questo film.
Un testo fondamentale in cui Bogdanovich intervistava, disegnandone contemporaneamente il ritratto, i registi: Robert Aldrich, George Cukor, Allan Dwan, Howard Hawks, Alfred Hitchcock, Chuck Jones, Fritz Lang, Joseph H. Lewis, Sidney Lumet, Leo McCarey, Otto Preminger, Don Siegel, Josef von Sternberg, Frank Tashlin, Edgar G. Ulmer, Raoul Walsh.
Vittorio Giacci – Per noi l’incontro tra il regista e i critici e, in questo caso, anche con gli studenti di una scuola di cinema, è molto importante, e io credo che per ciò che lei rappresenta, sia come critico che come regista, con il suo fare cinema e, nello stesso tempo, con il suo desiderio di continuare a studiarlo, cercando di ricordare e di non far andare perduto il grande cinema del passato, ciò sia estremamente utile per i giovani i quali, attraverso lo studio dei suoi scritti e delle interviste che ha fatto ai grandi maestri, potranno trovare una fonte di ispirazione. Possiamo senz’altro dare inizio a questa nostra conversazione ringraziandola e ricordando che lei ha vinto il premio Umberto Barbaro per la migliore opera straniera con il volume Who the devil made it?(Chi diavolo l’ha fatto), che è appunto un insieme di interviste realizzate a grandi registi raccolte nel corso della sua vita, una bellissima testimonianza sul cinema. E’chiaro che un libro come questo è importantissimo, e possiamo sperare che con l’aiuto del premio Barbaro, un editore italiano lo possa pubblicare.
Peter Bogdanovich – Vorrei dire, intanto, per iniziare, che è bellissimo essere a Roma dove sono stato per la prima volta trent’anni fa. All’epoca dovevo realizzare un film per Sergio Leone, ma lui voleva dirigere me e io, che allora ero molto arrogante, non nascondevo che non mi piaceva ascoltare ciò che mi diceva. Ad esempio Leone diceva: “Fai un grandissimo primo piano” e io gli rispondevo: “A me i primi piani non piacciono” e allora lui mi fa: Che cosa ti piace?” ed io “I campi lunghi”. Tre mesi dopo ero fuori, basta, finito. Nello stesso periodo anche Orson Welles si trovava a Roma, per girare un film. Io avevo a disposizione un’automobile e anche se non ero un guidatore particolarmente provetto, avevo subito imparato che a Roma basta mettersi al volante e andare; cosi a volte capitava che Orson sedesse accanto a me e ogni volta che facevo un errore dicevo sempre: “Scusi, scusi” e così, a quel punto, le nostre gite per Roma erano diventate, secondo il suo modo di dire: “Dai, andiamo a farci uno “scusi, scusi” per Roma”. Poi ci ritornai nel 1973 per realizzare un film, girato metà in Svizzera e metà a Roma. Si trattava di Daisy Miller, un film tratto da un romanzo di Henry James. E’ stato meraviglioso perché avevo insistito per disporre di una troupe completamente italiana. Per me è giusto, quando si gira in un Paese, scegliere come collaboratori le persone di quel Paese, che conoscono la lingua, i luoghi, le persone. Si può dire che si è trattato di un film completamente italiano, solo che si parlava in inglese. Avevo uno straordinario operatore, Alberto Spagnoli, che purtroppo è morto molto giovane, ed era davvero fantastico. Sapete come funziona, il regista dice al direttore della fotografia: “Voglio che sia tutto a fuoco, da qui fino a laggiù”, e sa che sta chiedendo qualcosa di difficile, spesso di impossibile, però a volte capita, se si insiste, di ottenere la metà di ciò che si chiede, e così io dicevo ad Alberto: “Tutto a fuoco, da qui fino a laggiù”. Era un film a colori. L’epoca in cui si svolgeva era la fine Ottocento, la luce doveva essere quella delle candele, così io ripetevo: “Voglio tutto a fuoco”. Poi, quando visionavamo i giornalieri – fatto incredibile -, era davvero tutto a fuoco. Allora chiedevo ad Alberto: “Ma come sei riuscito a fare una cosa del genere?” E lui: “Mah!?”. Credo proprio che avesse fatto un miracolo…Era davvero bravo. Tutta la troupe era meravigliosa. Io non parlavo granché italiano e loro non parlavano inglese ma uno degli aspetti straordinari del fare cinema è che si tratta di un linguaggio internazionale, bastano una o due parole: “macchina”, “taglio”, “azione!”. Io ad Alberto, per esempio, facevo un gesto che significava: la cinepresa va là. Bastava questo, in fondo era semplice. Mi è davvero piaciuto molto realizzare questo film in Italia e con degli italiani. Giravamo al Pincio, in agosto, all’epoca io fumavo parecchio e a furia di fumare, un giorno in cui faceva particolarmente caldo, a un certo punto mi sono sentito mancare e stavo letteralmente svenendo, quando quattro italiani mi hanno preso al volo e mi hanno portato di peso nella mia roulotte; non era davvero possibile chiedere di più… Ecco, questa è la mia storia. E queste sono state le due occasioni principali della mia permanenza a Roma, anche se negli anni ci sono ritornato molte volte, ma più di passaggio. Per me é ancora bellissimo, girare per Roma, oggi.
Lorenzo Esposito: Nel corso dell’incontro di ieri, parlando del suo cinema, e soprattutto del suo sguardo sulle forme classiche del grande cinema americano, mi sembrava di poter parlare, a proposito dei suoi film, di una sorta di resistenza della memoria. Per me, cioè, il suo cinema è sempre stato più che una riproposizione del passato, una vera e propria reinvenzione di quelle forme. Mi sembra quindi di poter dire che il suo, senza mai essere veramente meta-filmico, è un cinema che parla della natura del cinema stesso….
Peter Bogdanovich: Ecco, è piuttosto complicato, perché quando si fa un film, in primo luogo, si ha una storia da raccontare; ci sono gli attori, e c’è il copione. A questo punto il problema diventa come raccontare questa storia con la cinepresa… Ogni decisione in merito a dove mettere la macchina da presa racchiude in sé il significato primo del raccontare una storia mediante il cinema. Perché il punto dal quale lo spettatore vedrà ogni momento della storia narrata è l’elemento più importante, dato per scontato che gli attori siano bravi, il che è altrettanto fondamentale. E’ chiaro che ogni decisione del regista ha ovviamente una qualche risonanza politica; per esempio, se si dice: “Non voglio tagliare”. La scena comincia qui e finisce lì e la macchina da presa segue l’intera azione in piano-sequenza, senza alcun taglio, ecco, quella è sicuramente una decisione che fa la differenza, e avrà sicuramente un impatto sul pubblico, anche se il pubblico non realizza consciamente questa scelta. I miei film, in generale, sono stati influenzati dai vecchi film, intendo dalle forme classiche, perché nelle forme classiche, diciamo dal 1912 al 1962, è stato fatto tutto ciò che si poteva fare al cinema. L’unica cosa che dal 1962 in poi è stata aggiunta è una serie di parolacce! Già all’epoca del muto esisteva la camera a mano, il cinemascope, il colore, e quindi già avevano tutto ciò che poteva servire. Io il mio mestiere l’ho appreso soprattutto facendolo; e quando mi ritrovo, mentre giro un film, a dover realizzare una scena, mi chiedo prima di tutto come farla e a quale parte della mia esperienza devo attingere per poterla girare. Qual è il modo migliore di farla. Dato che ho visto molti film, certe volte mi sento influenzato a girare una scena in un certo modo perché l’ho imparato da altri registi. Talvolta può assumere proprio una funzione di omaggio evidente, un gesto di rispetto nei confronti di un regista che ho amato, ma di solito si tratta di qualcosa di molto intimo e privato, e non è così necessario che il pubblico lo colga; la scena, al di là di questo significato più intimo e privato, si può comprenderla ugualmente. Ho risposto alla domanda?
Lorenzo Esposito: Direi proprio di si.
Peter Bogdanovich: Bene, non credevo… Questi sono tutti aspetti relativi al fatto di girare dei film ma per me la cosa principale è proprio l’arte di fare cinema, che non consiste in nessun tipo di omaggio o in eventuali virtuosismi messi in mostra ma sta proprio nel fatto di realizzare il film di per sé, e ci sono varie fasi per arrivarci; prima c’è la sceneggiatura che va scritta, e quando si scrive non bisogna pensare a come si girerà, perché di questo genere di cose bisogna preoccuparsi dopo… Poi, quando la sceneggiatura è pronta e viene ritenuta valida, ecco che si è arrivati al punto di girarla. Io, per esempio, mi comporto in questo modo (un tempo tutto questo mi creava maggiori difficoltà, ora mi risulta invece più fluido): prendo la scena che devo girare oggi, e, la sera precedente oppure la mattina stessa, leggo la scena come se fosse la prima volta, e cerco di capire bene dove tagliare. E se leggendo la scena non riesco a individuare nessun punto in cui posso tagliare, allora significa che la girerò in piano-sequenza. Se invece vedo molti punti di possibile taglio, è così che la girerò. Io non cerco mai di proteggermi perché se ci si protegge, questo significa condannarsi a non dirigere. Per me un trapezista che cammina sul filo con sotto la rete non è un trapezista. Io credo soltanto nelle opere senza rete. Così, se si decide di girare una scena senza tagli, perché lo si fa? Non perché io abbia voglia di dimostrare quanto sono bravo ma perché quella scena particolare non deve avere alcuna interruzione, e questo si riverbera su ciò di cui parla il film. Poniamo di avere di fronte una scena che dovrà avere molti tagli, a un certo punto bisogna decidere dove inserirli materialmente. E per me questo ha molto a che fare con la scena, con ciò che mostra e su come si integra nella storia generale che sto narrando. Per riassumere, le storie e il modo di fare cinema che vediamo generalmente oggi, dove i tagli si sprecano e sono continui, e apparentemente non sembrano essere motivati da nulla… ecco, quello per me non è cinema. E’così facile. Basterebbe scendere per strada e scegliere una persona qualsiasi con l’aria sufficientemente intelligente e dirgli: “Vuoi dirigere un film?” e lo potrebbe fare a questo punto, se la logica è quella del “taglia, taglia, taglia”. Se io dovessi fare una scena di voi tutti qui in questa stanza farei un’inquadratura qui, un’inquadratura là, poi farei quattro o cinque inquadrature laggiù, un primo piano di noi qui, ed un campo lungo di tutti noi, e allora, alla fine, si potrebbe dire che la sequenza si monta da sola, ma questo non è cinema, secondo me. Prima di decidere come realizzare una scena bisogna sapere che cos’è il film e la storia che si va a fare, e che cosa significhi per quella storia la scena che si va a girare. Comunque, è un fatto che, una volta sul set, le cose possono cambiare, anzi è un dato di fatto che molte cose cambiano. Magari un attore improvvisa lì per lì qualcosa che non ti aspettavi, oppure il tempo atmosferico può cambiare, ci può essere più o meno luce improvvisamente, quindi, se da un lato, il regista deve sapere esattamente ciò che vuole, dall’altro deve anche essere aperto alla possibilità che possa presentarsi qualcosa di meglio. E’ un confine molto sottile su cui si cammina, tra ciò che si è già visto nella propria mente e si è deciso di realizzare e gli avvenimenti non previsti che si possono verificare. Per riassumere, non è che io sia sempre stato a pensare come definire il cinema così come lo vedo attraverso i miei film, ma sicuramente ogni mia decisione è stata influenzata dal passato e alla fine c’è una specie di dichiarazione, di presa di posizione in merito all’arte di fare film, al cinema, perché non si vive nel vuoto ma si è necessariamente influenzati da ciò che è stato fatto in passato.
Bruno Roberti: Mi ha molto colpito quanto ha detto del problema del punto in cui mettere la macchina da presa e che questo significa pensare al punto da cui lo spettatore vedrà il film. Se penso alla sua filmografia, il punto di vista da cui si guarda un suo film, forse è proprio la sala cinematografica, cioè il luogo in cui si va per guardare un film. Penso a Bersagli, a Vecchia America, a Texasville, a L’ultimo spettacolo… Allora, mi viene da pensare che questo suo mettere in scena lo spettatore cinematografico è un atto d’amore verso di lui e verso la sua funzione, oltre che verso il grande cinema classico, e mi chiedo se ciò è in rapporto con l’altro tema costante del suo cinema, che è per l’appunto l’amore, lo sguardo d’amore. Spesso infatti lei mette in scena la nascita o la morte di uno sguardo d’amore. Credo che ci sia un altro regista che ha messo in rapporto lo sguardo d’amore con il cinema e con lo sguardo dello spettatore in un modo così radicale. Si tratta di François Truffant.
Peter Bogdanovich:…e Renoir. Sì, penso che lei abbia toccato un punto importante e che ci sia molto di vero in ciò che dice. E’ vero, io amo il pubblico. Prendiamo un centinaio di persone, e magari, prendendoli uno per uno, non c’è ne è nessuno che mi piace, ma se vengono messi tutti insieme per costituire un pubblico, ecco che diventano qualcos’altro. Ovviamente esagero, ma può rendere l’idea. C’è davvero qualcosa di particolare nel pubblico ed è qualcosa di splendido. E più il pubblico è numeroso, meglio è. Voi riuniti qui stamattina, ad esempio, non siete un pubblico vero e proprio, o, almeno, non del tutto. Per me un pubblico comincia a chiamarsi tale quando si superano le settantacinque persone. Baso questa mia affermazione su un’esperienza estremamente spiacevole. Quando stavo ultimando il montaggio de L’ultimo spettacolo, lo feci vedere a un gruppo piuttosto ristretto, venticinque o trenta persone, ciò è successo per cinque mesi e in tutto questo periodo non c’è mai stata una persona tra loro che ridesse. Io pensavo di aver fatto un disastro; tutti uscivano dalla proiezione e mi dicevano: “Oh! Peter, il film è meraviglioso”, io credevo mi mentissero, e rispondevo loro: “Sì, ma non avete riso…” e quelli: “Ma non è una commedia..” Ed io: “ No, va bene, ma è divertente lo stesso, no?” Questo era solo il mio secondo film, e io non avevo sufficiente esperienza per capire che nel pubblico non c’erano abbastanza persone per poter ridere…Perché venticinque persone non ridono. Non lo fanno e basta. Quando a New York, poco prima che il film uscisse, l’ho visto con settantacinque persone, ecco, all’improvviso questi ridevano. E io pensai, “Ah!, allora il film funziona”. Comunque, un pubblico è sempre qualcosa di meraviglioso. E lei ha ragione a fare quelle osservazioni perché io stesso, mentre realizzo il film, mi rendo conto che quella certa cosa al pubblico piacerà. E addirittura mi capita di pensare tra me e me: “Questo è un dono per il pubblico”. Mi ricordo quando giravamo a New York E tutti risero, e avevamo dei problemi per le strade della città, ero sconvolto perché mi dicevo “Ecco, non se ne rendono conto ora, ma poi quando lo vedranno piacerà”, e invece tutti suonavano il clacson ed erano arrabbiatissimi perché le riprese bloccavano la strada… Io mi sentivo offeso perché in realtà stavo preparando un dono per loro. Il pubblico mi piace, comunque. E mi piacciono anche i personaggi dei miei film; non mi va di realizzare dei film con i cattivi perché penso che la vita non sia poi così facile. E’ complessa, così come gli uomini, che possono essere cattivi ma anche teneri. Credo comunque che la sua domanda colga il punto, in ogni caso l’autore che in questo senso mi ha influenzato maggiormente è stato Jean Renoir. E anche mio padre, che era un grande pittore e dipingeva sempre con grandissimo amore, fosse il ritratto di mia madre oppure una mela, ogni gesto era compiuto da lui con enorme affetto e partecipazione. Così Renoir. Credo che anche Truffaut sia stato molto influenzato da Renoir e sicuramente ho provato sia empatia che simpatia per François. Gli volevo bene, era meraviglioso. Non eravamo particolarmente intimi, ma un pò ci siamo conosciuti comunque. Mi ricordo un consiglio che mi diede una volta che all’epoca non seguii ma che oggi rimpiango di non aver seguito. Eravamo a Berlino nel 1977, io allora giravo un film costoso per allora, con otto milioni di dollari, che era all’epoca una cifra sopra la media, e non era niente male anche se non era riuscito esattamente come l’avrei voluto. François venne da me e mi disse (Bogdanovich imita la voce e l’accento di Truffaut): “Sai che cosa dovresti fare? Dovresti fare tre piccoli film uno dietro l’altro, molto rapidamente.” E io dissi: “Ma perché?” E lui: “Perché talvolta la quantità fa colpo!”. Non gli ho dato retta e infatti per ben due anni non ho più fatto film. Però poi l’ho girato un film piccolo, da un milione e mezzo di dollari, Saint Jack, che vinse il premio della critica a Venezia. Uno dei miei film migliori. Credo che François avesse ragione anche a un altro livello, infatti più il film è piccolo e meno soldi ti danno per realizzarlo e più puoi mantenerne l’integrità. Nel momento in cui si investono molti soldi nella realizzazione di un film tutti diventano più nervosi. E penso che tutti i miei film migliori avessero un budget limitato.
Edoardo Bruno: L’altro giorno ho trovato un vecchio articolo di Truffaut in cui spiegava perché non amava René Clair; era un articolo del 1960, e diceva che quel tipo di cinema era un cinema che voleva raccontare i fatti e Truffaut diceva: ”I fatti non si raccontano, ma si inseguono come fanno Rossellini e Renoir. E’ da lì che nasce un nuovo modo di fare cinema. Per cui non è vero che noi siamo contro il “cinema di papà”, noi siamo contro il cattivo cinema. Amiamo il papà quando è Rossellini o Renoir”. Questo è importante perché il discorso di Bogdanovich mi sembra che vada proprio in questo senso; ad esempio quando dice che non bisogna legarsi alla sceneggiatura ma usarla solo per ordinare in un certo modo i tempi della produzione, mentre bisogna accettarne le possibili modificazioni, come afferma Bogdanovich e come sosteneva Orson Welles, che diceva: “Sul set tutto è modificabile: il raffreddore di un attore, il sole che se ne va, i vari incidenti, fanno sì che a volte la realtà è più fantasiosa della sceneggiatura.
Peter Bogdanovich: Si, è assolutamente vero. Mi ricordo che parlavo con John Ford e a un certo punto gli ho detto: “Questa è una scena meravigliosa” a proposito di uno dei suoi film e lui rispose: (Bogdanovich imita perfettamente anche la voce di John Ford) “Oh, è successo per caso. E ti dirò che gran parte delle cose migliori che capitano nei film, capitano per puro caso”. Io all’epoca non avevo ancora girato film, ero agli inizi, e mi dissi:” Ma davvero? davvero gran parte delle cose più belle che accadono nei film accadono per caso?” così andai da Orson Welles e gli riferii questa osservazione di Ford che anche Welles amava moltissimo, era uno dei suoi registi preferiti, e lui disse ( Bogdanovich riproduce esattamente anche la voce di Welles): “Sì è vero ciò che dice Ford. Anzi, si potrebbe dire che un regista è un uomo che presiede alla causalità”. Sicché, eccoci qua. Ma per quanto riguarda i fatti, è molto interessante, per ritornare a Renoir, quando agli inizi degli anni Trenta si iniziavano a realizzare film sonori, lui aveva scoperto che le prestazioni degli attori erano migliori quando non li interrompeva per passare ad un’altra angolatura di ripresa, e così cominciò a fare dei lunghi piani per proteggere la loro performance. I buoni attori preferiscono recitare tutta la scena senza doversi fermare perché deve cambiare la posizione della cinepresa, e quindi per questa ragione Renoir cominciò a fare lunghe riprese senza tagli. E anch’io, per quanto riguarda la mia esperienza, ho trovato che quando si ha la possibilità di girare una scena senza tagliare, di solito succede qualcosa di interessante… Ad esempio abbiamo Audrey Hepburn e Ben Gazzara che passeggiano a Manhattan in E tutti risero, e la macchina da presa è davanti a loro mentre stanno camminando e continua a seguirli mentre si allontanano. Mentre stai facendo quella ripresa stai fotografando un fatto perché riprendi Ben Gazzara e Audrey Hepburn che stanno camminando davvero a Manhattan, stanno parlando e non è stato aggiunto o sottratto nulla. Quella è la scena; così si può dire che in un certo senso è la realtà, perché è successo veramente, in quel giorno, in quella strada, quei due hanno camminato lì per davvero. E’ l’aspetto documentaristico. E mi piace sempre vedere dei momenti del genere nei miei film o di altri, perché si ha veramente la sensazione di qualcosa che è successo e che è staro catturato, senza alcuna manipolazione. Io credo che il pubblico lo percepisca. Anche se non lo sa consapevolmente, lo sente. Il pubblico quasi entra nella scena, trattiene il fiato, perché vede qualcosa che sta davvero avvenendo. Questa cosa non si vede spesso nei film di oggi che, come dicevo prima, sono tutti un taglio. A me piace molto fare qualcosa del genere con dei bravi attori, senza tagliare. Ho girato Quella cosa che si chiama amore con River Phoenix, che era un attore straordinario; quello è stato anche il suo ultimo film, e a un certo punto gli dissi di interpretare una certa scena tranquillamente, senza interruzioni, camminando per strada e recitandola fino in fondo, senza tagli, e lui mi disse: “E poi?” Ed io: “E poi basta, questa è la scena”. Lui era davvero sorpreso perché non gli era mai capitato niente del genere. L’abbiamo girata proprio cosi e lui chiese: “Ma davvero sarà così, non ci saranno tagli?”. L’abbiamo girata cinque o sei volte e lui era così felice. Da quel momento in poi qualsiasi scena l’avrebbe voluta fare senza tagli. E questo si propagò anche a tutti gli altri attori impegnati nel film.
Domanda di uno studente:A proposito di Orson Welles ed a proposito della profondità di campo in Quarto Potere, André Bazin scrive che essa rende attivo lo spettatore perché gli permette di scegliere dove guardare. Secondo lui questa sarebbe una scelta realista, e allora la domanda è questa: lavorare molto sulla profondità di campo ha a che fare con una scelta realista oppure è soltanto un modo di far recitare bene un grande attore, di non interromperlo?
Peter Bogdanovich: Ho chiesto a Welles perché amasse così tanto la profondità di campo e lui mi ha risposto che si trattava di ignoranza, nel senso che se l’occhio riesce a vedere ogni cosa a fuoco, perché diavolo non deve riuscire a farlo anche la macchina da presa? Ed io ho la sua stessa sensazione: perché ciò che è sullo sfondo non dovrebbe essere messo a fuoco allo stesso modo del primo piano? Ed è vero che questa è una sorta di maniera democratica di fare cinema, nel senso che il pubblico è in grado di scegliere su cosa concentrare la propria attenzione. E’ lo stesso motivo per cui anche Otto Preminger spesso faceva delle scene intere senza tagli, come una sequenza in cui due persone stavano conversando, perché non voleva essere lui, al posto del pubblico, a decidere chi dei due interlocutori seguire. La profondità di campo, cosa molto più difficilmente ottenibile a colori, e l’idea del non tagliare, sono due concetti analoghi in un certo senso, perché creano una sorta di realtà, poiché noi, seduti al cinema, sappiamo benissimo che l’occhio vede tutto a fuoco, e quindi se c’è qualcosa di vago sullo sfondo è come se gli venisse negata la possibilità di vedere che cosa c’è in quel punto.
Domanda di una studentessa: Una domanda a proposito de L’ultimo spettacolo, e sulla collaborazione con Larry McMurtry: come è stato lavorare con lui; ha avuto difficoltà partendo dal romanzo, a trovare un approccio più cinematografico?
Peter Bogdanovich: Larry è un talento insolito; perché una volta finito un libro, non gliene frega più niente, è annoiato. Io non lo sapevo all’epoca; si trattava del mio secondo film, era la prima sceneggiatura di Larry ed io gli chiesi di occuparsi della sceneggiatura proprio perché era tratta da un suo libro, e chi meglio di lui avrebbe potuto farlo? Tuttavia mi resi conto molto presto che a lui del libro non gliene interessava più niente. Allora abbiamo cominciato a lavorarci insieme, e io, mentre esaminavamo il testo, gli dicevo: “Non credo che abbiamo bisogno di questa scena”… oppure: “Questo personaggio lo possiamo eliminare”, oppure ancora: “Questa scena deve esserci per forza”… In questo modo abbiamo esaminato insieme tutto il libro. Capitava che lui riscrivesse delle scene e me le mandasse, ed io allora gli dicevo: “Sai, Larry, è meglio che nel libro!”. Poi però ci ripensavo, e la buttavo via. Alla fine ho usato direttamente il libro, e basta.
Intervento di una studentessa: Beh, il risultato è stato meraviglioso.
Peter Bogdanovich: Sì, grazie, perché i dialoghi nel libro sono brillanti. Non c’è nessuno che scriva dei dialoghi migliori di Larry, soprattutto a livello regionale, locale. Praticamente ogni singola battuta del film è presa direttamente dal libro. Io mi sono occupato più che altro della costruzione, nel senso di dare un ordine alle scene e di decidere come mostrarle; il resto erano i dialoghi di Larry, tratti, come si è detto, direttamente dal libro. Abbiamo aggiunto qualche cosa; nel libro, ad esempio, pur trattandosi di ragazzi che stavano finendo le superiori, non c’era nessuna scena in cui li si vedesse prendere il diploma, e allora abbiamo deciso di inserirla.
Daniela Turco: Mi piacerebbe che lei si soffermasse, se crede, sul senso del tempo nel suo cinema; mi hanno molto colpito le sue osservazioni a proposito del piano-sequenza, che mi sembrano preziose e importanti. Mi piacerebbe però che ci si potesse soffermare, partendo da Texasville, su un altro aspetto, inquietante e pericoloso, delicato e straordinario, che è il ritorno su un set a distanza di molti anni. Tra L’ultimo spettacolo e Texasville passano infatti circa vent’anni. Personalmente trovo che in Texasville ci sia un materiale umano al limite dell’incandescenza e al limite dell’insostenibilità. La mia domanda è proprio questa; il senso del tempo e che cosa vuol dire ritornare….
Peter Bogdanovich: Per essere onesti non ho scritto io Texasville, è stato Larry che aveva scritto una specie di sequel al primo libro e che io ho modificato in vari modi. L’ho reso più semplice, ho eliminato alcuni personaggi, ho reso anche il finale un po’ più caldo fra i vari personaggi. In effetti la versione che voi avete visto è di venticinque minuti più corta, ora, venticinque minuti sono tanti, cosi abbiamo dovuto tagliare molte cose, per un motivo semplice e sgradevole. Ci era stato promesso dalla produzione e per noi intendo Jeff Bridges, Cybil Sheperd ed io, che L’ultimo spettacolo sarebbe stato rimesso in programmazione prima che venisse distribuito Texasville. Nel 1990 L’ultimo spettacolo non era ancora disponibile su videocassetta. Però, una volta terminato Texasville, era subentrato allo studio un nuovo dirigente che mi odiava e che non si augurava altro se non che fallissi. Cosi fece in modo che L’ultimo spettacolo non venisse re-immesso in distribuzione prima che uscisse Texasville. A causa di ciò dovetti togliere molte scene perché non sarebbero risultate chiare ad un pubblico che non avesse visto di recente L’ultimo spettacolo, che, oltretutto non era nemmeno disponibile in videocassetta. Così furono tolti circa venticinque minuti, e si trattava delle scene più drammatiche, le più sentite; ciò che è rimasto risulta un po’squilibrato perché c’erano anche molte scene divertenti, satiriche e poi delle scene commoventi. Abbiamo tolto le scene toccanti e così il film è risultato sbilanciato. La Pioneer ha poi prodotto un disco laser del film, una sorta di The Director’s Cut che comprendeva anche le parti tagliate, ma pochissimi l’hanno potuto vedere. Così quando parliamo di Texasville, dal mio punto di vista parliamo di un film un po’ menomato. Immagino che voi abbiate visto la versione corta, da cui manca, in un certo senso, la parte-cuore. Per me questo film, di cui parlo un po’ dolorosamente, ha costituito comunque una sfida interessante proprio per il fatto di tornare a lavorare con gli stessi attori vent’anni dopo, e rinarrare quella storia. Quando si gira un sequel, di solito, quello che il pubblico vuole veramente è rivedere pressappoco lo stesso film, e noi invece non lo abbiamo fatto; anzi abbiamo realizzato un film molto diverso. E’ il libro, innanzi tutto, che è diverso. All’epoca, quando uscì, la gente diceva: “E’ più divertente, più comico”. Forse anche perché quando si parla dell’amore tra adolescenti questo risulta molto più tragico dell’amore tra gente di mezza età. E’ vero; io ho avuto l’esperienza di avere vent’anni e di essere innamorato, e ho anche avuto cinquant’anni e ho attraversato la crisi della mezza età; la crisi dei cinquant’anni è davvero molto difficile, ma sullo schermo diventa divertente. E’ così, non ci si può fare niente.
Domanda di uno studente: Parlando di ricordi, è stato nominato Orson Welles; di recente è stato re-immesso in circolazione negli Stati Uniti L’infernale Quinlan, che ha avuto abbastanza successo al botteghino. La rivista “Première” ha scritto che si trattava di una delle migliori riedizioni mai fatte. Si parlava di perdita di memoria del cinema, però Orson Welles, ad esempio, è ritornato…Stiamo testimoniando un’epoca in cui i ricordi tornano in questo modo e magari il cinema sta cambiando attraverso questo tipo d’approccio?
Peter Bogdanovich: Potrei rispondere così: la gente parla sempre dei “vecchi film”, dicendo ad esempio: “Hai visto quel vecchio film di Ford?”, oppure :”Hai visto quel vecchio film di Welles?” Ecco, il cinema è il solo mezzo in cui ci si esprima così. Non si direbbe mai: ”Hai letto quel vecchio dramma di Shakespeare?” oppure “Hai ascoltato quella vecchia opera di Mozart?” oppure “Hai letto quel vecchio libro di Hemingway?”. Nessuno si esprime così, io sono assolutamente contrario al fatto di dire “Hai visto quel vecchio film?”, perché tanto per cominciare se quel film non l’hai mai visto, non è vecchio ma, al contrario, è nuovo o almeno lo è per te. Un film o è buono o non lo è. E questo indipendentemente dall’anno in cui è stato realizzato. Può essere buono o cattivo ma non vecchio o nuovo. Per rispondere alla sua domanda, Orson Welles sarà sempre nuovo, anche se hai già visto i suoi film. Le racconto una storia. Una volta, mentre parlavamo, Orson mi disse (di nuovo riproducendo la voce di Welles): “Vedi Peter, la cosa terribile dei film è che vengono confezionati, messi in scatola”, e io: “E allora?”, e lui: “Qualsiasi cosa sia in scatola non è fresco”. E allora ho riflettuto: le cose vengono inscatolate al momento della loro massima freschezza, quindi è molto importante, quando realizzate il film, che la cosa sia fresca. Per esempio mi viene in mente quello che mi dicevano John Wayne, Henry Fonda e James Stewart, e cioè che John Ford amava scegliere sempre la prima versione della ripresa. E quando lo chiesi a lui mi rispose (imitando la voce di John Ford): “Perché è fresco, capisci, è fresco!” . Così della sequenza finale di Furore in cui Henry Fonda e la madre si dicono addio, Fonda stesso mi ha detto che Ford non ha voluto che se ne facessero delle prove, non volle neanche che la facessero vedere prima solo a lui – eppure era una scena fondamentale -, perché appunto voleva che fosse colta sul vivo. Io ho avuto la stessa esperienza con Cloris Leachman sul set de L’ultimo spettacolo, per l’ultima scena dove lei doveva gridare e piangere. Lei veniva continuamente da me per farmi vedere come intendeva recitarla ma io le ho detto di no, che non la volevo vedere fino a quando l’avessimo girata, sapevo che se l’avesse mostrata prima a me, qualcosa sarebbe andato perduto. L’ho imparato da Ford. Così, quando abbiamo girato era talmente eccitata che quasi non respirava, e la sequenza è magnifica, non l’ho rigirata. E’ una storia buffa. Quando è stata scelta per il film le dissi: “Come minimo verrai candidata all’Oscar, secondo me lo vinci anche”. Così ogni volta che giravamo una scena mi guardava e mi chiedeva: “E’ con questa che lo vincerò?”, e io le dicevo “Forse”. Finita l’ultima scena, l’ho presa da parte e le ho detto “Hai appena vinto”. Ed è stato così. Quando poi siamo andati a discutere alcuni tagli con il produttore, lui mi fa: “Forse dovresti tagliare l’ultima scena”, “Quale?”, “Quella con Cloris”, e allora io: “Burt, ho fatto tutto il film per via di quell’ultima scena!”.
Vittorio Giacci: Ci può raccontare l’aneddoto di Hitchcock in ascensore? E’ troppo divertente.
Peter Bogdanovich: Hitchcock era molto divertente. E’ noto che non andava mai a vedere i suoi film insieme al pubblico e che non organizzava mai anteprime. Allora una volta gli ho detto: “Hitch, ma non ti manca il fatto di non sentire il pubblico urlare?” (Bogdanovich riproduce alla perfezione il tono e l’accento di Hitchcock): “No, perché riesco a sentirli mentre il film lo sto girando”. Un giorno, credo nel 1964, era a New York pr la prima di un suo film e mi invitò nella sua stanza d’albergo per bere qualcosa insieme. Io non bevevo ma lui si, beveva un cocktail, credo fosse un daiquiri ghiacciato. Se ne face un paio mentre io mi limitai a un sorso. Allora mi guardò e disse:” Tu non stai bevendo il tuo drink”, così ne bevetti uno intero e tanto bastò per farmi girare la testa. Lui invece, dopo tre o quattro, era felicissimo. Dunque, dovevamo andare a cena, la sua camera era al venticinquesimo piano, perciò prendemmo l’ascensore. Sapete bene che di solito in ascensore si tende a non parlare e così facemmo anche noi (io, ero stanco e anche piuttosto ubriaco…). Al diciannovesimo piano entrarono tre persone e Hitch mi fa (Bogdanovich continua ad imitarne la voce): “Che cosa terribile! Quel corpo era lì sul pavimento, il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle orecchie, davvero una cosa terribile!”. Io me lo guardo e dico: “Ma che sta dicendo?”, e dato che ero mezzo ubriaco, pensai di essermi perso qualcosa. Al sedicesimo piano entrarono altre due persone (tenete conto che ormai da dieci anni lo conoscevano tutti, era quasi come Clint Eastwood). E lui ricomincia: “Terribile, una cosa terribile, sangue dappertutto, sulle pareti, per terra! Ho guardato quest’uomo e gli ho detto: mio Dio! Ma che cosa ti è successo?! E sai che mi ha risposto? ”. In quel momento le porte dell’ascensore si aprirono sulla lobby dell’albergo e tutta la gente in ascensore doveva uscire ma non lo faceva, poi alla fine uscirono e rimasero lì vicino alla porta. Hitch fa fìnta di niente, tira dritto, attraversa la lobby, e io dopo qualche istante gli faccio: “Che cosa ha detto quell’uomo, Hitch?” , e lui: “Che cosa? Niente, quella è solo la mia storia dell’ascensore!” (risate e applausi).
Domanda di uno studente: Lei ha iniziato la sua carriera di regista con Bersagli, un omaggio a Roger Corman. Rispetto ai grandi registi a cui si e ispirato, volevo anche sapere, perché ha lavorato con lui, come considera Corman, il suo modo di lavorare con pochi mezzi ed a grande velocità, e se lei ha mai avuto voglia od occasione di fare film in quel modo.
Peter Bogdanovich: Ho lavorato con Corman per Wild Angels (I selvaggi, 1966). Non gli piaceva dirigere, era sempre molto nervoso quando girava. Però era molto rapido, e ciò che ho appreso da lui è che il regista deve avere una certa energia sul set, perché qualsiasi cosa stia facendo si riflette su tutta la troupe, non solo sugli attori. Una volta mi ha detto: “Ricordati di sapere sempre qual è la cosa successiva che devi fare, perché se ti fermi e cominci a chiederti cosa fare, si siedono tutti e si rilassano e così si perde tempo”. Lui diceva sempre: “Taglia! Ora siamo qua. Taglia! Ora giriamo questo”. E tutti lo seguivano. Negli ultimi sei anni ho fatto sei film per la televisione, tutti molto brevi, girati al massimo in venticinque giorni, e l’unico modo per farli era muoversi rapidamente. Devo dire che mi è piaciuta questa velocità e che se farò altri film per il cinema adotterò la stessa rapidità, poiché dà energia. Roger era inoltre molto aperto ma dipendeva dagli attori, anche perché con quei tempi ridottissimi non c’era molto spazio per dirigerli. La cosa grandiosa che faceva è che si muoveva all’interno di una certa illegalità, non rispettando tutte le regole. Ad esempio quando stavo girando alcune scene del mio primo film dovevamo fare delle riprese su un’autostrada, cosa che da noi non si può fare, è fuorilegge, ma l’abbiamo fatto lo stesso, perché ho imparato da Roger che quelle immagini si rubano. La cinepresa era rivolta verso l’autostrada e quando passavano le macchine della polizia l’operatore mi chiedeva: “Vuoi che filmi pure loro?”, Certo, filma! filma!” (gioco di parole intraducibile fra To Shoot/girare e To Shoot/sparare). E’ molto bello non seguire completamente le leggi. Vi faccio un altro esempio. Una volta, parlando con Leo McCarey, mi raccontò del suo primo film. Non era andato molto bene e lui stava seduto sui gradini di uno studio di produzione della Universal – siamo nell’ epoca del muto, nel 1917 o nel 1918 – e si sentiva molto infelice. In quel momento gli passò accanto John Ford che gli disse: “Salve Leo, come va?”. “Non bene Jack, ho fatto un film e non è un granché”, e Ford rispose: “Oh! Io ne ho appena fatto uno piuttosto buono, perché non ti fai passare per me e gli dici che è tuo?”, e McCarey mi ha detto: “Mi sono sempre pentito di non avere accettato perché il modo migliore di avere un buon inizio di carriera nel cinema è un pochettino di micro-delinquenza|!”.
Domanda di uno studente: Volevo farle una domanda sulla colonna sonora de L’ultimo spettacolo. Perché ha scelto in particolare la musica di Hank Williams?
Peter Bogdanovich: In realtà non c’è solo lui. Nel film ci sono ventisette o ventotto brani, di cui solo nove sono di Hank Williams. Ho usato lui perché probabilmente è il migliore cantante Country-Western di quel periodo e uno dei migliori di sempre. Negli anni Quaranta e Cinquanta vivevo a New York e non avevo mai sentito parlare di lui. C’erano canzoni che avevo ascoltato come Cold Cold Heart (Bogdanovich ne canta un pezzetto), che ebbe un grande successo a New York ma che era eseguita da Tony Bennet mentre l’originale era un grosso successo nel Sud degli Stati Uniti ed era cantata da Hank William, ma io non lo sapevo. Nel 1970, lavorando a L’ultimo spettacolo, mi sono reso conto che molte registrazioni di canzoni che avevo conosciuto nel Nord, erano invece dei successi provenienti dal Sud. Il film è ambientato nel 1951 e dovete ricordarvi che in quel periodo c’era una grande separazione per cui era impossibile ascoltare musica Country-Western a New York. Molte delle canzoni di successo al Sud venivano un po’ ripulite e, diciamo così, orientaleggiate per la costa orientale e, appunto, cantate da altri cantanti famosi solo nel Nord. Nel film ho messo entrambe le versioni, per esempio Cold Cold Heart di Hank Williams, che nell’ottobre del 1951 era la canzone più ascoltata nel Sud, e il rifacimento di Tony Bennet che, fra l’altro, si addiceva meglio al personaggio e alla figura d’attrice di Cybill Shepherd, la quale doveva e voleva apparire più simile a una ragazza di città.
Domanda di uno studente: Cosa l’ha indotta, nel 1971, a tornare indietro di vent’anni, e perché proprio negli stati del Sud?
Peter Bogdanovich: Il romanzo L’ultimo spettacolo era ambientato in Texas negli anni Cinquanta. Larry McMurtry lo aveva scritto nel 1966 senza essere molto preciso circa il periodo, riferendosi solo genericamente agli anni Cinquanta. E sebbene persino Orson Welles mi avesse detto di lasciar perdere questi dettagli, io non ero d’accordo, pensavo che fosse molto importante l’indicazione di un anno specifico. E dato che l’inizio della storia coincide con quello della stagione di foot-ball americano e la fine con l’inizio della stagione di foot-ball dell’anno successivo, il racconto durava proprio un anno. Inoltre, visto che abbiamo girato il film in una vera città del Texas, la città dove è cresciuto Larry, ho pensato che fosse molto importante sapere esattamente di che anno stavamo parlando. Io sono cresciuto negli anni Cinquanta ma se avessi dovuto scegliere quel periodo della mia vita avrei dovuto ambientare il film nel 1957 o nel 1958 per avere la stessa età del protagonista. Così decisi che le date sarebbero state ottobre 1951- novembre 1952. Inoltre volevo che questo film fosse ambientato il più possibile vicino alla fine degli anni Quaranta, perché in America il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla guerra di Corea del 1953-1954 segna la fine di un’epoca che coincise con l’avvento generalizzato della televisione. Insomma un importante periodo di transizione. A quel punto era come usare una macchina del tempo, tutto doveva rientrare a far parte di quell’anno determinato: i film che facevamo vedere, gli spettacoli televisivi, la musica. Anche se, nel caso della colonna sonora, non volendo imporre il sottofondo musicale del regista, la musica la si sente solo se c’è una radio accesa. Non volevo dire al pubblico come doveva sentirsi, credo che il pubblico sia intelligente e che se una scena è triste lo capisca anche senza i violini in sottofondo. Anzi, nelle sequenze più drammatiche il ritmo della musica è piuttosto vivace, a fare da contrappunto. Mi piace questo uso della musica. Hitchcock, in La finestra sul cortile, non ha usato alcuna colonna sonora composta appositamente per il film perché in qualche modo ciò conferisce un senso di maggiore realismo, rendeva l’opera più reale. Certo, è chiaro che poi un regista sceglie lui stesso la musica trasmessa dalla televisione o dalla radio per creare una determinata atmosfera, rientrando così obbligatoriamente nella finzione, però dà l’impressione di una sorta di realtà.
Alessandro Cappabianca: Sono molti anni che non lo rivedo, tuttavia ho sempre in mente l’ultima scena di Bersagli in cui il killer viene scoperto e si avvicina a Boris Karloff, a destra, sparando però a sinistra, verso l’immagine di Karloff sullo schermo e non a quello vero. Questa sequenza mi è sempre sembrata in qualche modo profetica. Per ora forse ancora non ci siamo arrivati, ma mi pare che in futuro possiamo anche aspettarci un cinema in cui sul set non ci siano più corpi, dove gli attori e le attrici vengano sostituiti dagli effetti speciali, da figure virtuali. Volevo sapere cosa ne pensa di un cinema di questo tipo, se avrebbe ancora un senso.
Peter Bogdanovich: No. Gli effetti speciali mi annoiano moltissimo e perciò non mi interessano. Diciamo pure che io sono fuori passo rispetto al resto del mondo, ma film come Guerre stellari semplicemente mi annoiano, perché non hanno niente di reale, mentre per me non c’è nulla di più interessante delle persone in carne ed ossa. Creare dei mostri come quelli di Jurassic Park è troppo facile, la cosa difficile è far vedere un volto, o far vedere un volto che sta vivendo un’emozione. E questo è altrettanto difficile che far ridere di gusto. Mi piacciono i film in cui la gente ride e poi piange. Non mi dispiace un po’di paura, un po’ di suspense, ma fondamentalmente amo le emozioni-base dell’uomo, quelle che lo spettatore coglie immediatamente, emozioni alle quali riesce a rapportarsi, con le quali si confronta. Facciamo il caso di un effetto speciale: lì c’è uno di quei maledetti dinosauri, lassù in alto, io sono l’attore della scena ed il regista mi dice: “Guarda lassù, lì ora non c’è niente ma più tardi ci mettiamo un dinosauro! (Bogdanovich guarda interdetto in alto davanti a se), e io dico: “Ma dove?”, “Là!, Ok fate un segno lì in alto, no, non lì, un po’ più a destra, ecco! Quello è il dinosauro, un pezzo di nastro isolante”, Ah! (Bogdanovich fa una faccia che dovrebbe essere spaventata), “Per favore un po’ più spaventato”… Ci riprovo (altra faccia molto più contrita e terrorizzata), ed il regista dice “buona!” (risate da parte di tutti i presenti). Adesso immaginate che io sia il regista, vado a vedere i giornalieri, e c’è un attore che sbarra gli occhi di fronte al niente. Tre mesi dopo ci metto il dinosauro e dico: “Bene, bello, aggiungete un po’ di colore qui, un po’ di bava lì.. ma che senso ha! Per fare una cosa del genere ci vuole un’enorme quantità di pazienza che io non ho.
Bruno Roberti Ha raccontato la storia come una scena di Howard Hawks…
Peter Bogdanovich (sorride) Sì, forse…
Alessandro Cappabianca: Però se diventa virtuale anche l’attore forse potrebbe essere più interessante.
Peter Bogdanovich: Mi viene in mente Scene di strada, un film del 1931 di King Vidor. Era tratto da una commedia e Vidor si poneva il problema di come poter rendere interessante un film ambientato in un’unica strada. Stava pensando a come girarlo, a cosa fare, quando un giorno, in un ristorante, ha visto una persona che dormiva vicino a lui e sul cui viso camminava un mosca. Allora Vidor ha pensato: “Caspita! per quella mosca quel volto è un grandissimo spazio, se la mia cinepresa diventa una mosca su quella strada, allora quel posto sarà vastissimo, perché ci sono tantissime cose da fare per una mosca”. Beh, io penso che quando giro un film, questa è sempre una buona cosa da ricordare, non c’è bisogno di strani effetti, se c’è qualcosa da vedere vuol dire che c’è tanto da vedere. E non c’è nulla di più interessante di un volto umano.
Domanda di uno studente: – Immagini di stare sul set a girare una scena importante e di non riuscire ad ottenere ciò che le serve. Fino a che punto spinge gli attori per cercare di ottenere ciò che aveva in mente e quando dice basta?
Peter Bogdanovich: Non ho mai provato questa esperienza. Sì, ci sono stati momenti in cui non mi piaceva ciò che stava facendo un attore e glielo dicevo suggerendogli qualcosa di diverso o facendoglielo vedere io stesso. Se l’attore, come si dice, non ci arriva, provo le stesse cose in modo diverso. Mi ricordo di un attore che ricopriva un piccolo ruolo in uno dei miei film e che proprio non riusciva a dire la sua battuta. Allora sono andato dall’operatore e gli ho detto di mettergli una bella ombra sul viso perché poi più tardi avremmo aggiunto la voce di un altro attore. Generalmente si cerca tuttavia di ottenere quello che si desidera in qualsiasi modo. Per esempio io ho avuto dei problemi con Cher in Dietro la maschera. Volevo girare una determinata sequenza senza tagli, lei aveva capito, avevamo preparato il tutto, cominciamo. Cher segue la direzione concordata ma dopo un paio di battute comincia ad andarsene da un’altra parte. Questo era impossibile e quindi ho detto di tagliare. Subito dopo ci abbiamo riprovato e lei continuava ad andare in quell’altra direzione. Non c’era nulla da fare, non potevo girare quella scena senza tagli perché lei non ci riusciva. Visto che poi si stava anche irritando ho chiesto all’operatore di filmare tutto e le ho detto: “Rifacciamola. Azione! Dì la prima battuta, ridilla, sottolinea quella parola… Insomma l’ho seguita passo, passo senza fermare mai la macchina da presa. Lei non era in grado di fare quella cosa e quindi l’abbiamo fatta noi, pezzo per pezzo. Vi faccio un altro esempio. Durante le riprese di Paper Moon Tatum O Neal, che allora non aveva neanche nove anni, doveva girare di mattina ed era molto stanca. Si trattava di un primo piano di una scena in cui lei e un’altra ragazzina un po’ più grande di lei organizzavano uno scherzo al padre di quest’ultima. Così la ragazzina diceva “Quando cominciamo?” e Tatum doveva dire solo, con eccitazione, “Domani mattina!”. Io le spiego come doveva dirlo, che doveva sembrare entusiasta dello scherzo… Azione: “domani mattina” (detto senza il tono richiesto da Bogdanovich e con aria annoiata). Non andava, cerco di rispiegarle tutto, riproviamo, niente da fare, e così per almeno altre tre o quattro volte. Allora le ho detto “Azione! Guardami: (Bogdanovich si esibisce in una serie di urla e boccacce irripetibili a parole)”, “Domani mattina!!!!”, “OK, taglia!”. Insomma, la mia risposta è: fate quello che bisogna fare! (applausi).
