Un Omero in blue-jeans
Renaldo and Clara di Bob Dylan (1978)
di Vittorio Giacci
Nello stesso tempo (circa quattro ore) in cui Ariane Mnouchkine con Molière (film presentato anch’esso a Cannes nel medesimo anno) sa essere reticente sulla storia del commediografo per evocarne con maggior libertà creativa spirito e poesia, Bob Dylan, nel suo Renaldo and Clara, scrive un diario della propria vita dove poco concede all’autobiografia e molto al perpetuarsi del suo stesso mito, in un delirio musicale che coinvolge e avvolge lo stesso Dylan in un’esperienza che ripercorre le strade Beat, Hippies, Pop, pacifiste e protestatarie, verso un senso della vita ricercato nelle melodie, molte delle quali hit che il poeta, compositore, autore e folk-singer non esegue più se non distorcendole e violentandole negli arrangiamenti in una sovrabbondanza strumentale che le rende attuali e disperate nella loro ansia di speranza (tradita), di sogno (infranto), di utopia (inattuata).
Presentato alla “Quinzaine des Réalisateurs”del Festival di Cannes del 1978, Renaldo and Clara, film da lui scritto, diretto, interpretato, girato tra il 1975 e il 1976 per documentare il tour musicale della Rolling Thunder Revue organizzato allo scopo di ottenere la riabilitazione del pugile di colore Rubin “Hurricane” Carter dalle accuse di rapina e pluri-omicidio, è molto di più di un documentario su una tournée concertistica, è l’opera complessa e polisenso di un autore multi-disciplinare che sa intrecciare in un sol testo tre livelli discorsivo-espressivi: un livello documentaristico musicale, che vede lo stesso Dylan esibirsi in diversi brani tra cui It Ain’t Me Babe; Knockin’ on Heaven’s Door; Just Like a Woman e, naturalmente, Hurricane, una canzone dedicata proprio al pugile, insieme ad altri artisti tra cui Roger McGuinn, membro dello storico gruppo dei Byrds che accompagnava Dylan nei suoi primi concerti e di cui si ricordano la celebre Mr. Tambourine Man e He Was a Friend of Mine, commosso omaggio al Presidente John Kennedy ucciso a Dallas; Joan Baez; Leonard Cohen, Willie Nelson; Joni Mitchell; un livello politico (la già ricordata iniziativa di riabilitazione) anche con immagini di repertorio dello stesso Carter; un livello narrativo di fiction ad elevatovalore simbolico, una sorta di ménage a trois con Dylan nei panni di Renaldo, menestrello, clown e Pierrot dalla faccia biaccata, l’allora moglie Sara in quelli di Clara, e la cantautrice Joan Baez in quelli della Donna in bianco.
Da questa triplice struttura diegetica emerge l’intento poli-espressivo di un artista a tutto tondo di voler coinvolgere, in questa complessa esperienza al tempo stesso artistica e sociale, le diverse arti in campo, dalla letteratura al teatro, dalla musica al cinema.
La sequenza della visita alla tomba di Jack Kerouac, icona della Beat Generation; la collaborazione alla sceneggiatura di un altro capofila di quell’avventura di rinnovamento letterario come Allen Ginsberg, del regista teatrale Jacques Levy o del drammaturgo Sam Shepard, già collaboratore di Michelangelo Antonioni (Zabriskie Point, 1970); la presenza di Arlo Guthrie, figlio d’arte e anch’egli attore e musicista; l’esplicita influenza del capolavoro di Carné/Prevert sulla relazione cinema/teatro Amanti perduti (Les enfants du paradis, 1945), sono i paradigmi di quella straordinaria stagione della cultura in cui autori di differenti discipline sapevano dialogare tra loro, e un cantante poteva passare, senza soluzione di continuità, alla regia cinematografica e diventare un cantore compiuto della propria epoca, un Omero in blue-jeans senza per questo scalfire ruoli ma, al contrario, acquisendo competenze e liberando esperienze. Modelli esemplari che meritano di non essere dimenticati.
