Un confino dell’occhio. Appunti per sconfinare lo sguardo
di Giovanni Festa
Un mondo di polvere. Polvere che corrode un territorio avaro d’acqua i cui colori sono il bianco, il nero, il ruggine. Lo sguardo si muove fra rovine, teste e frammenti di statue mutile e interni franati. In mezzo a questo deserto, una panoramica a schiaffo congiunge un villaggio beduinico e un pezzo di muro isolato, del tutto simile ad una colonna dorica dietro un brandello di cielo azzurro, ricordo di Magna Grecia diventata terra selvaggia.
Un burrone, fogne a cielo aperto, stradine dove le pozze d’acqua ristagnano; all’ombra di un uliveto le raccoglitrici di olive, chine e operose, con in testa un fazzolettone bianco per proteggersi dalla calura, attendono al loro lavoro secolare.
“Una zona spaventosamente desolata, brulla, sembra uno dei luoghi più abbandonati della Calabria o delle Puglie. E laggiù c’è il lago di Tiberiade, tranquillo sotto il sole […] Un’enorme maceria. Ecco com’è il mondo arabo, sottoproletario, a Israele […] un mondo piuttosto miserabile, arcaico, frantumato”.
I tre brevissimi frammenti appartengono a La Taranta (Mingozzi, 1962), Una malattia chiamata sud (Di Gianni, 1968) e Sopralluoghi in Palestina (Pasolini, 1965) e mostrano tre sequenze coeve in un territorio arretrato, poverissimo, fuori dal tempo e dalla storia.
Pasolini conclude i suoi Sopralluoghi (propedeutici, come si sa, al suo film sul Vangelo) scrivendo di volere trovare un paese che «abbia conservato attraverso i millenni la propria integrità» (Pasolini, 2001): e lo troverà non in Palestina, nemmeno fra i villaggi arabi perduti nel deserto, ma a Matera, in Lucania. Un medico del nord, una donna sensibile e intelligente, aveva descritto quelle che sarebbero divenute le location del Vangelo pasoliniano tre decenni prima:
Hanno la forma con cui a scuola immaginavamo l’Inferno di Dante e cominciai anch’io a scendere per una specie di mulattiera, di girone in girone, verso il fondo […] Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone: ognuna di esse ha sul davanti una facciata […]. Le porte erano aperte per il caldo […] Dentro quei buchi neri dalle pareti di terra vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento stavano sdraiati i cani, le pecore, le capre e maiali, ogni famiglia ha in genere una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini donne bambini. Così vivono ventimila persone. Di bambini ce n’erano infinità.
A parlare è la sorella di Carlo Levi che passa da Matera per andare a trovare il fratello confinato in Lucania dal regime fascista: il confino non è solo una riduzione delle libertà personali ma permette anche un peculiare regime dello sguardo che da un lato è limitato dai confini angusti di un territorio abbandonato, dall’altro scopre un’altra forma di esistenza, resistente, povera e tragicamente identica a sé stessa, apparentemente impermeabile al flusso della storia. Nel primo caso si tratta, come racconta Levi, di «circumnavigare i confini», che sono sempre quelli dell’abitato e tentare «un primo viaggio di circumnavigazione dell’isola. Le terre attorno, dovevano restare, per uno sfondo non raggiungibile oltre le colonne d’Ercole podestarili» (Levi, 1963).
Riusciamo a capire meglio la metafora di Levi se ricorriamo ad un saggio di Deleuze intitolato Cause e ragioni delle isole deserte: di un’isola, scrive il filosofo, «se ne può percorrere l’intero perimetro [come fa il confinato], è come un uovo» e, frontiera di uno sguardo confinato, in essa «tutto avviene come se avesse messo il deserto intorno a sé, al di fuori di sé. Il deserto è l’oceano che le sta intorno». E ancora, come nel territorio eletto a spazio di confino, «è disertata più di quanto non sia un deserto» (Deleuze, 2002).
L’immagine dell’isola in relazione al confino fa venire in mente più che Crusoe (a cui Levi, probabilmente, con le sue parole, alludeva) un altro confinato, Antonio Gramsci che, nelle Lettere dal Carcere, narra le prime impressioni del suo confino alla cognata Tatiana: il regime lo aveva confinato, appunto, in un’isola, Ustica. L’autore dei Quaderni, dopo la detenzione e le fatiche di un viaggio particolarmente difficoltoso (in treno, ammanettato con gli altri detenuti; in traghetto, a causa del maltempo), parla di una “cittadina saracena” dove fa una “vita tranquillissima”, mentre con gli altri compagni è occupato a esplorare l’isola, compiendo «passeggiate abbastanza lunghe, circa 9-10 chilometri con paesaggi ameni e visioni di marine di albe e tramonti meravigliosi» (Gramsci, 2020).
Il confine immediato del paese è, per Levi, invece, non il mare ma il burrone:
Sotto di me c’era il burrone; davanti, senza il nulla che si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissimi parevano sciogliersi nel cielo bianco. Nessun’ombra svariava quest’immobile mare di terra, divorato da un sole a picco. Era mezzogiorno. Ora di rientrare (Levi, 1963).
In questo mondo minacciato dal crollo (insieme fisico -un giorno il paese non esisterà più, assorbito dal burrone-, psicologico ed esistenziale) si muove un’umanità marginale, cupa “razza a parte” (Levi la descrive: piccoli, nere, teste rotonde, grandi occhi, labbra sottili) che non è simile né ai greci né ai romani né ai normanni che sono passati per le loro terre ma a “figure italiche antichissime” condannate alla ripetitività ciclica del mondo prima della storia e ai medesimi gesti della fatica.
Un terzo confinato, Cesare Pavese racconta, ne Il Carcere, di analoghe “pareti invisibili”, che non racchiudono un edificio ma una intera cittadina del sud, Brancaleone Calabro, dove era anch’egli stato esiliato dal regime: anche Pavese, come Levi, si abbandona alla descrizione del luogo e recupera, anche se in maniera indiretta, l’immagine dell’isola: «usciva allora dal paese che gli sembrava troppo piccolo. Le catapecchie, le rocce del poggio, le siepi carnose, ridiventavano una tana di gente sordida, di occhiate guardinghe, di sorrisi ostili “siamo fuori da ogni rotta” gli dice Giannino». Il confino è immediatamente, in forma quasi claustrofobica, un carcere dotato di pareti invisibili: Stefano si muove fra le siepi carnose dei fichidindia e l’orizzonte marino
“come se in realtà fossero le pareti invisibili di una cella, era il lato più naturale. Stefano accettò fin dall’inizio questa chiusura d’orizzonte che è il confino: per lui che usciva dal carcere era la libertà. Inoltre sapeva che dappertutto è paese, e le occhiate incuriosite della gente lo rassicuravano sulla loro simpatia. Estranei invece, fin dai primi giorni, gli parvero le terre aride e le piante, e il mare mutevole”
Dentro questo margine ridotto di esistenza, entra anch’egli in contatto non solo con i simpatici paesani ma, anche, con un’umanità precristiana, ora classico-pagana, ora selvaggia. Nel primo caso le donne che si muovono come le ninfe canefore della classicità, che Warburg aveva fotografato in un borgo fiorentino, Settignano (e inserito poi nella Tavola 46 di Mnemosyne):
“Si era fatto l’idea che le donne di quella terra fossero bianche e grassocce come polpa di pere. La donna scalza che va ad attingere acqua con un’anfora, portata obliqua suo fianco, abbandonandosi sulle caviglie. Tutte queste anfore erano dolci e allungate, d’un colore tra il bruno e il carnicino, qualcuna più pallida. Quella di S. era leggermente rosata, come una guancia esotica”.
Nel secondo, un mendicante che diventa un ibrido tra naturalità e umanità, tra vitalità meramente biologica e un umano così ridotto che rischia di dileguarsi e scomparire dietro le forme di una natura aspra e cancerogena: ogni uomo, in quella terra meridionale, porta dentro di sé un groviglio verde. E così il marginale, il povero, il reprobo diventa
“un esotico oggetto vagamente orribile, qualcosa come un rachitico groviglio di fichidindia, umano e crostoso di membra invece che di foglie. Erano atroci quelle siepi grasse, ammassate carnalmente come se l’aridità di quella terra non conoscesse altro verde, e quei fichi giallicci che incoronavano le foglie come se fossero davvero brandelli di carne”.
“Stefano aveva sovente immaginato che il cuore di quella terra non poteva essere nutrito d’altro frutto, e che nell’intimo d’ognuno si nascondesse il groviglio verdastro” (Pavese, 2018).
Gramsci a Ustica si imbatte presto in una seconda classe di confinati, i coatti che, a differenza dei politici, sono obbligati ad un regime di vita diverso, bestiale: la “mazzetta” (la diaria assegnata dallo stato) ridottissima veniva spesa soprattutto in vino, i pasti erano ridotti a pasta con erbe e un po’ di pane e non aiutava una clausura durissima in cameroni speciali, dove si moltiplicavano noia, liti e giochi d’azzardo: «Giocano alle carte, perdono la mazzetta di parecchi giorni e si trovano presi in un girone infernale che dura all’infinito». Questi reietti, lanciati fuori dalla storia dentro un girone infernale, fanno pensare ad un racconto di Kipling (che racconta di un ingegnere che cade accidentalmente in un cratere-prigione e si imbatte in una società di confinati-sopravvissuti ad un rito che per questo hanno perduto il diritto a rimanere tra i vivi); nello stesso tempo, Gramsci comincia a interessarsi a questo brandello di popolazione carceraria costretta all’abiezione, come farebbe un etnologo:
“È un vero peccato che non si possa avere contatti con esseri ridotti a una vita tanto eccezionale: si potrebbero fare delle osservazioni di psicologia e di folklore. Tutto ciò che è elementare sopravvive nell’uomo moderno, rigalleggia irresistibilmente. Queste molecole polverizzate si raggruppano secondo principi che corrispondono a ciò che di essenziale esiste ancora negli strati popolari più sommersi“(Gramsci, 2020).
La Lucania di Levi, la Calabria di Pavese, la Sicilia di Gramsci si rivelano essere isole accidentali e derivate. Deleuze, sempre nel suo saggio sull’isola deserta, a proposito della loro genesi direbbe che sono nate da una «disarticolazione, da una erosione, da una frattura [e] sopravvivono nell’inabissamento di ciò che li tratteneva» (Deleuze, 2002). Che passo suggestivo! La frattura di questo brandello di meridione che abbiamo appena tentato di descrivere non è geologica o geografica ma storica e la disarticolazione e l’erosione non è solo, ad esempio, quella del paese davanti al gran burrone che ne provocherà l’estinzione ma la condizione nella quale la classe dominante ha schiacciato quella “subalterna”. E viene in mente ancora Gramsci quando, nel Quaderno 25, intitolato significativamente “ai margini della storia” parla della classe subalterna come «disgregata ed episodica, discontinua della storia della società civile, degli stati e dei gruppi di stati» (Gramsci, 1975). Cosa può raccogliere, allora, lo sguardo da questa penuria? Cosa può intercettare in questo grigiore monotono, dentro un regime di esistenza ridotto, essenziale, impoverito?
La sfida è riuscire a trasformare pochi dati semplici in un quadro unitario trascendendoli e carpendo ciò che le testimonianze spesso rivelano senza volerlo grazie a elementi marginali e immagini apparentemente insignificanti o colorite. Si tratterebbe di passare da una cronaca dei marginali e degli sconfitti, espressione di un orizzonte irrelato di crisi senza speranza ad una attività valorizzante (per usare un concetto di De Martino) caratterizzata da un movimento dialettico: il passaggio da questo orizzonte di crisi al riscatto della presenza attraverso un trascendimento (Debray aggiungerebbe: non un al di là, ma un “al di fuori”; fuori perché distaccato, diremmo noi, dal grumo compatto di natura, perché ogni trascendimento, essendo un atto di cultura, ha bisogno di un’educazione ulteriore). Per Levi questo trascendimento sarà operato dal Dolore (grado zero, parziale, inefficace a lungo termine); per Pavese, dall’Infanzia (grado uno, mitico-poetico); per Gramsci, dalla Lotta di classe, morale e universale (grado due, politico efficace).
Nel primo caso, i contadini vivono nella storia come se non ci stessero, perché questa procede senza toccarli e si svolge in forme sempre uguali, mentre loro risalgono ogni sera, piccoli Sisifo della terra brulla, il burrone con gli animali per ritornare alle loro case, sera dopo sera, «con la monotonia di una eterna marea in un loro oscuro, misterioso, mondo senza speranza»; sarà De Martino a descrivere come le forme culturali antichissime ed efficaci della magia e del plactus riescono a condurre una presenza smarrita e costantemente minacciata, insicura del proprio mondo, verso il riscatto e il ristabilimento dell’esserci.
Nel secondo caso si tratta di una dimensione primaria dell’essere che è ancora-di nuovo tutt’uno con l’essenza del mondo, in un momento aurorale irriducibile a ogni razionalità dove si forma, nella coscienza, un sussulto divinatorio di fronte all’amorfo che si concretizza in idolo e immagine. Nell’infanzia, come nella cristallizzazione semplice di un’epifania, il tempo si blocca.
Nel terzo caso, si tratta di lottare, come scrive Gramsci in un articolo sull’Avanti, «per una cosa [il sogno di una cosa] che ancora non esiste, perché si lotta sempre per raggiungere qualcosa che non si possiede ancora».
Il cinema e la letteratura hanno naturalmente mostrato, nella loro costante ricerca del popolo perduto (Deleuze avrebbe detto “che manca”), immagini del Dolore, dell’Infanzia e della Lotta. Ma c’è un libro (e un film) che li contiene tutti e tre: stiamo parlando di Conversazione in Sicilia di Vittorini, che diventa Sicilia! di Straub-Huillet (ricordiamo che l’edizione del ’53 del libro venne concepita dall’autore come un montaggio di foto -di Luigi Crocenzi-, didascalie o “testine” e il testo vero e proprio secondo un lavoro di “accostamento” delle immagini più “disparate”, come rivelò egli stesso). Vittorini mostra questo sguardo che dialetticamente muove dal confino ad uno sconfinamento dello sguardo, che migra continuamente non solo verso il passato anagrafico ma verso una dimensione collettiva della storia. Anche lo sguardo del protagonista, Silvestro, è uno sguardo “confinato” proprio di colui che, all’inizio, è esiliato in una condizione psicologica di crisi della presenza, preda com’è di “astratti” e quindi irrelati “furori”, connotati da un paesaggio piovoso e dove “raggiungere la propria ragazza o leggere un dizionario è lo stesso” mentre l’acqua gli entra nelle scarpe e la vita ha perso la sua densità diventato irreale come un “sordo sogno”. Ed è proprio in mezzo a queste immagini della stasi in bianco e nero che emerge per un attimo il frame, caldo e compatto come un quadro compresso di sostanza terrestre di Morlotti, della Sicilia, concrezione di fichidindia e zolfo. In un rovesciamento di quanto visto fino ad ora è nel sud, in Sicilia, che lo sguardo confinato incontra la sua risoluzione e apertura, e intraprende uno scavalcamento di campo che gli consente di appropriarsi della sua storia personale e di affacciarsi su quella collettiva. Se sfogliamo le pagine del romanzo e quelle del film degli Straub, vediamo come le tre forme di trascendimento sono, non a caso, tutte presenti.
L’infanzia è l’oggetto del nostos del protagonista, Silvestro, che decide, dopo una lettera del padre che gli annuncia di aver lasciato la madre per un’altra donna, di far ritorno in Sicilia per andare a trovarla: non a caso l’edizione del ’53 si apre con la didascalia “Come mai avuta un’infanzia in Sicilia” a commento della foto che apre il testo e che mostra un bambino davanti ad un paese costruito nella roccia. La terra dell’infanzia è quella delle case cantoniere dove vivevano, «campagna secca, color di zolfo, e io ricordai il gran ronzio dell’estate e lo sgorgare del silenzio e di nuovo pensai che si stava bene – Erano posti di malaria per lo più» (Vittorini, 2007) e il richiamo alle terre malariche ritorna in un passo di Levi che cito a memoria “Il cielo era rosa verde e viola, gli incantevoli colori delle terre malariche e pareva lontanissimo”).
Il dolore è quello di un popolo che, esattamente come i contadini di Levi, «nonostante la guerra e le lotte contadine, lo zappatore o il minatore siciliano vive ancora, nella sostanza della sua vita d’ogni giorno, quasi come nel ’37 mi ricordo di averlo visto durante l’infanzia»; non a caso il Viaggio in Sicilia si apre con l’incontro con la coppia che vende arance e fa continui riferimenti al “mangiare” scarso (mangiare e non mangiare che diventa poi, nella conversazione con la madre, differenza tra stare bene e stare male, ma anche tra ricordare e non ricordare). Il giro delle iniezioni fatto con la madre è, poi, un nuovo confinamento dello sguardo dentro una Sicilia sotterranea, ipogea, infernale: all’improvviso ci si trova “nel buio”, «su un terreno ineguale di terra nuda, in un odore di pozzo abbandonato». Nella parte quarta, è il dolore del popolo imbruttito dal vino nella locanda di Colombo, condannato all’inerzia e alla ignavia: «Vino ignudo attraverso i secoli, e uomini ignudi in tutto il passato del vino, tanfo nudo di vino, nudità del vino”: sonno ubriaco degli operai». Sono uomini umiliati e disarmati, che non hanno più né coltelli né forbici, armi da adoperare contro il potere esercitato della classe egemonica. È l’arrotino incontrato davanti alla piazza del paese a rivelarlo a Silvestro, che apre al terzo trascendimento, quello della Lotta di classe: «niente da arrotare in questo paese? Coltelli? Forbici? Credete che esistono ancora coltelli e forbici in questo mondo? Che mi date da arrotare? Non mi date un spada? Non mi date un cannone? E li guardo in faccia negli occhi, e vedo che quanto mi danno non può chiamarsi nemmeno chiodo».
Nel film degli Straub (che si ferma proprio all’incontro con l’arrotino) sono caricate al massimo le due dimensioni della parola (il personaggio-dicitore tipico del loro cinema) e del paesaggio. Quest’ultimo è un vero e proprio operatore di trascendimento che impone uno scarto potente alla fissità dei piani delle conversazioni, degli incontri e delle nature morte (queste ultime possiedono una purezza litografica e nello stesso tempo ricordano l’umile e densa stringatezza di una natura morta di de Pisis, per esempio quella del ’25 della Galleria d’Arte Moderna di Roma, Natura morta con pesci e bottiglia). Il paesaggio è inquadrato sempre in movimento, ma non si tratta di un paesaggio povero, abbandonato dalla storia, come quelli descritti all’inizio. Questa Sicilia, filmata nel 1999, è una terra rigogliosa e ordinata, dove è forte la presenza dell’uomo. La prima carrellata dal finestrino del treno mostra in lontananza i palazzi di una città moderna; la seconda, dopo un margine di terra brulla e aspra, macchiata dal muschio, inquadra la piana azzurra del mare e lontane, due navi; un travelling calibratissimo descrive poi una collina costellata da paesini ordinati. Nello stesso tempo il racconto, caratterizzato da una potente e ipnotica dimensione verbale (e dalla cadenza ritmata dello slang) che si sviluppa attraverso la metodica di piani accuratissimi e grazie proprio alla macchina da presa in movimento, mette lentamente a nudo l’esistenza, la assale con improvvisi e calcolati silenzi, nella cesura che la natura impone alla grande ricapitolazione culturale di una vita che da singolare si apre al collettivo. Il paesaggio diventa, allora, davvero, matrice di presenza e luogo culturale di ominazione che nasce dallo sguardo dell’uomo urbanizzato: quest’ultimo, come gli Straub con la loro cinepresa, osserva da lontano: perché perlustrare il mondo come se si stesse lentamente rivelando davanti a noi non è una folgorazione improvvisa, ma (da qui la lenta operosità del travelling, che impone all’occhio non un’epifania folgorante ma un esercizio e un lavoro) la conquista di una coscienza che ha superato lo scoglio della crisi per aprirsi all’ethos della cara memoria (la Sicilia dell’infanzia recuperata) e del trascendimento del valore attraverso le armi, non più spuntate ma acuminate dall’esercizio della storia e del pensiero critico, della vita culturale. Perché alla fine ogni storia, anche quella che sembra apparentemente più marginale, possa farsi “storia contemporanea”.

Testi citati
P.P. Pasolini, Sopralluoghi in Palestina, in “Per il cinema”, Mondadori, Milano 2001.
C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1963
G. Deleuze, L’isola deserta e altri scritti, tr. it., Einaudi, Torino 2002.
A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 2020.
C. Pavese, Il Carcere, Einaudi, Torino 2018.
A. Gramsci, Quaderni dal Carcere, III, Einaudi, Torino 1975.
E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Rizzoli, Milano 2007.