Umiliare l’alterità
Alcune riflessioni eteroclite a partire da “Dal Pianeta degli umani” di Giovanni Cioni
di Giovanni Festa
Queste tre immagini sovraimpresse, la prima tratta da Island of lost souls (E.C. Kenton, 1932), la seconda da King Kong (M. C. Cooper, E. B. Schoedsack, 1933) e la terza da un documentario etnologico mostrano, come vedremo, tre forme di umiliazione dell’animale.
I frame a loro volta sono tratti dal film di Giovanni Cioni Dal pianeta degli umani (2021). Il film parla del desiderio di quello che manca: lo spazio (i migranti che cercano di passare il confine fra Ventimiglia e Mentone, fra Italia e Francia, attraverso un percorso accidentato fra le montagne chiamato “il percorso della morte”) e il tempo (è l’ambizione borghese, quella di non invecchiare, in questo caso attraverso gli esperimenti di uno scienziato, Serge Voronoff, che negli anni della Belle Epoque conduceva esperimenti sulle scimmie per trapiantare i tessuti dei testicoli sui corpi umani, allo scopo di ringiovanirli).
Il desiderio di spazio apre alla dimensione dell’epos, il desiderio di tempo all’ibridazione uomo-animale. Questo ci fa venire in mente un fotogramma in più, quello di Bela Lugosi che, in Ape Man, mostra una delle immagini più spietate della degradazione umana, lo scienziato chiuso in una gabbia con una scimpanzé donna che giace con lei nel pagliericcio sudicio: la femmina di scimmia è divenuta la sua compagna. È il movimento opposto di quelli appena intravisti: qui il fotogramma ci racconta che basta poco all’uomo per aprire la gabbia, entrarvi, camminare a quattro zampe e, come dice Bataille, nella voce del dizionario di Documents “Metamorfosi”, “mangiare il pastone dell’animale”. Ferinità che nel film di Cioni è evidenziata anche nel discorso di Mussolini in inglese modificato dal ralenti, dove il “duce” sembra un animale che sta masticando con la sua enorme mascella e da lì a poco attaccherà, come dice Elsa Morante, il suo carretto di carnevale della “romanità” a quello funebre della “razza” nazista che degrada e stermina l’altro.
Nei tre fotogrammi vediamo qualcosa di parallelo e opposto: non l’uomo degradato ad animale, o l’uomo che assume le sembianze dell’animale, ma l’animale che viene degradato o attraverso la cattura e l’esposizione o attraverso un’imperfetta e crudele imposizione delle sembianze dell’uomo.
Le tre immagini sovraimpresse costituiscono un curioso corpo ibrido dove si vedono simultaneamente: un gruppo di persone (divisi fra colonialisti e nativi); l’orizzonte marino e un’isola dove appare un sipario rosso (che si dissolve su uno sfondo di natura selvaggia); un palcoscenico (per metà di pietra e per metà di legno) sopra il quale un omino in frac (in abiti da presentatore di circo) e una donna in abito lungo e bianco si trovano sotto a un alto podio meccanico dove un enorme macchia nera, nella quale riconosciamo le fattezze di un enorme scimpanzé con le braccia assicurate a una trave che è insieme meccanica e di legno, sembra volersi slanciare contro di loro.
“Sfogliando” le immagini sovraimpresse vediamo quindi la ferocia dell’uomo che vuole uccidere l’animale (è l’immagine del documentario etnologico) o esporlo come attrazione in un teatro (King Kong). Entrambi i gesti di violenza sono inseriti nel frame dell’arrivo all’isola del Dr. Moreau (Island of the lost souls) dove avviene il terzo livello, il più complesso, della relazione uomo-animale. Moreau è il dottore che innesta un animale su un altro attraverso il trapianto dei tessuti in una “stanza del dolore” (il laboratorio dove le cavie vengono dissezionate e subiscono lo “spostamento” degli arti) e, poi, inizia con questa creatura meticcia una paradossale educazione a tappe forzate che la condurrà a camminare eretta, non cibarsi di carne, vestirsi e addirittura parlare. Ma il tentativo da parte di Moreau è condannato all’insuccesso, i risultati non sono che ibridi (la maggioranza di essi, come sottolinea più volte il narratore, naufrago-Robinson che giunge nell’isola per caso, sono rivoltanti parodie dell’umano): non aveva potuto Moreau, medico e anatomista, leggere Lévi-Strauss e lo strutturalismo, che spiegano come sia impossibile unire due termini antitetici (uomo/animale; natura/cultura) senza un termine mediano, di compromesso, che assicura il passaggio da uno a due: “l’unione si ristabilisce grazie a un termine intermedio, di cui il mito si propone di rintracciare l’origine: l’acqua (fra il cielo e la terra); gli ornamenti corporei (fra natura e cultura); i riti funebri (fra i vivi e i morti)”. Inoltre il dottore vuole che questo movimento che considera evolutivo (e invece è solo espressivo) si sviluppi secondo una linea retta che va in una sola direzione e non intuisce che il movimento non avviene solo da un punto considerato come origine fino a un altro come arrivo, ma in entrambi i sensi (qui avrebbe dovuto leggere Bataille: bocca-ano, fiore-radici, sole-occhio sono elementi non solo intercambiabili ma oggetto di una permutazione continua).
I risultati del dottore sono quindi ciò che si ottiene tentando l’operazione senza un termine di mediazione. Assente questi, qualcosa ne prende il posto, che invece di sublimare i due termini antitetici, prende elementi incompleti e parziale dell’una e dell’altra parte, e il risultato, come si è detto, è un ibrido, una caricatura: le due metà non correttamente assimilate diventano un eccesso incompleto di entrambe, incapace di raggiungere la sintesi.
Agli ibridi viene insegnato per prima cosa a camminare eretti: al camminare eretto, atto biologico-evolutivo, segue e si riconnette, nell’educazione progressista e ipervelocizzata di Moreau, l’apprendimento delle “buone maniere a tavole a tavola”: l’ibrido non è più l’animale che lappa l’acqua del fiume a quattro zampe ma è l’essere educato che ha appreso a bere dentro un bicchiere. Il passo successivo, è quello di trasformare una sequenza di suoni sconnessi in parola. Affinché questi insegnamenti seguano vigenti, è necessario che una serie di Leggi dell’Altro (Moreau è a un tempo creatore e legislatore, occupa la doppia casella di dio ed eroe culturale) vengano ripetute ad alta voce costantemente dagli ibridi, affinché non smettano di assimilarle. Sono, queste, leggi che parlano di paura verso l’autorità (che possiede il tuono e la frusta) e della presenza del peccato, il pericoloso e paventato richiamo dell’animalità, ovvero dell’istinto, che viene scongiurato mediante una serie di interdetti: non mangiare carne, non lappare, non uccidere. Il risultato è una specie di Decalogo che la psicoanalisi ci ha spiegato divenire super-io, una volta che la voce recitata che ripete il comandamento dell’altro viene assimilata dall’io (con tutto ciò che questo comporta: “nessuno mi impone di non farlo: sono io che voglio non-fare”).
Ma allora l’esperimento del Dr. Moreau, che credevamo fosse fallimentare, è in realtà, perfettamente riuscito. Il percorso seguito dal dottore è quello dell’illuminismo, per il quale la ragione rappresenta l’istanza del pensiero calcolatore che prepara e modifica l’oggetto che passa dall’essere mero contenuto sensibile, a materiale di sfruttamento nel quale l’essere è visto sotto l’aspetto della manipolazione (per Moreau si tratta di una manipolazione letterale attraverso vivisezione e trapianto) e dell’amministrazione (attraverso la legge). Inoltre, il progresso verso l’umanità degli ibridi è dato proprio dall’essere docili a lasciarsi governare: ogni intemperanza è considerata come ritorno all’animalità e va quindi non più semplicemente repressa (attraverso la legge), ma soppressa (attraverso l’omicidio inteso come punizione per il trasgressore).
Nessuno mette in luce meglio di Moreau il carattere borghese che si nega l’istinto e nega il piacere attraverso la nevrosi (tutti gli ibridi sono nevrotici, tesi fra quella che sembra un’irrecuperabile istintualità e una incerta umanità fatta di imitazione e castigatezza). A sua volta Moreau, il medico, è un demiurgo che crea (l’atto di “creazione” è analogo a quello che oggi si chiama “soggettivizzazione”) ma, essendo illuminista (e, come vedremo, incarnazione della coscienza borghese), lo fa attraverso il castigo. Però, come demiurgo qualcosa ha svelato: vuole mostrarci un atto paradossale, che invece di creare dal nulla (atto creativo e creatore) ricrea il già creato, che non sostituisce il mito della Creazione con un altro nuovo, ma semplicemente lo imita dandogli da una Legge. Il risultato è una prassi illuminista: come dicono Horkheimer e Adorno, “mentre tutte le trasformazioni precedenti, dal preanimismo alla magia, dalla società matriarcale a quella patriarcale, dal politeismo dei proprietari di schiavi alla gerarchia cattolica, aggiungevano mitologie nuove (il dio degli eserciti al posto della grande madre, l’adorazione dell’agnello al posto del totem), alla luce della ragione illuminata si è dissolta come mitologica ogni devozione”. E sarà questo incidente per così dire “originario” che farà, come vedremo, saltare il sistema.
Inoltre Moreau ci pone davanti ad un enigma affascinante: abbiamo visto continuamente, nel corso della storia, i danni che implica l’eclisse della ragione (o la sua ipertrofia, ma questa è la Dialettica dell’Illuminismo, e la sua tendenza inconscia di convertirsi in fascismo) da parte dell’uomo degradato che muove verso la regione pericolosa degli istinti scatenati. Moreau ci mostra cosa accade quando avviene il contrario: non già la ragione manovrata dall’istinto, ma l’istinto degradato dalla ragione: l’animale-uomo non riesce a far altro che diventare una parodia del borghese, grazie all’assimilazione della legge che dice “rinuncia” (di colui che si vieta, in vista del futuro, l’immediato presente); c’è un atto di sottomissione emblematico dove gli ibridi si ricoprono il capo di cenere come accade nel rituale cattolico durante il “Giorno delle ceneri”, dove battersi il petto è considerato un trionfo e si esalta una morale di vita che si vieta, in vista del futuro, il godimento presente. Questo ibrido d’uomo, possiede, è vero, anche alcune virtù positive, che però non sono, come possiamo pensare, umane, ma animali: la fedeltà e la tenerezza dell’ibrido con testa di cane nei confronti del narratore non sono proprie di un’animalità redenta, ma del ricordo confuso di un’animalità precedente e potente (“era fedele, mi dormiva accanto come il cane dal quale l’ibrido proveniva”, dice più o meno il narratore di Wells a un certo punto). Infine l’ibridazione mostra per così dire, in laboratorio, qualcosa a cui abbiamo già accennato: il risultato della risoluzione di un conflitto senza termine mediatore. Un termine mediatore poteva essere la cottura degli alimenti, il passaggio dal crudo al cotto, ed è qui che vediamo come fosse tragicamente erroneo il tentativo di Moreau: quando il suo assistente mostra al più evoluto degli ibridi come cuocere la carne e gli fa poi assaggiare la carne cotta, non gli fa fare un passo avanti verso la sua nuova condizione ma, solo, gli ricorda la vecchia e il suo desiderio di sangue. Inoltre il fuoco, da gradito (agli ibridi) diventa sgradito (una volta che gli animali cominceranno a retrocedere verso la loro condizione animale primitiva).
Un mito degli Gé brasiliani (presente in numerose varianti) raccolto da Lévi-Strauss ci trasmette l’operazione perfezionata e funzionante di quella tentata da Moreau raggiungendo la corretta transizione animale/uomo. È il famoso mito del giovane eroe che, obbligato dal marito della sorella (che lo accompagna, lasciandogli la parte pericolosa della spedizione), va a caccia di ara, uccelli dal piumaggio meraviglioso che nidificano su una parete rocciosa (o, secondo altra variante, su un albero), raggiungibile grazie a un tronco abbattuto. Il giovane si spaventa -gli uccelli sono aggressivi- e il cognato, spazientito, toglie il tronco e se ne va, abbandonandolo al suo destino. Per cinque giorni l’eroe rimane bloccato nel crepaccio e gli uccelli lo ricoprono di escrementi (in una variante va a caccia di lucertole, se ne ricopre come se fossero ornamenti ma quelle, legate al “naturale”, cominciano a puzzare e attirano gli avvoltoi che menomano l’eroe). Un giaguaro passa nelle vicinanze, e prima cerca di acciuffare l’ombra dell’eroe fanciullo, poi lo scorge, e, dopo un lungo conciliabolo, lo convince a scendere. Dopo averlo ripulito dalla lordura, lo conduce alla sua dimora, dicendogli che vuole adottarlo. Nella casa del giaguaro il ragazzo conosce il fuoco, capace di illuminare, riscaldare e cuocere la carne. Ma è anche rifiutato dalla moglie del giaguaro, un tempo donna e che adesso ha assimilato le caratteristiche del suo sposo (ruggisce, mostra i denti, in una variante lo ferisce al volto con gli artigli). Il giovane, adesso “figlio adottivo”, racconta le angherie al padre-giaguaro, che dopo aver rimproverato senza esito la moglie, offre al giovane arco e frecce con i quali ucciderà l’aggressiva madre adottiva. Il giaguaro approva il gesto e spiega all’uccisore incolpevole come tornare al suo villaggio, dove donerà il fuoco e rivelerà il segreto della carne cotta agli uomini. In quasi tutte le varianti il giaguaro è benevolo e non si cura della morte della moglie; il suo dono è quasi sempre spontaneo; quando la tribù, per riprodurlo, deve tornare alla casa del giaguaro e, con il supporto di animali-aiutanti magici, rubare il tizzone ardente e spegnere la brace caduta nel cammino; a volte il giaguaro è vittima di un furto, altre suggerisce come organizzare il trasporto e addirittura propone gli animali-aiutanti. In alcune varianti il ritorno al villaggio dell’eroe è immediato, in altre deve attraversare una terra di mezzo dove risponde ai richiami dell’albero putrido introducendo la brevità dell’esistenza nell’orizzonte umano.
Nel mito accade quindi il contrario di quello che avviene nella versione pervertita del mito di Moreau, anche se l’inizio è, in un certo senso, abbastanza simile: se proviamo a considerare como omologhi l’eroe cultuale con il naufrago-narratore del romanzo scopriamo alcune somiglianze: l’eroe del mito si trova su un crepaccio senza apparente via di uscita, quello del romanzo nei pressi di un’isola lontana dalle rotte; entrambi hanno sperimentato la fame (l’eroe a causa dell’esilio sul crepaccio, il narratore a causa del naufragio) ed è proprio la magrezza eccessiva, la prostrazione e la sporcizia che viene posta in evidenza in entrambi i casi; anche i primi gesti di soccorso sono abbastanza simili.
Se sovrapponiamo Moreau con il Giaguaro, scopriamo invece una serie di opposizioni. Il giaguaro salva e adotta l’eroe, Moreau compra e mutila l’animale: il primo gli da ricovero nella sua grotta, il secondo costruisce per lui una “casa del dolore”. Inoltre è il giaguaro a insegnare all’uomo come diventare tale e non l’uomo (Moreau) a insegnare all’animale come diventare umano. Inoltre l’eroe culturale è coperto di sporcizia e dovrà lavarsi; la casa degli ibridi ha un odore ancora animale (l’odore non mitigato è una caratteristica dello stato naturale); l’eroe si imbatte nella donna-giaguaro, che, in apparenza simile all’ibrido di Moreau, ha invece subito il processo contrario: non da animale a donna ma da donna ad animale. Dopo aver scoperto (al contrario di Moreau), che è impossibile venire a patti con lei, decide di ucciderla (cosa che nel romanzo accadrà solo alla fine, quando la possibilità di una società di ibridi nell’isola è andata perduta). Il giovane eroe del mito Gè gradisce infine la rivelazione del fuoco e del cibo cotto che lo elevano verso l’orizzonte della cultura, mentre sono elementi che fanno ritornare l’ibrido del romanzo di Wells all’indietro, verso lo stadio ferino. Questo è ovvio: da un lato abbiamo assistito all’assimilazione della cultura intesa come apprendimento attraverso una scoperta, dall’altra, come imposizione attraverso una legge.
Il mezzo con cui Moreau ha raggiunto il potere è quello che Adorno considerava proprio di un’intera classe sociale, la borghesia: scatenamento delle forze, libertà generale, autodeterminazione, e che, alla fine, non può che rivolgersi contro di lui, che, in quanto sistema di dominio, non può non esercitare l’oppressione.
Il ritorno alla violenza del “tutti contro tutti” non avviene solo perché Moreau (la Legge) muore per mano dei suoi ibridi, ma perché (anche a causa dell’incapacità del narratore di sostituirsi a lui attraverso la finzione parodica del sacrificio cultuale), in questo passaggio senza termine mediatore, gli ibridi non possono far altro che ritornare, semplicemente, da una condizione della parodia “borghese” alla condizione originaria (che è più forte di quella considerata a torto come terminale, e che è invece sempre parziale e va costruita senza sosta), quella animale o della violenza scatenata. Ma non si realizza così un’altra somiglianza, ancora più radicale fra uomo e animale?
Il sospetto invade anche il narratore-naufrago una volta ritornato a “casa”: “guardo gli uomini intorno a me e vivo nel timore. Vedo facce severe e occhi brillanti, fisionomie stupide o pericolose, altre irrequiete e non sincere; nessuna ha la calma autorità di un’anima razionale. Sento come se l’animale che è in loro dovesse rivelarsi; sento come se la degradazione degli abitanti di quell’isola dovesse ripetersi su più vasta scala”. Accade, nel naufrago che è riuscito a fare ritorno dall’isola dove ha contemplato i misteri pericolosi dell’assenza di mediazione e dell’amorfo, una strana perversione dello sguardo che gli fa considerare i suoi simili come l’eroe considerava la moglie del giaguaro e che nel mito può trasformarsi in orchessa: se l’ibrido è il massimo che può raggiungere l’animale spinto verso l’uomo, l’orco è il massimo a cui può aspirare l’uomo spinto verso l’animale. È quello che ci suggerisce il film di Cioni con l’inserto delle immagini di vecchi film familiari (che mostrano le vacanze al mare dei nostri “antenati”): fantasmi borghesi davanti alla quale siamo colti dallo stesso sconcerto del narratore nel libro.
Wells si congeda con due frasi interessanti: prima dice che “l’animale si rivela nell’uomo” e ci fa tornare di nuovo all’inizio e a Bataille quando dice: “c’è, così, in ogni uomo, un animale rinchiuso in una prigione, come un forzato, e c’è una porta, e se si socchiude la porta l’animale si avventa fuori come il forzato che trova l’uscita”. Ma trovata l’uscita (che è l’aperto senza mediazione) “l’uomo casca morto e la bestia si comporta come bestia”. Questo spiega l’involontario senso di disagio provato dal narratore quando si imbatte in un ibrido che scambia per un uomo: quando l’ibrido ripete le nozioni acquisite, esse non sono più umane, ma bestiali; Horkheimer e Adorno scrivono che “i comportamenti preistorici, su cui la civiltà ha posto un veto, hanno condotto un’esistenza sotterranea, trasformandosi, sotto il marchio della bestialità, in comportamenti distruttivi”.
È quello che accade agli animali di Moreau, certo, ma anche a un individuo che perde la sua individualità all’interno della massa, ed è poi diventato solitario consumatore della cultura-di-massa. Arriviamo così alla seconda frase, ancor più involontariamente profetica, di Wells: “sento come se la degradazione degli abitanti dell’isola dovesse riprodursi su più vasta scala”. La perdita di mediazione fa scivolare tutto nell’amorfo. Il narratore da un lato non considera il prossimo come suo simile, ma come massa, moltiplicazione caratteristica della perdita di ogni attributo individuale nell’estasi del numero; e, dall’altro, sembra riferirsi involontariamente alle masse future contagiate della propaganda dei regimi totalitari prima e capitalisti poi. È forse per questo che Giovanni Cioni, in un film che tiene insieme tutte queste letture, insieme a Mussolini e al fascismo, faccia riferimento anche alla società attuale, con le immagini di Sanremo nei giorni del Festival dove, attorno ai giovani e ai loro telefonini, passa un’altra figura di mediazione impossibile perché arcaica -che oggi significa inservibile-., quella dell’uomo ubriaco che straparla, e che una volta sarebbe stato il fool della tribù.
Viene in mente, per concludere, un’altra comunità parallela a quella dell’isola di Moreau: la comunità libertina in Juliette, o la prosperità del vizio del Marchese De Sade.
Quando Juliette esegue i comportamenti preistorici non li esegue in quanto naturali. Gli ibridi a loro volta non eseguono i comportamenti acquisiti come se fossero naturali (mettendo in luce una grande illusione della borghesia: far sì che le buone maniere, il massimo dell’artificioso, fosse percepito come naturale: Proust scrive pagine magnifiche su questo, e non a casa il salotto di Guermantes è una successione di figure araldiche, ovvero di ibridi) mostrandoli, in questa loro imitazione sconnessa, per quello che sono: atti paradossali e assurdi.
Entrambi, Juliette e gli ibridi, eseguono le azioni primitive, ed entrambi lo fanno non perché siano naturali, ma perché vietate o imposte. I due casi sembrano opposti solo all’apparenza. Sia Juliette che gli ibridi, infatti, per rompere il divieto, dovranno aprirsi ad una contro-educazione rispetto a quella borghese ricevuta da entrambi: Per Juliette si tratta del libertinaggio, che implica la fede nella scienza, e l’attrazione per quelle forme paradossali che erano state colpite “dall’interdetto e dalle false leggi delle civiltà”; Per l’ibrido si tratta della regressione da parte di chi, dopo una iniziale difficoltà a mantenere la posizione eretta, si impone all’inizio come la perdita delle buone maniere a tavola: “Quantunque evidentemente si vergognassero di se stessi, tenevano le cose in mano con maggiore difficoltà, bevevano succhiando, mangiavano rosicchiando” dimostrando quella che Moreau definiva “pervicacia dell’istinto animalesco” e che fa dire al narratore: “stanno regredendo, regredivano rapidamente”. Entrambi, Juliette e l’ibrido, rompono la Legge ritornando, però, ad un primitivo divenuto bestiale: Juliette opponendo al giudizio di valore un valore opposto, demonizzando la civiltà e coltivando la prassi del sacrilegio, gli ibridi ritornando alla selva e al sangue. Entrambi si sbarazzano di due forme di asservimento verso un’essenza unica: Justine salva il piacere dissociandolo dall’amore come dedizione e venerazione per l’amato; l’ibrido salva l’istinto animale dalla perversione in quello gregario intimidito dal potere del capo.
E qui si consuma la grande differenza fra il libertino e l’ibrido: se il secondo mostra semplicemente una libido regredita (fino all’abisso animale), la prima mostra “il piacere intellettuale della regressione”, “l’amor intellectualis diaboli” e non il semplice terrore animale verso la sferza del padrone ritornato ad essere appetito cieco. Juliette va contro la morale, si imbatte nei divieti che infrange euforicamente (provando una scarica di piacere sessuale) e ama il sistema e la coerenza razionale (la vertigine della “scarica” si raggiunge attraverso l’apatia e il sangue freddo).
Per l’ibrido ad essere primitivo è l’acquisito, cioè il culturale, e opporsi ad esso significa schiudersi di nuovo all’orizzonte dell’istintualità cieca (che non prova piacere e non va al di là della soddisfazione del bisogno) e a quello che Heidegger chiamava “apertura nel non-disvelamento”. Inevitabile scacco, questo, di un demiurgo che, senza la capacità di articolazione e lo spazio del pensiero dato dalla mediazione, invece di creare uomini, finisce per produrre in serie gryllos, versione volgarizzata dei mostri mitici, sparsi relitti medioevali di un’araldica arcaica e prestigiosa. Non possiedono, questi ibridi, né il fasto né la grande immagine della coazione, ma solo la spirale di un tempo in scadenza che, in nome di una mal assimilata autoconservazione razionale, ogni secondo precipita verso il ritorno alla pulsione cieca.
La libertà da ogni scrupolo e rimorso che porta all’annichilimento sistematico dell’altro da sé, e quella data dell’animalità cieca finiscono quindi per assomigliarsi. È quello che scopriamo attraverso la relazione che si consuma fra la figura eteroclita di animale-uomo e il suo creatore, che può portare ad una concezione assolutista del “movimento universale dello spirito sovrano che si sente di portare a compimento” e la “cieca esaltazione della cieca vita, a cui si vota quella stessa prassi che schiaccia tutto ciò che è vivo”: l’eccesso della ragione e la sua mancanza, la disperata volontà di distruggere tutto ciò che incarna la natura e la periodica ricaduta senza mediazioni in essa. La via che sale e la via che scende sono, ancora una volta, una e medesima cosa, e muovono entrambe verso un pezzo anonimo di terra popolato di cadaveri.
Ho scritto questo pezzo un paio di mesi fa. Lo sto rileggendo per pubblicarlo oggi, 22 ottobre, giorno delle elezioni presidenziali in Argentina, che è il paese dove mi trovo adesso. Il pericolo è la vittoria di Javier Milei, leader di un partito che si chiama La libertad avanza, un anarco-capitalista che assomiglia molto al Dr. Moreau (e non solo perché parla con il cane morto). Impossibile non pensare al popolo argentino, in un giorno così decisivo per la propria storia, sperando che le forze dell’oscurità, alla fine, non prevalgano.