TWIN PEAKS – IL RITORNO di David Lynch
Un traslato onirico
di Edoardo Bruno
Twin Peaks, Il ritorno apre un sapere nuovo nel cinema contemporaneo con un gusto antico, nonostante i salti linguistici e i comportamenti dei personaggi richiamati dopo venticinque anni di assenza dal primo sequel.
Nell’episodio n. 3 è il ritorno all’avanguardia, a un cinema della marginalità dei fatti, dell’inquietante/perturbante, in quella schizofrenia del tempo che Jameson considera fondamentale nell’avanguardia. Dov’è questo posto? Dove ci troviamo? Gli interrogativi, nel groviglio di sensazioni e di domande senza risposta, restano muti. Cooper e la donna, sembra un incontro impossibile. Ogni tentativo di riannodare un ricordo, di mettere a fuoco l’immagine di lei scade in un espandersi del colore rosso del suo vestito e del bianco del volto, come cancellato dall’abbaglio dei lampi di luce. La mdp scandaglia la piccola stanza, fissa la donna dal volto inesistente, dai risvegli impulsivi, tipici di certa avanguardia americana, vista come in un traslato onirico, ferma nelle ore segnate dall’orologio – le 2:53. D’improvviso tutto si rimpicciolisce e la scena si apre in una strada sotto il sole, vista da dentro un’automobile in corsa. Psicanalisi dei riflessi? Emozioni di un montaggio imprevisto che scompone l’immaginario? La psicanalisi dovrebbe essere capace di scomporsi ad ogni istante, come la téchne che sa qual è la sua dipendenza, che sta a margine di un sapere e anche su ciò che sfugge al sapere, meglio su ciò che non si vuole radicalmente sapere. E “Pourquoi ne veut-il pas le savoir? – si domanda Lacan – si ce n’est parce que c’est là quelque chose qui le met en question comme sujet du savoir”[1].
Lynch in Twin Peaks, il ritorno non abbandona i suoi stereotipi, i miti, le autostrade riprese in corsa, la linea bianca di Strade perdute, non abbandona i primi bianco e nero di Eraserhead col rumore assordante delle macchine industriali, e ricostruisce i percorsi virtuali attraverso la narrazione dell’Avventura. I suoi eroi richiamano la letteratura western dei primi fumetti, lo Sceriffo, le Guardie, i Posti di polizia di piccole città, all’ombra della foresta, Twin Peaks, stato di Washington. Il ritorno si muove tra il passato e il futuro, in una narrativa del già visto, i luoghi, le azioni, i personaggi sembrano riemergere dopo 25 anni di assenza e in questa ripetizione lo spazio ritrovato e lo spazio circolare del sogno, sembrano condannati a ripetersi, in una allucinazione. Cooper, Diana, lo Sceriffo, Gordon e gli altri personaggi, sono come fermati nel tempo, con i loro difetti e con le parole di uno slang che supera l’inversione degli anni. D’improvviso una luce nera si apre, in una data del 1945, nel New Mexico, allo scoppio delle prime prove atomiche; il buio si infrange in tante piccole spore, il silenzio spaziale si impone e prende la forma di un ritmo musicale, reiterato e continuo. Il cinema si fa oggetto della visione, e come in una vecchia sala cinematografica le immagini in bianco e nero ‘escono’ dallo schermo, l’uomo elegante abbraccia la ragazza-bambola, l’oscurità viene attraversata da un raggio appena colorato da un giallo/marrone che poi si dilegua nel buio: 1956, una forma volatile, forse un insetto, entra nella bocca spalancata nel sonno, di una ragazza.
Così prosegue nel sogno, una puntata dopo l’altra, Il ritorno, un film di diciotto ore, ritagliato in episodi, ma sostanzialmente un lungometraggio, che andrebbe ‘visto’ tutto insieme, come il Grande Sogno irrealizzato dai grandi maestri del cinema, che volevano uscire dagli standard della lunghezza imposta per ragioni industriali. Ricordo la catastrofe economica di Greed di Stroheim affondato nel deserto dell’Inferno bianco, film immaginato di una lunghezza discussa e accettata dalla produzione di dodici ore, ma poi ridotto, tagliato, censurato, umiliato, ma ugualmente vincente, per la qualità, la magia – image-magie – della costruzione di un realismo altamente poetico.
Corrono così le immagini di Twin Peaks su un paesaggio ricostruito, come in un sogno, un ricordo dell’ultima immagine di venticinque anni fa, con i personaggi che ritrovano le loro abitudini, i loro gesti, i loro amori – Laura Palmer. Ritornano o sono solo sogni sognati, incubi, paure, ma non desideri? I fatti si susseguono nelle puntate, senza speranze. L’agente Cooper si ritrova in un doppio inquieto, in un personaggio rallentato nei gesti, assente, come addormentato ma dai nervi pronti a scattare ad ogni pericolo; piccolo uomo di famiglia ed eroe di una saga misteriosa, senza fine, pronta ad un nuovo futuro, con personaggi-folletti non più collegati all’energia delle scariche elettriche, ma in attesa dell’energia atomica, che verrà, come un tramite misterioso.
Twin Peaks respira ancora l’aria del secolo scorso, l’aria del Novecento con i suoi Gialli, con le ricerche alla Simenon, con le intuizioni dei suoi Sherlock Holmes; con lo Sceriffo e gli agenti di polizia, all’avventurosa ricerca di un colpevole ignoto. Respira l’aria del sogno, con la luce sgranata, con le case disposte come in un gioco, tutte uguali, con le strade polverose e percorse da macchine in movimento, con i boschi posti al limitare e i suoi strani reietti, i poveri, al limite della comunità. David Lynch guarda la società americana come un insieme di dati statistici, di Assicurazioni, di Banche e di Industrie, come corpi di polizia all’inseguimento di una pace sociale, e di armi a disposizione per una falsa sicurezza. È l’America di oggi, l’immagine di falsi miti, di religioni inventate, di una falsa democrazia, previsione dell’era di Trump, con le sue espressioni violente e il ritorno ai riti di un razzismo ancestrale.