TRYDNO BYT BOGOM (È DIFFICILE ESSERE UN DIO)
Fa il suo esordio su “Filmcritica” Antonio Capocasale con un articolo su uno dei film capitali del 2013 e non solo: il capolavoro postumo di Aleksej Jurevič German.
QUALCOSA SU È DIFFICILE ESSERE UN DIO
di Antonio Capocasale
“Tutti gli uomini tendono per natura alla conoscenza. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano infatti le sensazioni per se stesse, indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni, non solo quando miriamo a uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamo compiere alcuna azione. E il motivo sta nel fatto che questa sensazione, più di ogni altra, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una molteplicità di differenze.” (Aristotele, Metafisica.)
Per conoscere, vedere, dunque, e poi non necessariamente agire, non interferire: come farebbe un dio, posto a distanza siderale dalle cose, che si osservano meglio dall’alto cosicché con immediatezza se ne abbracciano complessità, differenze, legami, cambiamenti. Ma non esiste, per gli uomini, punto di vista che non debba anch’esso cambiare e adattarsi per cogliere cose che mutano e si muovono, e per vedere altre cose da quelle usate occorre cambiare (anche) punto di vista, adottarne un altro inesperito.
Al cinema, un punto di vista inesperito marca un passo in avanti nella sua storia, nelle sue forme, nel suo linguaggio, consiste in un cambio di sguardo. Tale è la sensazione di chi ha visto Hard to Be a God (Trudno byt’ Bogom), ultimo film di Aleksej Jurevič German, la cui lavorazione si è protratta per circa tredici anni e si è conclusa col missaggio effettuato dal figlio del regista Aleksej Aleksevič a causa della morte dell’autore.
Prima immagine del film è quella che si avrebbe adottando un punto di vista dall’alto (lì da dove, in teoria, si abbracciano immediatamente vastità, molteplicità, complessità del visibile), a picco sul fondo di un lago scuro in cui si riflettono costruzioni in legno. Uno spostamento della macchina da presa verso l’orizzonte scopre, immerse in un paesaggio innevato, le costruzioni di quello che appare come un villaggio medievale, un ponticello sospeso e qualche figura umana di passaggio. Subito una voce over arriva a dirci però che stiamo osservando qualcosa che è sì riconoscibile e simile ad altre che conosciamo, ma non è ciò che crediamo: “Questo pianeta non è la Terra”, è Arkanar, la cui storia è ferma a un medioevo in tutto simile a quello terrestre. Su Arkanar sono stati inviati scienziati terrestri affinché la società e la cultura locale progrediscano armonicamente. Perché questo avvenga, occorre trovare e proteggere gli intellettuali e i letterati messi al bando o a morte dalle autorità, ma senza interferire in maniera diretta e meno che mai violentemente.
Questo il plot alla base del film, derivante da un romanzo (1964) dei fratelli Arkadij e Boris Strugatskij (autori inoltre di Picnic sul ciglio della strada, da cui è tratto Stalker di Tarkovskij, nonché di Un miliardo di anni prima della fine del mondo, racconto che ha ispirato I giorni dell’eclisse di Sokurov), che scrivendo del medioevo oscurantista di Arkanar con le persecuzioni degli intellettuali considerati pericolosi per il potere, o sospettati di eterodossia, si riferiscono all’URSS di Stalin (e di Brežnev).
Romanzo che German, regista a propria volta ostracizzato, ostacolato, censurato dalla burocrazia del regime sovietico (5 lungometraggi realizzati in quaranta e più anni di carriera), non si limita a mettere in immagini (cosa peraltro già tentata da Peter Fleischmann col suo film del 1989): piuttosto che tradurre[1] un mondo letterario in un suo impossibile equivalente cinematografico, il regista ha creato a propria volta un cosmo che riesce a essere pienamente e unicamente cinema. Hard to Be a God è un oggetto nuovo di cui non è facile dire, e di fronte al quale lo sguardo usato si scopre come superato, insufficiente.
Non si tratta tanto dell’infrazione alla linearità di una trama o del suo apparire criptica, cui si è abituati da tanto cinema moderno e postmoderno, ma di qualcosa di più radicale, quale l’immersione in un mondo di eventi puri e molteplici, per cui è difficile rintracciare o stabilire un Logos, narrazione, ordine… Dio?
“Hard to”: a Rumata (Leonid Yarlmonik), scienziato terrestre inviato sul pianeta per trarre in salvo gli intellettuali perseguitati senza però interferire direttamente (men che mai con la forza bruta), è difficile (non) partecipare (violentemente) di un mondo violento, e se in teoria la sua attività consiste nello studiare, in pratica essa si costituisce come (si confonde con) quella di un dio che osserva o interviene a modificare le sorti di un cosmo.
Un cosmo violento, impantanato in un medioevo limaccioso e caotico che sconosce l’ordine e il progresso di quel Rinascimento che scienziati locali o terrestri in missione aspettano, mentre costruiscono goffamente macchine del volo e fanno fugacemente il nome di Leonardo, non più di un flatus vocis fra tanti altri brandelli di discorsi intercettati come per caso.
Nel bianco e nero del cupo evo medio di Arkanar (così tanto simile alla Terra!), dove il cambiamento della rinascenza non pare poter arrivare, la mente storica dello spettatore, che ha contezza di progresso e di passato, è tentata (lo fa inevitabilmente) di riproiettare quello del Rublëv tarkovskijano.
Ma se la palingenesi rinascimentale era stata un cambiamento di sguardo sul mondo, sullo spazio e sul tempo (la stessa prospettiva è, fra l’altro, messa in opera visiva del padroneggiamento dell’idea di distanza, spaziale come temporale), tale che fosse possibile indagare e dominare il reale (come scienziati, appunto, alla giusta distanza[2]) e scientificamente rappresentarlo organizzando la visione intorno a un centro (prospettico), nel film di German, che è di suo un cambio di sguardo, palingenesi nella storia del cinema, è difficile (“hard to”) orientarsi per l’occhio di chi guarda[3].
Lo sguardo, scrivevo più sopra, si scopre superato e insufficiente, di fronte alla complessità e alla densità disorientanti di un mondo dove le visioni di cose, azioni, si affastellano e scivolano sulla putredine di umori disfatti in cui ogni personaggio del film si insudicia a più riprese, e dove, nella continua mobilità di piani sequenza che non cessano di scoprire sempre nuovi spazi e situazioni, osserviamo una sconcertante “molteplicità di differenze” che è difficile ordinare.
Non pare infatti esservi un centro consueto o immediatamente individuabile nelle inquadrature di German, non un ambiente o una situazione che possiamo appaiare a un’altra vedendo immediatamente e facilmente un legame. La macchina da presa è rara a posarsi senza che il campo sia affollato, ed esso appare a propria volta insufficiente se sui suoi bordi, da ogni dove, insistono brandelli di cose e persone che si frappongono tra noi e ciò che vorremmo vedere al centro dello schermo e che resta frequentemente impallato.
Spesso la mdp è così vicina alle cose da non consentirne la visione che per un dettaglio magnificato: le bardature del cavallo di Rumata in marcia, le punte delle lance; o altri particolari più apertamente disturbanti: il membro di un asino, le terga percosse di un uomo torturato.
Se le cose si accalcano vien da pensare che in campo e fuori campo lo spazio non basti[4], che ci sia ancora da vedere qualcosa (non essendo onniscenti dei), scarto e riserva, nonostante l’accumulo di immagini consunzione pop e “post-” che pretendevano di saturare il visibile intero. Nei vari campi e piani (camera di Vladimir Ilyin e Uriy Kilmenko) pare che umanoidi spesso deformi o in sovrappeso debbano per forza scivolare, inciampare, schiacciarsi a vicenda contagiandosi la sporcizia in cui sguazzano. Le cose appaiono troppo vicine, si ha la sensazione che lo sguardo non sia alla distanza ottimale (ma quale sarà, poi?) per osservare senza esser necessariamente chiamati a intervenire, come farebbero un dio o uno scienziato che tutto scruti, tutto comprenda conferendo senso alle cose ordinandole in una legge. Ma non si può fare reductio ad unum di ciò che si vede come continuamente molteplice. Difficile essere un dio che guarda e resta immobile comunque, ancor più se gli abitanti di Arkanar, freaks dai volti deformi, storpi, gobbi col loro campionario di azioni strane o inquietanti, col loro ingerire e passarsi addosso liquami e sudiciume, guardano nell’occhio vitreo della mdp e perciò in quello dello spettatore che è difficile essere.
Eppure, in questo caotico scenario di aberrazioni e torture, trova posto un paradossale senso di affezione. Perché questo, nonostante la testa storica spettatoriale vi veda gli incubi di un Bosch e di un Bruegel (citato invece da Tarkovskij sempre in Andrej Rublëv[5] e in maniera più diretta e scoperta in Solaris), è un film in cui si parla anche, in maniera strana, di una qualche forma di “amore”, fosse anche inteso solo come “cura”. Parola di Svetlana Karmalita, moglie del regista e sceneggiatrice.
D’altronde, questo fanno spesso gli dei che è difficile essere: portano giustizia in maniera brutale, crudele, e al tempo stesso hanno a cuore le loro creature: così Rumata alterna all’uso della forza, reiterati inviti ai suoi sudditi all’igiene personale; e in una scena, per accarezzare quello che doveva essere un affresco, forse di un’immagine sacra, usa una frusta.
Inoltre, Rumata è creduto dagli abitanti di Arkanar figlio del dio pagano Goran. C’è persino una donna, Kyra, che lo desidera e che vorrebbe portare in grembo il figlio di un dio…
Se nel romanzo degli Strugatskij, in un dialogo a proposito di poeti censurati Rumata recita Essere o non essere e dice di esserne l’autore, così in una scena del film dice “S’è spento il brusio. Sono entrato in scena”, che è una delle poesie scritte da Jurij Živago nel romanzo di Borìs Pasternàk, poeta e romanziere che conobbe realmente l’essere osteggiato dai potenti di turno. Non a caso, nella poesia di Pasternàk a parlare è di nuovo Amleto, come Rumata nobile coscienza di un regno dove gronda marciume, e che frequentemente è stato assimilato dalla cultura russa a una figura cristica consapevole e al tempo stesso atterrita dal proprio destino: portare, come una croce, il peso di una corte corrotta. Del Cristo, l’Amleto di Živago-Pasternàk usa alcune parole, quelle che secondo i vangeli canonici rivolge a Dio padre nel Getsemani (“Se solo è possibile, abbà padre, allontana questo calice da me”), all’apice dell’angoscia. Ma quelle della poesia sono anche le parole di un attore (“Sono entrato in scena”) che recita la parte del principe di Danimarca (il quale, per altro, in Shakespeare inscenava una pantomima per smascherare lo zio colpevole dell’assassinio del padre, e in generale recita la sua parte di pazzo) vivendo il proprio recitare come una chiamata a un martirio ineluttabile (“L’ordine degli atti è già fissato”). Quella di Cristo, come quella di un qualsiasi attore, e di Rumata, del resto, sono incarnazioni, prestarsi anima e corpo a un ruolo difficile da sostenere. Hard to.
Anche perché Arkanar, dove si sguazza (letteralmente) in un medioevo -con le parole di Amleto- “tempo fuor di sesto” non diversamente dal nostro definito solo a mezzo dei vari “post-” e “neo-”, è un inferno boschano, e la missione di Rumata, che non può essere un dio, termina con un massacro da lui stesso compiuto e che proprio a Dio chiede invano di impedire.
Rumata è parte dal caos che dovrebbe domare e che invece produce. Nulla, salvo la voce over iniziale, ci fa pensare che sia uno scienziato, vedendolo sempre perfettamente calato nei suoi panni di cavaliere, e infine dichiara di non voler far ritorno al pianeta Terra. Si dubita del suo ruolo, quasi, come si dubita di un dio le cui azioni non ci si riesce a immaginare. Un dio che secondo il letterato Budakh, interrogato da Rumata, può solo, come ultimo intervento, lasciar morire tutti…
Persino la musica, che a inizio e fine del film il protagonista esegue su un fiato per i suoi servi, “fa venire il mal di pancia”, secondo l’affermazione di una bambina nell’ultima scena passa su una distesa innevata, contrappunto di quella dell’inquadratura iniziale.
Se le visioni non hanno come organizzarsi in questo inferno tanto, troppo simile alla Terra, sia l’URSS di Stalin, Brežnev, o la Russia di oggi, o un qualsiasi luogo in cui (a) un dio sia difficile essere, a poco serve cercare di rendersene ragione, come conta poco, seppure sia un dato interessante, che quel diadema che nel film Rumata porta in fronte, nel romanzo degli Strugatskij si riveli essere una telecamera usata per inviare informazioni alla Terra.
Forse, a noi, nel difficile essere spettatori -come a Rumata non è mai stato possibile essere spettatore di Arkanar, ma inevitabilmente attore che incarna, anima e corpo, per difficile che sia, un dio-, a noi della Terra giungono le immagini di questo film che come i suoi freaks ci guarda, ci cerca per gli occhi il dio che è difficile essere/ci.
[1] Cosa che di per sé comporta un tradimento, se l’etimo illumina sul significato più profondo dell’operazione di traduzione.
[2] “O Adamo, non ti diedi né una sede determinata, né un aspetto tuo particolare, né alcuna prerogativa a te solo peculiare, perché quella sede, quell’aspetto, quella prerogativa che tu desidererai, tu te le conquisti e le mantenga secondo la tua volontà e il tuo giudizio. La natura degli altri esseri, stabilita una volta per sempre, è costretta entro leggi da me fissate in precedenza. Ma tu, da nessun angusto limite costretto, determinerai da te la tua natura secondo il tuo proprio arbitrio, nel cui potere ti ho posto. Ti ho messo al centro del mondo perché di lì più agevolmente tu possa vedere, guardandoti intorno, tutto quello che nel mondo esiste. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché tu, in guisa di buon pittore o provetto scultore, plasmi da te solo la tua immagine secondo la forma che preferisci. Tu potrai degenerare abbassandoti sino agli esseri inferiori che sono i bruti, oppure, seguendo l’impulso del tuo animo, rigenerarti elevandoti agli spiriti maggiori che sono divini.” (Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate.)
[3] Il testo di Umberto Eco sul film apre così: “È probabilmente difficile essere un Dio ma è altrettanto difficile essere uno spettatore, di fronte a questo terrorizzante film di German.”
[4] Forse è proprio nell’affollarsi di corpi che si intralciano a vicenda, impedimento gli uni verso gli altri, e nella folgorante originalità linguistica e formale, che pare di scoprire la similitudine del film di German con Faust di Sokurov, più che nel senso di disgusto e disperazione per un’umanità perversa, diversissimi tra loro.
[5] Mi riferisco alla stupenda scena della Via Crucis in ambiente e costumi russi che riecheggia il quadro I cacciatori nella neve.