TRANSFORMERS: AGE OF EXTINCTION di Michael Bay
Il cinema come sinderesi
di Michele Moccia
«Percepire un complesso vuol dire percepire che le sue parti costitutive stanno in questa certa relazione l’una con l’altra. Questo spiega anche la possibilità di vedere in due modi come cubo la figura e tutti i fenomeni simili. Poiché in effetti noi vediamo appunto due fatti differenti. (Se io guardo prima gli angoli a, e solo di sfuggita gli angoli b, appare a davanti; e viceversa.)» (Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus)
Transformers: Age of Extinction, quarto episodio della saga diretta da Michael Bay, è uno straordinario film sullo spazio (tridimensionale, aggettivo qui usato non per obbligo al 3D) e sulla sua illusoria e infinità prospettica e proiettiva, reale e magica, ad un tempo, quantica e cinematografica: Albert Einstein e Steven Spielberg (e non solo) assieme.
Lo spazio tutto ha una dimensione materica che rende possibili infiniti mondi in continua trasformazione. La materia si rigenera continuamente, piegando lo spazio prospetticamente e piegandosi in esso: enormi cubi, piramidi e parallelepipedi che svettano verso il cielo (Transformers, Revenge of Fallen, Dark Side of Moon); ciò permette la percezione delle relazioni tra le parti e la «possibilità di vedere», di cui scrive Wittgenstein, in modo diverso e prospettico. Assunto che è alla base del cubismo stesso. E Transformers è anche un film pensato e realizzato con spirito neo-cubista, che nasce da un immaginario geometrico.
E non va dimenticato qui l’uso della prospettiva da parte dell’artista, di cui invece scriveva Paul K. Feyerabend in Contro il metodo, per «suscitare l’illusione di una disposizione di oggetti tridimensionale». Il tutto all’interno del rettangolo dell’inquadratura, se la persistenza ‘rettangolare’ dell’inquadratura è ancora possibile. Ciò riesce a Michael Bay e allo stesso Spielberg (come produttore esecutivo) in modo meravigliosamente intuitivo, senza alcuna deriva intellettuale.
E prima che l’occhio (e i sensi) sia scaraventato nel vuoto più vuoto del vuoto, in bilico, vertiginosamente, perché Bay non nega al suo mondo materico nessuna forza di gravità, sulle traballanti catene di ancore tese da una nave spaziale sospesa nel cielo ai grattacieli della città di Chicago, lo spazio è, sì, delimitato e ricolmo di oggetti di ogni tipo. Uno spazio-cinema pronto a esplodere e a frastagliare tutto ciò che contiene dappertutto.
L’occhio oscilla tra un cinema dismesso e il capannone di Cade Yeager (Mark Wahlberg), ingegnere e inventore, un vecchio proiettore e un camion da rottamare, e da questa delimitazione precaria dello spazio Michael Bay dissemina la ‘scintilla’ del suo sguardo. E come già accadeva in The Island, nel temenos, il luogo dal quale Optimus Prime risveglia gli antichi barbari guerrieri, ma anche il ‘taglio’ dell’inquadratura e nelle inquadrature, si insinua il bagliore del cinema, logica, poesia e scienza alla quale tutto è possibile: il poster di El Dorado di Howard Hawks (quanti registi americani possono o sanno, oggi, davvero ricordarsi di Howard Hawks?) e il poster di Albert Einstein. Lanterna magica e fisica quantica.
Il cinema, dunque, come sinderesi. Era/(è) già tutto codificato nella matrice, il viaggio nel deserto, friabile arenosità dell’immaginario, verso Petra, era un riportare in vita le immagini, renderle ancora visibili. Non resta che continuare a ‘fissare lo sguardo’ alla ‘scintilla’ che brilla nel mezzo macchino del cinema, come lo scintillio nel petto di Optimus Prime, per vedere, come gli dice Cade Yeager, quella che noi, per noi, chiamiamo anima.