Tout va bien. “Otto ore non sono un giorno”.
di Daniela Turco
Presentata lo scorso febbraio da Fuori Orario in prima tv su Rai3, “Otto ore non sono un giorno” la serie televisiva in cinque episodi di Rainer Werner Fassbinder, prodotta dalla Westdeutscher Rundfunk e trasmessa sul primo canale della televisione tedesca tra il 1972 e il 1973, dopo il restauro realizzato nel 2017 dalla Rainer Werner Fassbinder Foundation in collaborazione con il Museum of Modern Art di New York, è attualmente disponibile su RaiPlay. Nonostante uno scarto di cinquant’anni dalla sua realizzazione “Otto ore non sono un giorno” arriva nel nostro presente come un dono inattuale, eppure del tutto urgente e necessario ora, un incontro insperato con il ritorno del rimosso – la lotta di classe – e con la malinconia sottile trasmessa dal gruppo di attrici e di attori poi disperso che vi recita, tra cui Hanna Schygulla, Kurt Raab, Peer Raben, Harry Baer, Irm Hermann, ecc., che con altre e altri faceva parte di quell’insieme più vasto di compagni e amici dell’Antiteater fondato dal giovane Fassbinder nel 1968, che insieme avevano osato dar vita, dentro e fuori dai suoi film, a una vera e propria comune, una factory sfrontata e anarchica, risplendente di giovinezza e glamour, schierata utopicamente contro il diritto del più forte, salvo poi doversi scontrare con la realtà… Vedere cinquant’anni dopo “Otto ore non sono un giorno” è un po’ come esaminare un reperto proveniente da un’epoca largamente dimenticata – parte dell’intensità del piacere-dispiacere che accompagna la visione della serie è dato proprio dalla misura dell’abisso che ci separa dagli anni ’70 -, tuttavia, episodio dopo episodio (ognuno dei quali per durata e per complessità linguistica e narrativa è un vero e proprio film a sé stante) a prevalere è un senso di scoperta e di restituzione, man mano che prende corpo l’idea profonda che muove la serie: il coraggio e la forza di mostrare molto semplicemente dei processi di trasformazione attraverso la lotta, che non si fermano soltanto all’ambito del lavoro, ma investono lo spazio della vita in tutta la sua estensione. Nei titoli di testa, introdotta dal tema musicale, andante con brio, di Jens Vilhelm Pedersen “Otto ore non sono un giorno”, viene presentata come una “serie familiare”, anche se non potrebbe essere più lontana per struttura e linguaggio sia dalle “serie”, che, salvo rarissime eccezioni, si è per esempio abituati a vedere oggi, sia dal “familiare”, essendo già allora interamente consegnata al suo preciso rovescio, il perturbante; del resto fin dall’inizio è stato proprio il non familiare, l’Unheimlich, a imporsi tra le linee-guida più insorgenti nelle opere e nello sguardo del regista sul mondo. Nata grazie a un approccio insolito del mezzo televisivo da parte di Fassbinder, preso dal segno-sogno hollywoodiano di raggiungere un pubblico sempre più vasto, al centro di “Otto ore non sono un giorno” scorrono le vicende della famiglia Kruger, una famiglia operaia di Colonia, e, in particolare, del figlio Jochen, che lavora come metalmeccanico in una fabbrica. Era la prima serie in Germania a mettere al centro degli operai, e per realizzarla Fassbinder si era impegnato in un lungo lavoro di ricerca nelle fabbriche durato quasi un anno, confrontandosi direttamente con i lavoratori. Girata tra l’aprile e l’agosto del 1972 in una fabbrica presso Mönchen-Gladbach e a Colonia, nella serie compaiono molti degli attori e dei collaboratori abituali del regista tra cui Hanna Schygulla, Gottfried John, Luise Ulrich, Werner Finck, Anita Bücher, Wolfried Lier, Christine Oesterlein, Renate Roland, Kurt Raab, Irm Hermann, Margit Carstensen, Ulli Lommel, Eva Mattes, Lilo Pempeit, ecc., ma, nonostante fossero inizialmente previsti otto episodi e la serie stesse ottenendo un notevole successo di pubblico, dopo il quinto episodio era stata bruscamente interrotta. Un’interruzione che in realtà non sorprende, perché era piuttosto chiaro che Fassbinder, attraverso la serie, stava mettendo pericolosamente a fuoco e sotto attacco certi aspetti e comportamenti della classe dominante, mentre, contemporaneamente, cercava di proporre qualcosa di nuovo, come lui stesso aveva dichiarato in un’intervista, e cioè il tentativo di incidere su un piano politico, ma da un punto di vista molto umano, cosa che aveva spaventato Gunther Rohrbach, direttore della programmazione della Westdeutscher Rundfunk, spingendolo a non farla più proseguire. La serie, tra l’altro, aveva ricevuto degli attacchi molto duri anche da parte di alcuni critici di sinistra, che, incapaci di comprenderne l’innovazione e la reale apertura, avevano rimproverato a Fassbinder di non essere sufficientemente schierato politicamente e di mancare di realismo nel descrivere la classe operaia.
E’ significativo che il titolo di ogni episodio di “Otto ore non sono un giorno”, una vera e propria “occupazione” personale e politica del modello di serie familiare, sia sempre dato da una coppia di nomi: 1) Jochen e Marion, 2) Oma e Gregor, 3) Franz e Ernst, 4) Harald e Monika, 5) Irmgard e Rolf, che indicano immediatamente il modulo che sostiene la serie, l’unità minima del rapporto tra persone, la relazione di coppia – felice o occasionalmente anche infelice come lo è quella di Harald e Monika -, ma intesa come formula radicalmente anti-istituzionale contro la solitudine e l’individualismo, impegnata in ciascun episodio in un processo di trasformazione dell’esistente attraverso una lotta comune.
Fassbinder aveva definito così il suo metodo di approccio con la televisione, rispetto al cinema:
“ Nei miei film ho lavorato secondo un’estetica del pessimismo mentre in televisione secondo un’estetica della speranza: ed è questa la differenza fondamentale tra i due medium. La forma cambia quando si vuole raggiungere un maggior numero di persone. Si possono utilizzare più primi piani in televisione che nel cinema e lo zoom è molto frequente in televisione mentre può dar noia nel cinema dove si preferisce la carrellata. In televisione si lavora più direttamente con i sentimenti e i loro effetti, con la vera risata, mentre un film dipende soprattutto dall’atmosfera.”[1]
Jochen (Gottfried John) e Marion (Hanna Scygulla), sono le due star che orientano tutta la costellazione di “Otto ore non sono un giorno”; nel primo episodio si incontrano per caso davanti a un distributore automatico, lui è in cerca dello champagne per la festa di sua nonna (Oma, interpretata da Luise Ullrich) mentre lei non riesce a recuperare un barattolo di sottaceti dal distributore. Dall’incontro-scontro tra i due nasce un’intesa per cui Jochen invita la ragazza a casa sua dove le fa conoscere tutta la sua famiglia che sta festeggiando i sessant’anni di Oma, la nonna.
Sembra che per Rainer Werner Fassbinder – come in seguito avverrà anche più intensamente per Jean-Luc Godard in Passion – esista un legame misterioso tra amore e lavoro, sulle tracce di Simone Weil che nel primo volume dei suoi Quaderni, osservava che i gesti dell’amore e quelli del lavoro sono gli stessi, anche se non possiedono necessariamente la stessa intensità.
Tutta la serie “Otto ore non sono un giorno” insiste su questo continuo sconfinamento fra i gesti del lavoro e quelli dell’amore, accompagnati entrambi dalla danza e dal pensiero dei movimenti di macchina – anch’essi, comunque, dei gesti sospesi tra il lavoro e l’amore -, che attraverso i primi piani, i travelling e le plongée più stranianti, dall’interno della fabbrica dove lavora Jochen, scivolano sui macchinari, la zona delle docce, l’ufficio dove il capo della sala attrezzi Gross osserva, non visto, dietro le veneziane abbassate il lavoro degli operai, e passano come un vento leggero all’esterno, nella città di Colonia, nelle strade, nei parchi, dentro i bar e tra le persone, mettendo in circolo una tenerezza e una partecipazione legata ai corpi, che tocca per la sua densità erotica. Questo il fascino speciale del modo di filmare di Fassbinder, un’architettura potente e invisibile che muovendosi tra distanziamento brechtiano e irriducibile furore fisico, tra gelo e calore, trova uno stile e nuove forme per idee, sentimenti, sogni, pulsioni, utopie.
Curiosa coincidenza: anche Tout va bien (Crepa padrone, tutto va bene), girato da Jean-Luc Godard quello stesso anno, il 1972, dal 17 gennaio al 23 febbraio, procede sul doppio registro della lotta operaia dentro una fabbrica di salumi e sul difficile rapporto di una coppia interpretata da Jane Fonda e Yves Montand. Per Godard Tout va bien era un film d’amore, dove i protagonisti si amano e litigano, ma dove ciò che li separa e ciò che li riunisce era chiamato “lotta di classe”.
Analogamente anche in “Otto ore non sono un giorno” amore e lotta di classe, come per Godard, vanno insieme, in quanto elementi individuati come agenti di trasformazione con un enorme potere rivoluzionario che si esercita su persone, società, vita, come qualcosa che improvvisamente fa sentire di non essere soli: questo è lo spettro gentile, che si aggira per la serie, e che Fassbinder chiamava “solidarietà”. Qualcosa che si vede nella relazione nascente tra Jochen e Marion, e che
si rispecchia simmetricamente nell’altro e più sorprendente incontro amoroso tra Oma, la nonna di Jochen, e Gregor (Werner Finck), un mite vedovo, che legge L’amante di Lady Chatterly, in cui Oma si imbatte per caso in un parco. Gregor viene ben presto travolto dall’intelligenza e dalla forza vitale di Oma, ed è proprio la nonna, che oltre a introdurre nella serie elementi divertenti di puro nonsense Dada, che orientano il flusso narrativo, mostra di essere soprattutto qualcuno che “ … ha cercato di fare qualcosa della sua vecchiaia, invece che votare CDU e non occuparsi di altro che della morte… ”, come Fassbinder aveva osservato in alcune note sulla serie, all’interno di I film liberano la testa,[2] pensando alla storia, del tutto diversa, della sua nonna materna. Nell’inverno 1970/71, Fassbinder aveva potuto vedere diversi film di Douglas Sirk a Monaco, e la magnifica ossessione trasmessagli da Sirk si rende evidente nella serie con la disseminazione sistematica degli specchi, degli oggetti e dei fiori, con i tagli obliqui e anti-naturalistici della luce, con gli ambienti in cui si muovono i personaggi. Ma Fassbinder non si limita a lavorare sul decor, mette infatti contemporaneamente in gioco un “fattore Sirk” nel modo con cui vengono mostrati gli esseri umani e con cui vengono portati alla luce i sentimenti che legano o separano le persone. Sirk, secondo lo stesso Fassbinder, gli aveva dato il coraggio di realizzare dei film per il pubblico, e gli aveva fatto riconsiderare una drammaturgia hollywoodiana che fin lì gli era sempre sembrata stupida; inoltre, con i suoi film Sirk lo aveva messo sulle tracce della disperazione umana, nessun altro regista gli aveva fatto sentire come lui il senso della solitudine e quello della paura, che del resto, insieme al tradimento, resteranno sempre tra i temi più ricorrenti e messi a nudo in tutta la filmografia di Fassbinder. Per quanto riguarda il personaggio più che singolare di Oma, è significativo che Fassbinder nel suo saggio su Douglas Sirk in I film liberano la testa scrivesse che nei suoi film le donne pensano. “Questo non mi è mai apparso così chiaramente in nessun altro regista. In nessuno. Le donne di solito reagiscono, fanno quello che fanno sempre le donne, e qui, nei film di Douglas Sirk, pensano. E questo bisogna vederlo. E’ bello vedere una donna che pensa. E’ una cosa che dà speranza. Sinceramente.” Non è quindi un caso che siano spesso le donne nella serie, soprattutto Oma e Marion, a prendere coscienza di una certa situazione e a risolverla criticamente. E’ Marion che, nel primo episodio, incoraggia Jochen insieme al suo gruppo di amici e compagni di lavoro a non rassegnarsi e a scioperare, quando la squadra grazie alle innovazioni di Jochen termina in anticipo una commessa, ma si vede negare il premio di produzione promesso dal loro superiore Volkmar Gross, sfruttatore e infido. Quando però il gruppo comincia a sabotare deliberatamente le macchine, per rallentare i tempi di consegna, la direzione ci ripensa e restituisce loro il premio, a dimostrazione di quanto alla fine paghi una lotta portata avanti da tutti. Durante la vertenza, dei lenti, splendidi travelling straubiani accompagnano Jochen e il capo-squadra Kretzschmer, mentre camminano fuori dalla fabbrica, discutendo sulla strategia del gruppo, e con la misura della loro durata rendono improvvisamente visibile tutta la tensione in gioco e la stanchezza di Kretzschmer, che morirà poco dopo per infarto. All’interno di ognuno dei cinque episodi, esiste sempre un ostacolo e un obiettivo da raggiungere, attraverso un percorso di lotta; nel primo episodio si tratta del premio di produzione, nel secondo, dello spazio lasciato vuoto da una biblioteca, che grazie a un’idea di Oma, con l’aiuto del gruppo di operai amici di Jochen che ne dipingono le pareti, verrà trasformato in un asilo per accogliere i bambini del quartiere, oppure, su un fronte più personale, e quindi più che mai politico, come dichiarava il femminismo di quegli anni, la lotta di Monika (Renate Roland) per liberarsi dal matrimonio infelice con Harald (Kurt Raab) nel quarto episodio. Anche le donne di Fassbinder, quindi, come quelle di Sirk, amano e pensano: è di nuovo Marion nell’ultimo straordinario episodio a esporre agli altri la teoria marxiana del plusvalore, direttamente applicata al rapporto tra il gruppo di operai e la direzione della fabbrica, ma la bellezza più profonda di queste incursioni della teoria politica sta nel contesto in cui vengono inserite da Fassbinder, che le fa circolare all’interno del bar, tra i bicchieri di birra e le note di Candy says dei Velvet Underground, uno dei tanti frammenti di una splendida, e straziante, disseminazione di pezzi che formano il tessuto sonoro della serie, tra cui Suzanne di Leonard Cohen, Me and Bobby MacGee di Janice Joplin, Save The Last Dance for Me di The Drifters, My Sweet Lady Jane dei Rolling Stones, Smoke Gets In Your Eyes di Jerome Kern, ecc.
Cosa resta oggi di tutto questo? A quarant’anni esatti dalla morte, nel giugno 1982, di Rainer Werner Fassbinder, quale segno o eredità ha lasciato uno dei registi più intensamente produttivi e più coraggiosi di tutto il cinema del Novecento (a conferma di questo basterebbe da solo il segmento di Germania in autunno (1977) realizzato da lui, per misurarne il rigore e la forza morale)? Di recente, un’amica e una maestra, Ester Carla de Miro, che nei suoi corsi all’università di Genova si è molto occupata di Rainer Werner Fassbinder, lo ha definito in un articolo sul Manifesto un autore dimenticato. Già Douglas Sirk, dopo la sua morte prematura, ne aveva scritto come di qualcuno dotato di un talento creativo senza precedenti nella storia del cinema, che non aveva incontrato subito la risposta che meritava. Questa difficoltà di riconoscimento ancora oggi esiste, insieme a una colpevole mancanza di memoria e di studio, ed è la stessa che spesso accompagna ogni poeta maledetto, come lui è stato nell’arco breve e bruciante della sua esistenza.
Tutti i suoi film sono pericolose e controverse macchine desideranti, macchine che fanno paura, macchine per vedere, ed è per questo che i suoi sono sempre, tutti, film profondamente politici. Il suo ultimo appunto, scritto il 9 giugno 1982, poche ore prima di morire, riguardava il progetto di un film su Rosa Luxemburg, una figura solitaria, fragile, insofferente dell’ingiustizia, una sensibilità che sentiva prossima, come gli era prossima l’incredibile forza rivoluzionaria di Rosa.
[1] cfr G. Ghigi (a cura di) Rainer Werner Fassbinder, Venezia, Circuito cinema n°2, 1982
[2] Rainer Werner Fassbinder, I film liberano la testa, (a cura di Giovanni Spagnoletti), Ubulibri, Milano 1992