THE WOMAN WHO LEFT di Lav Diaz
Una fuga nel tempo della Storia e della favola, una lettura fortemente intrisa di quella forma poetica dello sguardo propria di Lav Diaz, nei toni esasperati di un guardare continuo, allucinante e preciso, in cui il reale si fa reale due volte, rosselianamente più vero del vero, in un archetipo stilistico che fa emergere la rêverie.
Grande melodramma, sotteso in tanti rivoli di pensiero, affabulato come in una favola, attorno a questo personaggio di donna che esce dal carcere, dopo una condanna innocente a trent’anni, vero filo rosso di una tragedia dell’inesprimibile, in una luce pascaliana che tenta di rendere logico il referente biblico all’Antico Testamento, attraverso i Pensées. “Tu credi in Dio?” la domanda posta dal venditore ambulante alla protagonista, è chiara, ma è una domanda che rimane senza risposta, il silenzio avvolge il racconto che si sovrappone, favola nella favola, e che si svolge lungo tutto il percorso del film – il racconto di una “stanza senza specchi, con sole tre finestre” che dura sino al riposizionamento finale, in un tempo presente, di una violenza in atto, da parte della polizia filippina, che sgombera il villaggio.
Poetica di realismo di un testimone militante, che ha la forza di fare cantare, come in una cantata brechtiana, le donne protagoniste umiliate ed esaltate, con le note di West Side Story, epica di un risorgimento, in una luce nero su bianco e bianco su nero, che è la luce del film.
La luce, che nel linguaggio di Lav Diaz è un aspetto fondamentale della sua poetica, la decostruzione semiotica, che spezza il montaggio in una serie di quadri, dando ad ognuno una possibilità stilistica, legata alla parola o al silenzio. Quelle strade notturne, quei lunghi trascinamenti popolari, quei balli, o meglio, quei ritmi di un ballo quasi inesistente della donna notturna, vista in una dimensione biblica.
Forse anche Freud, perché Freud permette di comprenderne la ripetizione e perché può rappresentare quel che possiamo chiamare la ‘tecnica dell’inconscio’: da qui, la lunghezza dei piani espressivi, dei piani-sequenza, che si accumulano, in una sorta di sogno, in un tentativo riuscito di fondere prosa e poesia.
Edoardo Bruno