THE OTHER SIDE OF THE WIND di Orson Welles
All those girls and boys
di Giovanni Festa
L’arte di narrare ha inizio quando un giovane cacciatore dei primordi raggiunse correndo la valle della sua tribù raccontando come una tigre, nemico che vive nella spessura, lo avesse a lungo inseguito per divorarlo: agli accorsi descrive il terrore iniziale, la fuga e l’astuzia adoperata per seminare l’animale con mille dettagli. Solo che la tigre, l’ombra che camminava dietro di lui, non è mai esistita: il ragazzo se la era inventata.
L’ombra proiettata del predatore che incalza diventa “shadow of doubt”, apparizione di un verosimile truccato: l’alba della narrazione è propria di colui che guarda ciò che non esiste e decide di raccontarlo. Ma non è quello che ci insegna Orson Welles in It’s all True? L’artista come grande ciarlatano che rende il falso reale e, nello stesso tempo, l’arte è una menzogna che permette di scorgere la verità, in un continuo reframing, rimappatura dove la verità possiede la struttura di una finzione e la finzione prende il posto di una realtà che nessuno riconosce come tale.
Il cinema (e tutto il raccontare per-attraverso le immagini) è, quindi, illegittimo (è una impostura) e circondato da un margine, da un bordo di assenza, che permette l’irruzione delle ombre (ogni fotogramma, ogni sfolgorìo fosforescente nella sala-caverna sarebbe isolato blanchotianamente nello stato puro che si apre al suo pezzo di nulla).
Impostura (e magia): Welles che dipinge, su una silhouette disegnata frettolosamente con una capricciosa linea di contorno, un naso posticcio (lui che al cinema non aveva mai usato il suo naso vero: naso che, una volta staccato, è corpo estraneo e cosa biancastra preda del gattino che gioca ai suoi piedi e che, pensiamo, Orson avrebbe benissimo potuto trovare nel pane caldo tagliato a metà dal barbiere Ivan Yakovlevich nel racconto dell’assurdo di Gogol); o che trasforma, nell’incipit folgorante di F for Fake, una moneta in una chiave, la chiave in una pioggia di monete sonanti e le monete in un coniglio, davanti agli occhi di un bambino stupito.
Vuoto o spazio interstiziale: come quello che si agita, pieno di rumore e furore, nello spazio fra una inquadratura e l’altra, missing scene grande come il deserto de I Tartari (R. Thorpe, 1961), uno dei mille e uno film a cui Welles dovette partecipare come attore per produrre i suoi (in questo caso The Deep, a cui mancherebbe solo l’inquadratura finale e di cui si hanno due copie di lavoro, una a colori, l’altra in bianco e nero).
Ezra Pound, in un capoverso del suo La psicologia e i Trovatori, straordinariamente fertile per le cose di cinema, parla prima della “precisione superscientifica dell’artista” e, quindi, delle due parti nelle quali l’artista stesso è scisso: la prima, “il maggior sé stesso”, si riferisce all’artista produttore e inventore di forme (in Welles: gli sterminati campi lunghi, i sotto in su che determinano le prospettive bazinianamente infernali, l’utilizzo “expanded” del suono, il grandangolo e le lenti anamorfiche, etc.); la seconda, è la “viva impronta dell’uomo esteriore”, traccia accidentale che si depositerebbe nella “pellicola della sua arte” e che si trova fatalmente nelle sottili “giunture o venature” (e viene in mente Welles mentre osserva, come Ejzenstejn nelle Histoire(s) di Godard, come Yelisaveta Svilova ne L’uomo con la Macchina da presa di Vertov, in tralice, la pellicola al tavolo di montaggio), ovvero quello spazio che, deleuzianamente, si trova tra una immagine e l’altra.
Il Welles post-Amberson (e post It’s all True, altra opera sanguinosamente incompiuta) in uno sconfinato ed eterno detour lungo decenni, non lavora più dentro un campo lungo che è lo spazio dell’uomo contemplativo che osserva una parte selezionata di mondo e la sua durée infinita, ma è il campione dello spazio interstiziale-residuale, che si installa e abita quello spazio fugace o fata morgana che si apre e si produce tra un piano e l’altro, attraversandolo senza posa, dentro quel canyon (chi meglio di Schrader ha inteso, dell’ultimo Welles, proprio l’eco di questo disperato vuoto risonante) che diventa simile allo specchio di Alice curvato fino a diventare oblungo ritratto ovale e bellezza bloccata fra uno e due, fra il pugno e chi lo riceve in Otello, in un transito infinito.
Va e vieni che implica anche un’altra distinzione, quella che Serge Daney fa tra una immagine che tergiversa e che sarebbe caratteristica della vita com’è e del suo farsi completamente accidentale (in Welles il “It´s all true” della pelle sudata e golosamente appiccicosa dei danzanti del Carnevale di Rio o quella lustra come immagine votiva dei corpi sommersi dei jangadeiros, ma anche degli appunti sulla corrida di Orson Welles sketch book e il film in due parti sui paesi baschi della serie Around the world with Orson Welles, entrambi per la TV) e una immagine che declama tipica della vita riprodotta e della sua iper simulazione orchestrata con l’ausilio di vere e proprie potenze del falso (vengono alla mente gli appunti di Cocteau sul Macbeth, film dove i protagonisti sono travestiti con corna e corone posticce di cartone e pelli di animale, e, “come i primi automobilisti, si muovono lungo i corridoi di una metropolitana da sogno”).
Automobilisti come Jake (J.J.) Hannaford (interpretato nel film da John Huston) che entra in scena correndo a tutto gas su una costosissima decapottabile (pur non sapendo guidare) mentre beve whisky e risponde alle domande dei “giovani turchi” che lo stanno intervistando (“secondo lei la camera eye è il riflesso della realtà o viceversa, gli chiedono teneramente inconsapevoli che l’occhio che scruta è sempre, programmaticamente, wide shut e che ogni occhio aperto aspetta sempre il bisturi che buñuelmente lo tagli in due). John Huston, proprio lui (che di Welles fu amicissimo e che in quegli stessi anni impersonerà un altro personaggio crepuscolare ammalato di morte, il Noah Cross di Chinatown), è al volante di quella stessa auto che all’inizio del film vediamo ridotta a un ammasso di lamiere contorte, sinistro monolite dell’epoca dei consumi e freeze frame che marca, in un bianco e nero che richiama le News of the world degli anni ‘40, l’ennesimo inizio dalla fine wellesiano (la bara di Otello; l’aereo senza conducente di Arkadin; il letto di morte di Kane). The Other Side of the wind inizia così, come un viaggio al termine della notte iniziato nel 1970 e che durerà quasi sei anni.
Il film è, in realtà , doppio, e ognuna delle due “parti”, quella del “Birthday Party” e quella del “Film in lavorazione” si combina e si allaccia con l’altra (emblematica è la scena, ma non è l’unica in questo senso, della sala di proiezione, dove uno dei “complici” di Hannaford mostra a un produttore recalcitrante la deriva infinita del girato, maledettamente “senza sceneggiatura”, senza testo a monte): diventa programmatico, qui, come Welles, il demiurgo per eccellenza, creatore di una imago mundi frankensteinianamente rappezzata suo malgrado e drammaticamente incompleta, intenda il lavoro di cineasta (e teorico), operando continui innesti, trascinando il montaggio e il suo essere “idea o tutto del film” a una specie di limite, in un esercizio di approfondimento, di ritorno ossessivo (100 ore di girato) che trasformano il cinema in una ricerca infinita, dove ogni sequenza, ogni immagine, è parte di un discorso che si interrompe solo per riconnetersi e ri-comporsi (e proprio in questa possibilità di riconnessione posteriore o, addirittura, postuma si cela il segreto di ogni operazione di montaggio “intellettuale” in senso euristico, da Ejzenstejn a Brakhage) o ripetersi per ricominciare all’infinito, fondo, questo, di tutti i “play it again” che si agitano con l’ostinazione ouroboros del materiale inconscio, dentro qualsiasi discorso old school de politique des auteurs.
La cornice del film è il fatto che si tratti di materiale filmato che un regista, amico – traditore di Hannaford (Bruce Otterlake – Peter Bogdanovich, che come capita un po’ a tutti in questo ennesimo gran teatro del mondo calderoniano, intepreta sé stesso) decide, ormai vecchio, di mostrare al pubblico, proprio per fare luce sulla relazione che lo ha legato al maestro più anziano, le riprese che costituiranno l’ennesimo e definitivo ritratto filmico a posteriori a partire da materiale frammentario, rubato, eteroclito, di Welles.
Il film del “Birthday Party” si compone come un mosaico che mostra la grande festa di compleanno, appunto, del cineasta J. J. Hannaford: H, come Huston e, sopratutto come Hemingway, la cui figura di “macho” (il suo gancio destro era sopravvalutato, dice J J. a proposito dello scrittore di To Have and Have Not) è la maschera dietro la quale Orson allontana il protagonista da sé stesso, e che dota del bagaglio di un passato, dove le tracce vengono di nuovo confuse: i suoi primi film sono muti, “pieni di azione e suspense”, come quelli dell’Hitchcock inglese; poi un film in Spagna, dove visse nove mesi con i gitani (un pò come fece Welles per Don Chisciotte) quindi un successo non approfondito che fa di H. un “maestro” con “apostoli” e il declino finale. Il giorno della festa sarà anche l’ultimo giorno della sua vita nella villa in Arizona che Antonioni (e non è casuale) aveva da poco fatto “esplodere” nel finale filmato da 17 cineprese di Zabriskie Point (1970). Come rivela Welles a un gruppo di uditori estasiati in Spagna: “Supponiamo che durante il corso del montaggio risulti che sia più interessante ascoltare gli attori parlare del film che girarlo. Questo sarebbe il film”. Il film della Festa è caratteristico dello stile del Welles tardo, fatto di storie che si incapsulano una dentro l’altra come in una parabola araba o siriaca (il giovane attore protagonista venne scoperto da J.J. durante una gita di pesca, lo “pescò” mentre si “divincolava in una rete”, secondo l’immagine gnostica della perla unica che giace in fondo al mare) un racconto di Isak Dinesen (che Welles “tradusse” per immagini almeno due volte, in Una storia immortale e in quello che sarebbe dovuto essere The Dreamers, basato su due racconti della scrittice danese), o i mosaici dell’epoca “video” analogico – televisiva (lo speciale della CBS; i tapes con le interviste dei giovani critici; e in generale, i filmati della festa, con la villa che diventa un Big Brother costellato da videocamere). È in azione, qui, il “quinto potere” dell’epoca dell’immagine pre-digitale, ancora basato sul flusso dell’esperienza e la energetica della presa “diretta” ma già corpo straordinariamente polimorfo, multiplo, a scarsa coesione e in continua espansione e frammentazione.
Il cinema, in questo sfolgorante quadro cubista dove la finzione è girata come fosse un documentario, accetta con rischio enorme il carattere accidentale della realtà, avvicinandosi ad essa attraverso l’empirismo tenero di un continuo conoscimento accidentale (la definizione del cineasta secondo Welles è di colui che domina gli accidenti). Il sole nero al centro di questa esplosione frammentata, di questo avvicinarsi a tentoni, è, naturalmente, Hannaford, uno dei personaggi più titanicamente wellesiani, saturo di morte fino al midollo, alcolista, vampiro che si nutre di sangue giovane (a un certo punto della festa si apparta con una bionda minorenne che assomiglia vagamente a Cybill Sheperd) e heautontimorumenos del suo cuore marcito. Come Arkadin, ha segreti da occultare; come Kane, ha conosciuto l’apogeo e la caduta; come Macbeth, ha sofferto le febbri stregate e i convitti di fantasmi; come Quinlan, è un grande fabbricatore di false piste; come Clay, crea storie immortali modellando i personaggi come piccoli golem di argilla; come Otello, uccide chi ama (o per lo meno, come vedremo, il suo simulacro).
Il “Film in lavorazione”, vero e proprio “the other side of the wind” di tutta la fimografia wellesiana (film nel film che Welles girò con uno stile che non gli apparteneva “è il film che non farei mai”, dice, è il film girato da un altro), è l’ultima opera di Hannaford, e obbedisce al dettato di una nouvelle vague onirica: un po’ come se La Cicatrice Interiore di Garrel (1972), fosse stato riscritto dall’Antonioni hollywoodiano e filmato da Dennis Hopper, che non a caso è uno dei personaggi della festa nel ruolo di sè stesso e drogatissimo dice “quando creiamo siamo come bambini giocando”; Hopper che in una villa non troppo diversa, a Taos nel vicino New Mexico, avrebbe cercato disperatamente di montare, nel 1971, un altro film eccessivo e strutturalmente interminabile, il suo secondo da regista, programmaticamente intitolato The Last Movie.
“Last movie” è anche, dannatamente, quello di Hannaford: si tratta di un film ancora non montato composto da shot isolati, pieni di caotica forza propulsiva e residuale che trasformano la sequenza in avvenimento, qualcosa che, zizekianamente, sembra emergere dal nulla, senza causa apparente, senza fondamento, effetto che sembra eccedere le sue stesse cause. Al centro di questa deriva sfolgorante ci sono due corpi e un set che passa da interni kitsch a esterni di città eclissati fino alla grande cornice finale, frammento neo-western crepuscolare che collassa fino a scomparire come isola divorata dal panta rei della corrente delle cose.
I corpi sono quelli della Attrice (Oja Kodar) e del giovane attore John Dale (Bob Random), lei con i tratti e il colore della pelle anch’essi posticci, di india meticcia, lui che consuma su sè stesso lo stereotipo fuori tempo massimo di rebel without a cause dai tratti vagamente morrisoniani.
I due corpi-astri collidono nella sequenza di sesso in auto (Welles tardò tre anni a girarla), una scena hardcore vista attraverso un caledoscopio o una mirrorball screziata, e dove si inserisce, come un cuneo “ottuso” che viene da chissà quale piega del materiale che riflette su se stesso, un elemento estraneo che appartiene all’altro “film”. Ecco apparire, luttuosamente in bianco e nero, il primo piano di Hannaford che osserva (grazie al dislocamento ubiquo operato dal montaggio e del suo doppio fondo perennemente kulesoviano: H. potrebbe stare osservando, infatti, qualsiasi altra cosa), con il larghissimo sigaro cubanofallico in bocca, come Picasso in It’s All True, come il pittore la modella che ha appena finito di creare (o di essere: “Io sono Marlene”, gridava flaubertianamente Sternberg), il corpo di bronzo ingioiellato e nudo di Oja Kodar mentre fa sesso con il giovane attore.
Oja è solarizzata come in un’altra Salomè (1972) beniana, volto che passa senza fine dall’immagine affezione che trasforma il reale in possibile ai tratti intagliati del dio sul totem amerindiano, corpo ricolmo di gioielli falsi come quelli di una prostituta e passante baudelariana (pensiamo alla eroticissima scena dei bagni “hippie”, dove tutti i corpi allacciati in copulazioni rapide la osservano da dietro una porta socchiusa o da una serratura, in una variante indoor dell’inizio di F for fake) corpo che si apre al mistero eterno del suo non-disvelamento. John Dale diventa, invece, fantoccio come quelli che Hannaford dispone sulla collina a lato della casa e che possiedono i tratti dell’attore (scomparso nel bel mezzo delle riprese). Manichini che (lo comprendiamo all’improvviso), non sono solo simulacri (magari nella sinistra variante operativa voodoo), ma bersagli (Target è il titolo del film più wellesiano di Arthur Penn) contro cui il cineasta spara, ribattuto, in un campo e controcampo che ricorda inevitabilmente quello de La Signora di Shangay, dai colpi di fucile di Oja. La breve sequenza, che sembra liquefarsi mentre si produce, preda di una perdita di nitore e di uno sfarfallìo essenziale, termina con immagini sfocate e luminose, quelle di un fantoccio con il ventre aperto che svela hoffmanianamente il suo ventre riempito di paglia, aperto-chiuso per sempre nel suo shining di oggetto perduto, di firework lanciato nel deserto e di agalma che eccita il desiderio.
Il set è formato dai luoghi marginali, emarginati e dismessi che la logica capitalista degli Studios ha abbandonato dietro di sè (come se dietro Hollywood si producesse giorno dopo giorno lo strascico di una lunga e sfilacciata e residuale ghost town fatta di scarti, gluts – souvenirs senza nostalgia rauschenberghiani per scenografie di happening metropolitani, resti, rifiuti – ma questo lo mostrerà, un decennio dopo, Coppola, con il deserto postmoderno dello sfasciacarrozze Hank di Un sogno lungo un giorno): simulacri di città svuotate e grande deserto onirico dove si consuma l’eterno inseguimento degli amanti perduti.
Sembra che Welles sia costretto sempre a ritagliarsi uno spazio marginale, di vedere sempre lo striato (i millepiani della finzione ricostruita) diventare spazio vertiginosamente liscio (la waste land propizia all’erranza), in una trama che incrocia deleuzianamente il “deserto organizzato” (esempio massimo: la Monument Valley fordiana), con il “deserto che cresce” (come succede in Welles, ma anche in Teorema di Pasolini del 1968, e – come dimenticarlo parlando di un film che contiene già tutta la sua ultima maniera – lo scenario purgatoriale dell’ultima parte di Tree of life di Terrence Malick).
Truffaut non aveva forse opposto ai cineasti “sedentari” quelli “nomadi”? Welles è il cineasta nomade per eccellenza, è l’eterno viaggiatore polytropos, uomo dei molti viaggi, sempre forestiero, per sempre fuori luogo, che a partire da questo isolamento (Welles europeo per gli americani e americano per gli europei, che, come diceva sempre, iniziò la sua carriera e Dublino, non negli USA), si costituisce come soggetto e il cui sorriso sornione (da Gatto del Cheshire) è la barriera che oppone davanti allo sconosciuto.
In un continuo travaso vediamo come sia la stessa visione del film di Hannaford a spostarsi (e a farsi così nomade ed errante) in un drive-in, luogo che trasforma la fruizione in accampamento (in un certo senso il drive-in è il luogo dove terminano tutti i possibili Week-end cortazariani-godardiani delle mille auto ingolfate nel traffico pre-villeggiatura), falò stanziale che il transito delle immagini splendenti trasforma in un simulacro di viaggio da fermi, on the road degli occhi e dei corpi giovani che approfittano della poca luce e dell’erotismo dell’abitacolo per fare sesso, all those boys and girls, distrutti dalla pazzia, affamati nudi e isterici, shut e “ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte”, come urlava Allen Ginsberg quindici anni prima, filmati a morte, filmati-shot fino ad essere uccisi.
L’ultima immagine del film è uno schermo bianco: il rettangolo di luce che si era riempito della narrazione falsa e verissima del movie, si richiude nel suo mistero sacro di madeleine op-art che ribatte, invece della luce siderale del proiettore e le sue mille e una storie, la luce pulviscolare del deserto satura di sabbia incandescente, white light/white heat torrida che fa venire le lacrime agli occhi, brucia la pelle, ed è propizia ai miraggi. Come quello dell’inizio: la visione, nella sabbia, dell’impronta di una tigre. Ma la tigre era solo il sogno di qualcuno, o siamo noi, come direbbe Borges, ad essere il suo.