THE MULE – IL CORRIERE di Clint Eastwood
La vecchiaia dell’eroe
di Alessandro Cappabianca
In vecchiaia, l’eroe vorrebbe dedicarsi alla sua passione e ritirarsi a coltivare fiori, ma non gli è possibile. Le difficoltà economiche lo costringono a fare altro: corriere della droga, per un cartello di narcotrafficanti messicani, anche se gli itinerari che percorre sono spesso eccentrici.
Nella maggior parte degli ultimi film hollywoodiani, e specialmente nelle serie TV, i messicani, identificati in prevalenza come narcotrafficanti, o loro fiancheggiatori, hanno quasi preso il posto di quelli che un tempo (nei western) erano gli indiani, incivili e crudeli: con appena qualche cautela in più, per non prestare il fianco con troppa evidenza all’accusa di razzismo. Comunque aleggia sempre, implicita, non detta, la necessità di separare, se non di costruire muri, e la DEA, pur con qualche ambiguità, spesso assume il ruolo salvifico del 7° Cavalleggeri, anche senza squilli di tromba.
Clint Eastwood, in The Mule, fa proprio il contrario. Non svalorizza il lavoro della DEA, così come John Ford rispettava sempre, in apparenza glorificandolo, il ruolo dei militari, di Custer, dei soldati a cavallo, ma mette in scena con Earl Stone, alias Leo Sharp, la figura di qualcuno che varca continuamente confini, passa per anni da uno Stato all’altro (senza mai prendere nemmeno una multa) e percorre liberamente lo spazio sterminato delle pianure, indifferente a tutte le barriere (anche etniche).
Diventa un fuorilegge? Lo diventa ufficialmente, ma in fondo è sempre stato un trasgressivo anticonformista, visto che per tutta la vita ha posposto la cura degli affetti familiari alla cura per gli splendidi fiori che ama coltivare (non solo per venderli) nel suo giardino. È davvero molto strano che il trasporto della droga concorra a salvare la coltiva- zione dei fiori, oltre che a lenire il senso di colpa nei confronti di una moglie e di una figlia troppo trascurate. Alla fine Earl Stone si dichiara colpevole davanti al giudice, colpevole e pentito di aver trasportato droga per i narcos – ma la ciò di cui soprattutto è colpevole (non pentito) è di coltivare fiori che sbocciano e vivono, esempi di splendida effimera bellezza, solo per un giorno.
L’attore-feticcio di John Ford, la figura filmica concreta in cui materialmente identificarsi (o specchiarsi), era John Wayne, il Duca; dopo la morte di Ford, il Duca divenne, tramite Howard Hawks e Don Siegel, l’emblema dell’attore anziano e malato, che però, malgrado gli acciacchi e il cancro allo stomaco, non abdicava al suo mito. L’attore-feticcio di Clint Eastwood invece è Clint Eastwood stesso, che amministra con saggezza la sua vecchiaia. Malgrado gli 88 anni, malgrado i capelli bianchi e le rughe, è ancora molto bello e in grado di reggere il suo mito anche come attore d’un road movie. Certo, non fa più a pugni, non porta più la pistola. Si limita a guidare un pick up, parecchi anni dopo aver guidato una Gran Torino. Forse soprattutto la vista non è più la stessa (se l’era misurata, barando, già in Space Cowboys), esigendo però meno luce piuttosto che più. The Mule è immerso in una luce crepuscolare: perfino in pieno giorno, durante mattinate serene, incombe un presagio di tristezza, di oscurità che scende.
Ebbene si: sempre nei film dei vecchi c’è meno luce. Non so se sia una forma di discrezione, un modo di chi sta per andarsene in punta di piedi. O forse a una certa età tutto si presenta come offuscato, immerso nella luce nera del sogno. Perfino i boss del narcotraffico, se traditi, vengono uccisi con discrezione; niente grandi sparatorie, un solo colpo alle spalle, mentre sono impegnati nel tiro al piattello. Solo i fiori conservano colori accesi, brillanti, effimeri, in omaggio al presagio della loro fine.
Il cinema di Clint Eastwood registra malinconia e bellezza della vecchiaia. Non solo mostra, nella vecchiaia stessa, la pulsazione della vita, ma la modifica, la accelera, la rallenta, la trasforma. Il suo cinema può benissimo continuare a raccontare, ma nell’atto di raccontare lascia cogliere il lavoro del tempo sui corpi e sulle cose. La morte al lavoro, certo, ma anche la vita. La vita al lavoro, perfino dopo la morte. Incarnazione di fantasmi, come ha scritto Derrida. Vivi (ancora) o (già) morti. Qualcuno ha parlato di un’opera quasi beckettiana, riferendosi al Buster Keaton di Film e alla maschera di Clint: accostamento suggestivo, ma solo in parte pertinente. Clint sfugge all’identificazione da parte dei poliziotti, non a quella della mdp, salvo che nel finale, quando, arrestato, cammina all’indietro, dando le spalle alla mdp stessa. L’eroe invecchiato però rimane eroe, anche se acquista al contempo una debolezza, una sorta di fragilità che ce lo rende infinitamente più vicino.