THE KNICK di Steven Soderbergh
Etica della ‘serie ospedaliera’
di Luigi Abiusi
[…] Vidi il meccanismo dell’amore e le modificazione della morte […] (J.L. Borges, L’Aleph)
Sul terreno pioneristico (western in senso ampio), dell’attraversamento e interrogazione dei confini (e del senso terragno, radicale, fino alla morbosa proprietà), del meticciato, che sono tradizionalmente gli elementi che costituiscono l’esperienza e l’epica americana, quindi la narrazione, il grande romanzo americano (da Faulkner a Thomas Pynchon), ora sembra che sia la forma televisiva seriale a ipotizzare inedite, incisive orografie e cronologie occidentali: tutta un’estensione e dis-articolazione degli spazi e dei tempi (grammatica) che ridefinisce la pragmatica americana; in questo senso Breaking Bad era esemplare di una dilatazione e di un silenziamento, come un deliquio da cristalli, perciò estraniazione (a volte addirittura esplicita allucinazione) dei contesti, tra deserti sterposi, scuole d’alienazione, appartamenti tutti chiusi nella loro apparente sonnolenza.
Ora, sotto la sua consueta luce marcia, ingiallita per azione di penombre, Soderbergh delinea il metabolismo di un mondo in macerie già sul nascere, nel 1900, proprio quando vari positivismi e scientismi ne supponevano la rigenerazione definitiva. Ma si tratta, per The Knick, come per gran parte del cinema di Soderbergh, di un discorso soprattutto cinematografico (così la Storia, ricostruita con attendibilità, è un epifenomeno del racconto), quindi di un apparato filmico (in dieci escrescenze episodiche) sottoposto ad auscultazione (medica), e di lì, per forza di sperimentazione, ad asportazioni, trapianti, trasfusioni (cronenberghiane), suturazioni. Ulteriore diversione sulla fisiologia, sulla polarità salute-malattia, dopo il Che-corpo della rivoluzione; il Liberace plastificato, re di un mondo scintillante di morte, mausoleo; Magic Mike che cerca di spogliarsi del ruolo di fantoccio dello spettacolo monetario, retrocedendo verso la semplice idea della vita di coppia; tornando indietro almeno fino al meraviglioso Solaris in cui la luminescenza era ancora l’inflessione dorata, struggente (non era l’ingiallimento della marcescenza) di una trasparente, lirica, metafisica amorosa.
Allora questa “serie ospedaliera”, superficie (foto)sensibile (marcata a fondo dalle luci: dai lumi smorti delle bettole, ring improvvisati per rivoltanti, infette antropomiomachie, ai riflettori della sala operatoria, ai candelabri dei salotti) mentre passa il tempo, subisce nette modificazioni fino a indirizzarsi, o a darne l’impressione, verso un esito etico (ed estetico) in coincidenza del settimo episodio.
All’inizio la situazione è di stallo gruppale, e di difficile, ruvida coesistenza: personaggi che si curano a vicenda, si supportano dentro l’habitat d’aggregazione, ma, fuori, esprimono verso gli altri, i diversi, indifferenza, diffidenza, spesso ostilità. Sono i medici dell’ospedale (uniti tra loro da sincera amicizia); i cinici, volgari vetturini e barellieri in cerca di malati o cadaveri (organizzati tra loro da una gerarchia fatta di cupidigia stracciona e di meschinità); la suora Harriet e la benefattrice Cornelia (mosse da dissidi deontologici e filantropici); il manipolo di investitori e amministratori (i più inveteratamente negativi della serie, a forza di pratica di capitali: e i soldi sono certo uno dei temi preferiti di Soderbergh); le schiere inermi di malati giacenti nei letti, attoniti e instupiditi mentre i medici fanno ipotesi di probabile morte davanti a loro; i poliziotti-magnaccia e gli ispettori sanitari corrotti atti ad arrotondare; i boss, indigeni e cinesi; le anonime prostitute e masse d’immigrati emaciati, sudati e febbrili nelle loro stamberghe verminose; e la folla di uomini di colore ai margini di questo mondo ordinato secondo la conservazione degli insiemi.
Ma poi qualcosa si muove (la stagnazione si trasforma in movimento, fino a diventare corsa) e i gruppi si incontrano, si mischiano, arrivano a capirsi, addirittura a rispettarsi, e a cooperare per la buona riuscita del Knick, quando in città si scatena la caccia al nero e infermieri, barellieri, medici, suore, addirittura amministratori (Barrow) si spostano, abbandonano i luoghi del loro solito, statico cabotare, e si avventurano in luoghi sconosciuti per un istinto di sopravvivenza e in nome di un’etica del riconoscimento e della cura, della medicalizzazione dell’altro, del diverso (personaggio) che tenga unito il racconto e gli permetta di sussistere. E la sussistenza è entusiasmante, perchè da questo tessuto che prima ospitava nodi disgiunti, si genera coesione, emerge l’amicizia (ad esempio tra suor Harriet e Tom Cleary e tra Thackery ed Edwards), come in un film western, in cui si incontrino compagni di viaggio per un cammino non più solitario; e scaturisce, atteso, perchè (dis)seminato in prodromi, in sguardi, discorsi sincopati, silenzi in penombra, finalmente l’amore.
Il terzo stadio invece è una deriva, un disfacimento del tessuto coeso (come una resa del racconto di fronte alla storia), che giunge dopo lo stallo degli insiemi divergenti e la corsa comunitaria, e di cui le vicissitudini di Gallinger, rimasto estraneo all’incontro dei diversi e quindi a un gruppo allargato che non riconosce, erano un’avvisaglia. Questo collasso ha la forma, anzi la forza, dell’astinenza, della follia, della morte infantile, e la forma smorta di tessuti rimossi: feti meticci, intere dentizioni; fino alla fine che non contempla una soluzione, ma solo una commutazione delle pene, perchè così la storia vada avanti.