The Killer di David Fincher
King of Comedy
di Michele Moccia
Il primo capitolo di The Killer è folgorante: venti minuti in cui David Fincher costruisce il personaggio del protagonista, la sua visione del mondo, il suo senso della vita, la sua solitudine, le sue ossessioni, quel suo rituale ripetuto nei gesti e soprattutto nelle parole, come un mantra. Attraverso questa figura di killer professionista, freddo, che non tradisce emozioni, Fincher recupera la pulsione scopica di Alfred Hitchcock, La finestra sul cortile, e la tensione impietosa dello sguardo di Michael Powell, L’occhio che uccide. Poi, l’errore inaspettato, il colpo di fucile mancato e con esso l’inevitabile piombare in una spirale di violenza e di morte.
The Killer è un film geometrico, ‘cartesiano’. Un inciso: vedere e rivedere la sequenza della fuga in vespa tra le stradine di una Parigi notturna, con le vie della città che sembrano srotolarsi davanti alla fuga del protagonista, con i riflessi sulla visiera del casco, che raddoppiano le immagini, mentre il manto di rumori e suoni e la musica di Trent Renzor e Atticus Ross, si stende in esse, confondendosi.
Da qui il film prende a muoversi in un itinerario planetario: Parigi, Santo Domingo, New Orleans, la Florida, New York, addensando nella geometria della forma, stati d’animo e attese, e mentre lo sguardo di Fincher segue l’ebbrezza cosciente dell’assassino, il suo percorso di vendetta, un montaggio serrato, lega i capitoli, che seguono, in un ordito filmico a tratti ipnotico, nel suo essere immerso in colori intensi, il blu scuro, il giallo ocra, il grigio metallico, che accompagnano la luminosità densa di Parigi e di Santo Domingo, e il buio notturno della Florida e di New York.
Fincher costruisce così il suo gioco, negando in maniera ancora più estrema, rispetto ai suoi film precedenti, la possibilità di un controcampo; l’unico controcampo possibile è, quasi un ritorno alla fantasmatica schizofrenia di Fight Club, nel gioco delle false identità del protagonista, in quella carrellata di nomi che si ripetono scanditi ad ogni suo movimento/viaggio, dietro ai quali si nasconde la chiave di lettura del film, vera mise en abyme, che rende The Killer un saggio teorico sul lavoro della messa in scena, della costruzione del personaggio e della maschera attoriale. Sono nomi presi a prestito da personaggi di fantasia, protagonisti di sit-com televisive: Felix Unger e Oscar Madison (The Odd Couple), Archibald Bunker (All in The Family), Howard Cunningham (Happy Days), Reuben Kincaid (The Pardrige Family), Lou Grant (Lou Grant), Sam Malone (Cheers) e George Jefferson (The Jeffersons).
Il killer di David Fincher è un vero e proprio King of Comedy, artefice di una ‘farsa’ venata di humor nero – si riveda in controcampo Gone Girl -L’amore bugiardo –, fin dall’inizio quando egli stesso si chiede, durante la fuga parigina, ricordandosi dell’attore/assassino di Abraham Lincoln: “Cosa farebbe John Wilkes Booth…”, dopotutto come ha scritto il mio caro e incorreggibile Edoardo Bruno: Le maschere nascondono il falso ma il falso si nasconde dietro ogni maschera.