SULLY di Clint Eastwood
Il luogo dell’impossibile possibile
di Michele Moccia
No, non è una grande aquila che sto pensando, ma a un fragile uomo volante.
Jean Arthur a Cary Grant in Only Angels Have Wings
Già nel 2009, in Invictus, un aereo sorvolava improvviso lo stadio dove si disputava la finale di Coppa del mondo di rugby, “aereo imprevisto, metafora di paura e di gioia”[1]. Sully inizia con la parabola in cielo di un aereo che plana, privo del funzionamento dei suoi motori, tra i grattacieli della città di New York, un ultimo pensiero, affidato alla scatola nera, del comandante alla donna amata, e l’impatto contro uno dei palazzi, poi il risveglio che segue l’incubo dello schianto. In Sully la grande città americana rivive nei riflessi vitrei dei suoi palazzi, come nella testa, nella mente del comandante Chesley ‘Sully’ Sullenberger, ed è in essa che l’aero continua a planare, ossessivamente, tra i palazzi e a schiantarsi contro di essi. È come se nella mente del suo protagonista Eastwood lasciasse rivivere la fredda e impietosa realtà di uno schianto inevitabile, le immagini non possono far altro che rendere coscienti di ciò che è accaduto e, dunque, rimostrarlo, farlo rivivere, come quei momenti del passato che riaccadono nei ricordi di Sully, nel loro materializzarsi, improvvisi, nel film.
Clint Eastwood sa, con Howard Hawks, che solo gli angeli hanno le ali, come, prima di lui, Robert Zemeckis di Flight e di The Walk. Ma sa anche che il cinema è il luogo dell’impossibile possibile, di un altro mondo possibile, e l’ammaraggio dell’aereo sulle acque del fiume Hudson diviene metafora di una realtà e di un mondo che non possono più fare del male. Le immagine diventano, nel senso dato da Vico alla poesia, nella rilettura di ciò che è accaduto, più vere del vero, mentre conservano la loro finzione. Così l’immagine dell’aereo che galleggia sulle acque del fiume con i passeggeri sulle sue ali è un’immagine straniante, e quei sopravvissuti al disastro, come aggrappati ad uno scoglio, ad un isolotto, sono come alieni al resto della città. Il film (ogni film) è, ancora una volta, una “lotta amorosa” (per dirla con Karl Jaspers), e non può essere altrimenti, come si vede anche in quei momenti di intimità in cui Sully parla al telefono con la moglie Lorraine, una stupenda Laura Linney, che nell’incrociarsi delle sequenze, in chiasmo col passato, sembra aver viaggiato nel tempo da Love Letters (1999) di Stanley Donen.
[1] E. Bruno, Prosa e poesia, in Filmcritica 603, marzo 2010.