STRAUB/BERNANOS
di Edoardo Nardi
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Opera ultima di J.M Straub, dedicata a Filmcritica per il numero Settecento, La France contre les robots (2020), merita una riflessione quale tassello conclusivo di uno degli ultimi autori per i quali è ancora possibile parlare di opera. Un estratto dell’omonimo testo di Bernanos, datato 1945, costituisce la tessitura di una messa in scena sobria ed essenziale, come sempre in Huillet/Straub. Tuttavia, il documento filosofico che tale testo rappresenta, si configura come una delle più acute e accorate testimonianze intellettuali sul nostro presente e sulle possibili conseguenze future di scelte politico economiche oramai note e condivise. Huillet/Straub e Bernanos hanno conosciuto un destino simile. Incensati da molti critici, ma più spesso contestati, in realtà semplicemente, sono stati poco compresi. Nel caso di Huillet/Straub, la loro parabola ha accarezzato la gloria effimera che proviene dalla considerazione che si tributa a maestri solitari e rigorosi, che si ammirano, ma che fanno paura. Huillet /Straub facevano paura alla critica stessa che li incensava, poiché spesso non si comprendeva a fondo la complessità dei riferimenti delle loro opere e in sostanza quasi mai vi era condivisione autentica, né da parte del proprio fedele pubblico, né da parte di tanta critica, del loro grido polemico, della potenza del loro furore. Il furore, che nel XVII secolo accostò la follia alla ribellione, riversando le due componenti in una sola colpa, era la cifra peculiare tanto degli Straub che di Bernanos. Quest’ultimo pervase progressivamente i propri personaggi della inquietante e insinuante presenza del male, benché gli stessi fossero poi salvati dalla redenzione cristiana. Il senso del male nella letteratura di Bernanos coincide profondamente con quello presente nel cinema degli Straub, anche se quest’ultimo non tratta apparentemente temi metafisici e religiosi. In realtà il capitalismo quale potere dominante, nonché la contestazione di un’arte sempre più asservita alle logiche di tale potere, arte che si fa prodotto decorativo, intercettata dalle logiche di mercato come in particolare nella produzione cinematografica contemporanea, costituisce la denuncia essenziale degli Straub, nonché l’elemento che permette di comparare il senso del male in Bernanos, ed aggiungerei, nel suo grande interprete Bresson, alla percezione negativa di un occidente oramai schiacciato e vinto da un mercato che pervade e comprime il quotidiano di ciascuno di noi, presente in ogni singolo frammento di Huillet/Straub. La forza della negazione e la violenza della lotta, che appartengono loro, si stagliano nell’orizzonte oggi vuoto del cinema del consenso che abbandona il visibile per la visibilità, mentre, sosteneva da sempre Straub, un cineasta che non lavora per consentire allo spettatore/cittadino di vedere meglio la realtà e di sentirne più intensamente i suoni, non è degno di girare un film. Possiamo aggiungere che prima ancora di girare il suo primo film, la vocazione di JMS al cinema era stata suscitata dall’idea di una Cronaca di Anna Magdalena Bach,opera nella quale la musica doveva costituire la materia del film, per la prima volta mostrata al cinema in quanto tale, ispirandosi in tal senso allo stesso lavoro compiuto da Bresson sul romanzo Il diario di un curato di campagna di Bernanos. Dunque il percorso di JMS segnato inizialmente da Bernanos, si conclude con La France contre les robots, violento saggio critico del medesimo scrittore nei confronti della civiltà occidentale, che Straub traspone in immagini conclusive e in qualche modo definitive. Due sono le citazioni chiave del testo, che parte dal concetto di rivoluzione, ovvero l’idea che le grandi potenze mondiali, separate dalle ideologie, abbiano trovato nella tecnologia la sintesi delle differenze nell’esercizio del potere e che un mondo conquistato dalla tecnica è un mondo che perde la libertà. Nel cinema, l’utilizzo del digitale ed una misura alterata dello spazio attraverso inquadrature che ne rimodellano le forme astraendole dal reale, comporta di conseguenza l’impossibilità di una percezione diretta, orientata all’essenza di uomini e cose, a favore dell’inconsistente vacuità del decorativo. Huillet/Straub hanno da sempre dimostrato nella loro opera, come il film condensi il tempo attraverso porzioni di spazio, ovvero di come il cinema non sia arte dello spazio, ma del tempo. Ne La France contre les robots, sussistono tre elementi spaziali: il protagonista (Straub?, Bernanos?) di spalle pronuncia il testo in un soliloquio non destinato ad un pubblico, altrimenti l’inquadratura sarebbe stata frontale come in tanti film precedenti; si tratta infatti di una riflessione ed il secondo elemento è proprio costituito dal lago presso il quale l’uomo cammina, che riflette a sua volta il colore del cielo; il terzo elemento è dato dalle due versioni dello stesso percorso filmico montate in sequenza, una girata nella penombra serale ed una nella luce diurna. Questi tre elementi compongono lo spazio del film, ne costruiscono letteralmente la materia ed attraverso di essi conosciamo tutto ciò che il film significa. Giustamente tale opera non spiega nulla, non c’è spettatore, ma immagini compiute alle quali riferirci, che dobbiamo tentare di comprendere anche se complesse, prive di spettacolarità, essenziali. Ma il tempo appare proprio attraverso queste immagini naturali, la natura di Empedocle, Lucrezio, Holderlin e Huillet/Straub. Il tempo vive nell’attraversamento dell’esistenza, nell’atto di resistenza che ogni riflessione comporta, nella parola che lotta e non si concede. C’è tutto nel film di Straub, ma bisogna viverlo per poterlo comprendere. Da qui la solitudine senza compromessi che ha scandito la vita di Huillet/Straub, l’accondiscendenza dei festival nei loro confronti, l‘ammirazione condizionata di tanta critica, l’accusa di autoreferenzialità. Solitudine come luogo minoritario, solitudine di una riflessione nel tempo della crisi.