SPLIT di Manoj Night Shyamalan
Solo il dolore è vero
di Luigi Abiusi
All’interno del suo consueto incedere per mutazioni di prospettiva, del cinema inteso come organismo; e per variazioni su temi e forme, il Shyamalan di Split sta tutto nelle permutazioni e divisioni (split appunto) del dispositivo personaggio, quella fervente “forma cava” pronta a riempirsi e diramarsi di caratteri latenti (caratteri psichici, emotivi, cioè umani ma sempre al limite del loro sovrumanizzarsi: ed è questo limite e l’occasione di oltrepassarlo, ma sempre restando nei paraggi, che interessa al regista); una struttura, questo personaggio shaymalaniano, ad alta ricettività di materiale cinematografico, che smania nel non-visto prima di dare forma a presenze, di darsi forma nel presente, quello cinematografico, già evanescente: carne, profili, sagome cangianti frutto di una possessione, di una incarnazione di possibilità (le tante personalità, con le proprie minuziose connotazioni, che affollano il corpo di Kevin). La mutazione del genere (tra thriller e horror, normale e paranormale) non solo da un film all’altro, ma soprattutto dentro lo stesso film (e sulla pelle dei propri personaggi): che allora appare più che mai come qualcosa in evoluzione, in crescita, come lo è Kevin appunto, destinato a divenire La Bestia e a sancire il passaggio dalla contingenza al fantastico, aprendo scenari imprevedibili in cui rientrano L’uomo di vetro e Il Guardiano, i supereroi che in The Unbreakable erano stati soggetti alle leggi fisiche: Elijah Price e David Dunn, colti in procinto di transitare, di passare ad altro. Il transito (momento della mutazione di prospettiva) è dall’umano dei nomi propri (Elijah Price, David Dunn, Kevin Wendell Crumb) in vigore in un mondo duro, realisticamente ottuso; al sovrumano dei nomi comuni (L’Uomo di vetro, Il Guardiano, La Bestia o L’Orda) proprio come possibilità di uscita dai margini claustrofobici della natura, tra suburbi e campi, boschi (la casa in campagna di The Visit; il perimetro marcato di The Village: la Filadelfia vischiosa, greve in The Unbreakable, ma in genere il mondo concreto e refrattario in cui si muovono le figure di Shyamalan) per entrare in una zona fantastica, tuttavia propaggine, prolungamento naturale del mondo; prolungamento testimoniato nel suo farsi faticoso (in questo senso l’incedere rassegnato, l’indole repressa di The Unbreakable sono esemplari). Sono la fatica e il dolore di uscire dalla realtà (e Shyamalan in Split insiste sulla qualità catartica, mitopoietica che ha il dolore) per entrare nel Reale (una zona di creazione, reinvenzione del mondo), in cui i segni si reinterpretano, si caricano di mito, di assolutezza, quella propria del nome comune.
L’oscillazione è questa: sofferta mutazione di prospettiva, di ottica indicizzata dai nomi delle cose; e cambiando la focale, quello “lo stare nella luce”, l’impossessarsi degli occhi, della visuale di Kevin, che le 23 personalità di lui si contendono, cambia la carne, la fibra ottica di cui è fatto il film: dalla mimesi al sovrannaturale e ritorno, perché lo slancio verso il sovrumano non porta mai a perdere i contatti con la terra, luogo del dolore e dell’attraversamento della soglia naturale. Infatti qui non mancano le vicende traumatiche legate al primo nucleo di quella società delle interrelazioni, che sembra essere l’obiettivo principale del cinema di Shyamalan: la famiglia, già in crisi in The Visit (ma ancora prima, da The Unbraekable al Sesto senso ecc.) in cui Casey ha subito abusi da piccola richiudendosi poi nella misantropia (ma il suo sguardo alla fine presagisce una reazione veemente e una mutazione superomistica), così come Kevin, vittima di vessazioni e umiliazioni nell’infanzia, che lo hanno portato allo split estremo della sua personalità.
L’evoluzione verso il fantasioso parte da queste fondamenta di estremo dolore; e rientra sempre nella logica di sofferta mutazione, progressione metonimica (nominale) all’insegna della pura sofferenza; un lavorio a cui è sottoposta l’immagine che riguarda la fuoriuscita dall’involucro empirico (come David Dunn che aveva faticato enormemente a uscire fuori dalle pastoie del suo quotidiano riconoscersi finalmente Guardiano), in cui le fibre si lacerano, si dividono, poi si potenziano arrivando a un’unità assoluta che è quella della Bestia, salvo constatare ineluttabili, necessari ritorni all’originaria mimesi. E Karen, la psicanalista deve ricredersi sul fatto che questa Bestia sia solo una fantasia, constatando la sua stretta attinenza con la realtà: ne è una continuazione, un inveramento prodotto dall’alta capacità mitopoietica del dolore, umano, super-umano, quello di Kevin e di Casey, porta aperta sulla trasfigurazione, sul mito e sulla saga appena iniziata.