SPIDERMAN: NO WAY HOME di Jon Watts
Un lancio nel vuoto
di Simone Emiliani
Come si fa a non far invecchiare i film Marvel, soprattutto negli ultimi dieci anni? È invecchiamento pieno di magiche luci in un film d’ombre come quest’ultimo film della terza trilogia di Spider-Man, No Way Home. Così come era già straordinariamente vecchio Douglas Sirk quanto rifaceva John M. Stahl in Magnifica ossessione e Lo specchio della vita. È un processo, questo dell’invecchiamento dei cinecomics, evidente negli ultimi dieci anni ed è evidente se si confronta il primo Avengers del 2012 con lo strepitoso Endgame del 2019, forse un altro cinema che gioca da tutt’altra parte. No Way Home però ha bisogno del passato, di ridefinire la propria identità come quella del protagonista, prima supereroe, ora nemico pubblico numero 1. “Il problema sei tu che cerchi di vivere due vite diverse” gli dice il dottor Strange. Forse mai come in quest’ultima trilogia diretta da Jon Watts, è così frammentaria. Nel corpo di Tom Holland e nella luce di Zendaya. L’ Hollywood anni ’40 di angeli e demoni, di claustrofobici spazi noir, di morti viventi che tornano dal passato. Nella ridefinizione della MCU (Marvel Cinematic Universe), qui al 27° film, la ricomparsa di Electro (Jamie Foxx), Goblin (Willem Dafoe) e il Doctor Octopus (Alfred Molina) possono essere ombre soggettive da Fritz Lang, come deformazioni allucinanti. Oppure il necessario scarto tra cinema e fumetto. L’ultima trilogia permette a ognuno di resuscitare, di tornare a vivere anche se solo per il tempo necessario, minimo, tra l’entrata/uscita in scena.
C’è sempre una casa al centro di questa trilogia. Come luogo da cui allontanarsi e fuggire (come i due ragazzini che scappano con una volante della polizia abbandonata su un campo, nel secondo lungometraggio di Jon Watts pre-Spider-Man). Prima Homecoming, ancora bloccato dalla necessità narrativa di raccontare nuovamente la storia delle origini di Spider-Man. Poi Far From Home, che ha creato l’illusione, come Avengers e Captain America, di interagire dal vivo con i protagonisti e di poterli muovere come in un videogioco interattivo. Infine No Way Home, quello più disperatamente classico e struggente con simboli che ritornano (l’impalcatura della Statua della Libertà) e specchi che si rompono (ancora il noir). Ma soprattutto è il film che dialoga necessariamente con il passato, con la splendida prima trilogia diretta da Sam Raimi (compreso il bistrattato e bellissimo Spider-Man 3, tra i Marvel più cupi) e il secondo dittico, meno convincente (The Amazing Spider-Man e sequel), firmato da Marc Webb prima dell’entrata dell’Uomo Ragno nel MCU. Con la comparsa di Tobey Maguire ed Andrew Garfield, che si affiancano a Tom Holland, Watts moltiplica le identità e le personalità, sancisce definitivamente l’immortalità del cinema attraverso un gioco magico di grandiosa spettacolarità ma anche teorico. I tre attori che interpretano Spider-man ribaltano Peter Sellers il Il dottor Stranamore incarnava insieme il colonnello Lionel Mandrake, il presidente Merkin Muffley e il dottor Stranamore. Uno in tre, tre in uno. Non è solo un sistema numerico. Ma è proprio il protagonista Marvel che si è ingigantito e non basta più un solo attore. Potrà succedere anche ad Iron Man, Thor, Capitan America. Oppure è ancora un ipnotico gioco di specchi dove dall’altra parte c’è un’altra immagine, un altro corpo. Il bacio a testa in giù del primo Spider-Man si sposta sotto il sole in No Way Home. I primi veri, squarci di luce di un film che è una macchina perfetta ma è anche puro mélo, strabordante ed emozionante. Watts guarda ancora Sirk. Rifare quello che è stato già fatto. E ci riesce alla grande. Forse è il Marvel che non invecchia mai. Oppure è già invecchiato. In No Way Home ci sono dentro quasi 20 anni di cinema con tutta la mutazione da blockbuster a cinecomic. Oppure rigetta ogni definizione di un cinema senza passato ma di cui ha fortemente bisogno in un lancio nel vuoto verso il futuro.