Spider-Man: Across the Spider-Verse di Joaquim Dos Santos, Justin K. Thompson e Kemp Powers
La tela del ragno
di daniela turco
Come un colorato, seducente oggetto new Dada, sfreccia ancora in molte sale Spiderman Across The Spider Verse, il secondo sorprendente capitolo di una trilogia in divenire, che dopo Spiderman Into the Spider Verse (2018, e l’attuale tappa “attraverso”, prevede ancora un’ulteriore esplorazione con Spiderman Beyond the Spider Verse, che arriverà nelle sale la prossima primavera.
Anche più del film precedente, Spiderman Across The Spider Verse continua nel segno della sperimentazione e della sovversione, sia visiva che di linguaggio, con meno ironia slapstick, forse, del primo, a favore di un maggiore affondo sul versante melò, non solo per la consistenza di un percorso compiuto visualmente nella luce e nel colore, che riprende qui la palette di colori impressionista – più che esplicito il richiamo a Monet e alla sua pittura “atmosferica” -, ma, soprattutto, per la rimodulazione in senso iper-narrativo dei rapporti tra personaggi, arte, cultura, memoria cinematografica. I riferimenti espliciti alla teoria quantistica che attraversano il film lo indirizzano verso una molteplicità di universi paralleli, che possono talvolta entrare imprevedibilmente in collisione: è il caso e l’anomalìa tragicomica di The Spot, la Macchia, scienziato a capo di un laboratorio, che per l’esplosione di un acceleratore ha perso la propria realtà umana, ma è anche l’anomalia del suo antagonista, Miles Morales, unico Spiderman di Brooklyn, ancora una volta, insieme a Gwen, protagonista assoluto, che con la sua figuretta adolescente egemonizza il film, popolato da un catalogo infinito di variazioni sull’immagine dell’uomo ragno (esiste anche un giocoso Spiderman Lego). Diretto da Joaquim Dos Santos, Kemp Powers, Justin K. Thompson (mentre i registi del primo, Bob Persichetti, Peter Ramsey, Rodney Rothman, continuano a partecipare al progetto della trilogia qui come produttori esecutivi), Spiderman Across The Spider Verse muovendosi nel solco della rottura concettuale prodotta a fine anni ’50 dalla Pop Art, prende spunto dall’universo dei comics per sovvertirlo e per farlo esplodere nei mille piani di un cinema di animazione qui interamente rifondato, re-immaginato come labirinto visivo, temporale e linguistico, che accoglie in una stessa tela iridescente, incantata, più mondi, più dimensioni, più orizzonti geopolitici e temporali, qualcosa, infine, che al di là delle posizioni prese da molti autorevoli registi contro i film prodotti dalla Marvel, sembra avere ancora molto a che fare con il cinema. Qualche anno fa, infatti, Scorsese, seguito da altri registi, aveva criticato i film Marvel per l’assenza di rivelazione, di mistero e di pericolo emotivo, che li caratterizzava. Eppure, in Spiderman Across The Spider Verse si osserva un attraversamento tanto preciso quanto misterioso della dimensione melò, esplorata proprio attraverso l’uso del colore, come già era avvenuto nel cinema realizzato da Vincente Minnelli, che nei suoi film pensava ai colori – dagli interni delle case, agli abiti, agli arredi – come a qualcosa di vivo, come reali estensioni materiche dei sentimenti, dei paesaggi interni, dei sogni più segreti e pericolosi dei personaggi dei suoi film. Velocità e stasi, accelerazioni e tempi morti di riflessione e di attesa, si alternano continuamente in Spiderman Across The Spider Verse proprio come nei film di Minnelli si alternava la frenesia e l’estasi, per ricordare il titolo di uno splendido saggio[1] dedicato al regista di Qualcuno verrà, da Giuseppe Turroni, il più sensibile studioso di V. Minnelli in Italia e non solo. Spiderman Across The Spider Verse inizia (molto prima dei titoli di testa) con un prolungato assolo di Gwen alla batteria, che la isola dal resto della sua band, incapsulata nel suo mondo solitario, narrato dai colori, in una gamma di sfumature malinconiche, che vanno dal biondo fragola dei suoi capelli all’indaco al violetto dell’atmosfera che la circonda. Sono quegli stessi colori che dominano nella sua stanza durante il confronto-scontro con il padre, che li lascia entrambi alla fine distanti, nella solitudine, ma Gwen, con la sua figuretta mascherata e danzante, sta già sfrecciando oltre la finestra, verso una linea di fuga che la porta dentro alla sequenza grandiosa all’interno del museo Guggenheim. Entrambi figli di poliziotti in carriera, sia Gwen che Miles non potrebbero essere più vicini, per essere entrambi dominati da una Legge del padre, che li stringe, assoggettati e ribelli, ma non può, non riesce, a (com)prenderli. Le loro immagini capovolte, in cima alla Williamsburg Savings Bank Tower, contro il tramonto sulla città rovesciata, parlano proprio di questo, di una sconfinata solitudine e di una irriducibilità radicale alle regole del loro stesso mondo, oltre che alla persistenza di un desiderio impossibile, contradditorio e straziante, di far ritorno a casa.
Il lettore militante di Mille piani, Capitalismo e schizofrenia, di G. Deleuze e F. Guattari, opera più che mai oggi al presente, di controcultura e di guerriglia, nel vedere Spiderman Across The Spider Verse scoprirà più punti di contatto con le analisi di quel testo sul divenire molteplice, sulla velocità e sulla proliferazione delle conoscenze, e ritroverà nelle maglie del film così come avveniva tra le pagine di Mille piani diverse indicazioni molto precise sui gesti di resistenza e di ribaltamento rischiosamente desiderante che la vogliono fare finita con il canone della ripetizione, gesti che per questo diventano atti immediatamente politici. In questa chiave, in Spiderman Across the Spider Verse si può leggere, ad esempio, la grandiosa sequenza all’interno del Guggenheim, dove il museo viene simbolicamente indicato come uno degli snodi oggi cruciali per le transazioni del capitale contemporaneo, preso d’assalto da un impressionante avvoltoio, uscito da un disegno su pergamena di Leonardo e da un universo parallelo, che nel suo volo distruttivo e scomposto riesce a fare a pezzi l’arte contemporanea più oscenamente di mercato (si vede infatti, andare in frantumi uno dei costosi conigli di Jeff Koons). Oppure, più avanti nel film, a coinvolgere è l’anacronìa di Hobie Brown/Spider Punk, apparizione fantasma che emoziona, perché proviene dalla realtà vera e vitale di un tempo lontano di rivolta, intercettato per qualche istante, mentre con la chitarra a tracolla e i capelli crestati anni ‘70 viene scaricata nel film tutta la rabbia contro il fascismo, con il sound stridente degli scontri e di una lotta mai finita, anti-eroica e anti-sistema. Anche Miles Morales, Spiderman adolescente di Brooklyn, piombato nell’universo parallelo di Mumbattan soltanto per inseguire Gwen, ha suo malgrado rotto il canone, e la sua ripetitività necessaria, che comporta sempre, per tutti gli Spiderman a qualsiasi universo appartengano, la morte del capitano di polizia. Miles, invece, precisamente come fa questo film letteralmente stupefacente, osa rompere il canone, per cercare, invece, lungo le linee di fuga, di nuovo la strada di casa, che lo porterà a incontrare, nell’universo sbagliato, dove suo padre è già morto, e sorride, torreggiando da un murales, un’altra e più inquietante versione di se stesso. Anche in Underworld di Don De Lillo, si lasciavano le ultime pagine del libro alla poesia cruda dei graffiti dipinti con le bombolette sui muri del South Bronx, l’ultimo spazio per inquadrare e per fissare le storie più marginali ed emarginate, dove si trasformano in angeli protettori, tutte le vite perdute. Qui attraverso le storie dei poliziotti e dei loro figli, super eroi e anti eroi nello stesso tempo, si inscrivono altre tracce meno evidenti, dolorose e sottili, le storie dell’immigrazione, dello sfruttamento, e delle scelte coatte fuori dalla legge, come quella dello zio Aaron, che spingono però questo incredibile progetto di animazione dentro e oltre il cinema, sempre più lontano.
[1] G. Turroni, “La frenesia e l’estasi”, in Mr. Vincente. Omaggio a Minnelli (a cura di E. Bruno), edizioni del Grifo, Montepulciano 1984