SONG TO SONG di Terrence Malick
Preposizione semplice
di Luigi Abiusi
Attivati a questo punto, a questa fase dell’opera di Malick, parlarne equivale anche a fare un discorso sulla critica e in genere sulla cultura al tempo del consumo totalitario. Non dico il pubblico, che necessita da sempre di un prodotto cinematografico da consumare al pari dei bruscolini e delle spume; ma anche parte della cosiddetta critica (a cui all’improvviso manca il sicuro appiglio del narrato) si ritrova a naufragare nell’antico, infinito mare della lirica, e a rifiutare un cinema pervicace, refrattario, chiuso nelle sue giaculatorie, che è il cinema di Malick soprattutto a partire da The Tree of Life in poi. Si tratta di una paura, proprio di un terrore raggelato di fronte a tutto ciò che esula dai limiti confortevoli della media narrazione in quanto specchio rassicurante di un sé sicuro di sé (al cinema, a teatro, nel mondo); e tanto maggiore quando non solo essa si complica in racconto non lineare, ma cede proprio, smotta, lasciando emergere la carne nuda e pulsante della poesia.
Ma si tratta di un cinema chiuso, quello dell’ultimo Malick, in misura di una paradossale apertura alle ingerenze esterne (in questo senso esposto ai pericoli, all’incombere dell’ombra), a insorgenze dialettiche, cioè a un farsi del pensiero entro le maglie slargate di una rete estetica. Song to Song allora è la rete più perfetta, più perfettamente ermetica, messa insieme da Malick: perché è chiusa, annodata nella sua coerenza versificatoria, lirica, ellittica, eppure, per via di quelle maglie, di quelle ellissi, aperte al virtuale, a spazi e tempi assenti, altrettanto cristallini e crepuscolari rispetto a ciò che effettivamente si vede, pullulanti (per mancanze e divaricazioni) negli intervalli tra scena e scena; tanto da chiedersi se il film non avvenga proprio in questi interludi, nello spazio musicale (non) delimitato dalla preposizione semplice, da canzone a canzone. E il preludio di questa rapsodia si rinviene andando indietro di molti anni, arrivando fino ai Giorni del cielo, alla sua fenomenologia crepuscolare, dove il racconto veniva già sovrastato dalla superficie pulsante delle emotività nude, raminghe, disperate sotto la luce del sole calante. Che sono quelle emergenti anche ora in Song to Song, esposto alle stesse condizioni di luce, in un’accentuazione dell’enfasi della solitudine e dell’erranza, che è anche enfasi del lirismo, dell’ellissi, lo spazio-tempo lasciato tra scena e scena: un vorticare aereo tra i frammenti di vita, come di giostra, di salto in salto, con l’unico addentellato tra di loro costituito dalla persistenza estravagante dei corpi senzienti, dolenti; dalla luce decrescente negli appartamenti vuoti, nelle camere d’albergo, sui bordi delle piscine e tra le vetrate in plexiglass (come già in Knight of Cups); dall’insorgere della musica che innerva i personaggi, li fa muovere, amare, suicidare. Uno stile tattile, che per tocchi di mani, di corpi avviluppati eroticamente nel tentativo di districarsi dal caos, è allora la secolarizzazione del salmo di To The Wonder. E se qualcuno resta schiacciato dal peso delle auto laccate, dei corpi sodi di donna, le bocche, le natiche che inscrivono l’immagine cinematografica entro una ricerca di bellezza sublime (tanto da arrivare a sfiorare il cattivo gusto); c’è chi inaspettatamente se ne tira fuori e torna alla terra, se ne sporca le braccia lavorando i mattoni, i muri che ora si sostituiscono alla trasparenza del plexiglass, al lucore prismatico delle piscine, le radiche, le cromature delle automobili. C’è proprio questo ritorno della macchina da presa di Malick alle rocce, agli slarghi sconnessi, i fossi e i cespugli disordinati della radura, mentre risplende ancora (già dal primo minuto della Rabbia giovane) il crepuscolo (inscritto anche nelle albe, nei soli a picco) a gettare ombre sul cammino dell’uomo. Il tempo e la realtà sofisticate dello spettacolo sono passati e ora appare, con la stessa tensione verso un’immagine sublime[1] – un’opera tenace di rastremazione e pulizia della plastica del mondo – la semplicità del lavoro umano tra la polvere e i laterizi, constatando l’inadeguatezza rispetto alla velocità imposta dai processi di lavoro (sfruttamento), che è la stessa di Malick di fronte ai canoni cinematografici odierni: BV che viene rimproverato dal capocantiere perché non riesce a tenere i tempi della costruzione seriale è il Malick deprecato dalle logiche consumistiche (film e film consumati senza che ci si fermi a riflettere e soprattutto a fare ricerca), che da anni si prende il tempo che serve e si dibatte tra muri, calcinacci, malte per tentare di edificare un cinema di bellezza essenziale, che sia intrinsecamente etico, politico, perché poi dopo il girare a vuoto di Faye e BV, c’è la possibilità di ritrovarsi in una congiuntura terranea – là dove avevano fallito Bill e Abby (I giorni del cielo) e Neil e Marina (To The Wonder) – nell’essenzialità di un mondo e di un cinema che non ha bisogno di piscine.
[1] Quell’immagine e quella bellezza che hanno insita la forza opprimente del negativo, espressa in Malick dal crepuscolo che mortifica la luce. È il concetto di sublime già compiuto in Burke, quale, si potrebbe dire, dialettica trascendente dell’orrore dentro la bellezza.