SILENCE di Martin Scorsese
La direzione unica e sempre uguale, la presenza e la cancellazione
di Giovanni Festa
La figura ideale dell’estensione spengleriana (che riassume un movimento di natura essenziale) adoperata da Scorsese sembra essere quella della direzione unica e sempre uguale, legata ai singoli corpi sensibili (non era così già in Taxi driver, con il movimento infinito dell’autovettura-bara, replicato dal double spettrale dell’ambulanza in Al di là della vita, ma anche quello di The Aviator e Shutter Island?).
In Silence questa figura si fa emblematica e assimilabile all’assunto del terzo quartetto elliotiano, “non buon viaggio, ma avanti viaggiatori” e dove il fine di questo movimento inesorabile (fino al fronte dell’isola rocciosa e vulcanica e, poi, alla “contaminazione” dentro il Giappone-palude dove il Cristianesimo “non può crescere”) è “l’annientamento di tutta la vita nell’amore, ardore, altruismo, dedizione” (e la problematicità nell’applicazione pratica di questo assunto e del conflitto che porta con sé).
Questo movimento si rende palese già all’inizio, nel momento della traversata Cina-Giappone, e doppiato poi dai successivi spostamenti in barca dei due gesuiti, sempre velati da una nebbia così insistente da colorarsi di significati astratti: viaggio nel paese delle ombre – e tenace affiora qui il ricordo di un’altra sequenza di tragitto acquatico, quella di Mizouguchi dei Racconti – Giappone come vero, definitivo luogo – shutter, sostantivo che implica tutto quello che è relativo al chiudere, serrare, sigillare che la predicazione gesuita tenta ostinatamente di forzare e trasgredire (tutti verbi, invece, vicini ai termini legati a un concetto di effrazione del chiuso, come chiusa era la società giapponese dello shogunato Tokugawa).
È in questo senso che l’inquadratura di Scorsese si restringe-chiude a sua volta, in una aderenza al corpo che rifiuta programmaticamente qualsiasi vertiginosa ascesi malickiana verso l’alto per trovare nel basso, nella clausura, una radicale e antimetafisica ragione ultima: chiusura estrema dei corpi che vengono torturati, nella ripetizione-moltiplicazione iniziale del frame “nero” batalliano del suppliziato – “bello come una vespa” e chiusura dello spazio, come attestano i numerosi momenti di contenzione del film (la baracca dove i gesuiti si rifugiano, evitando ogni contatto col fuori per non essere riconosciuti; l’isola di Goto e una preferenza, nella predicazione, per i luoghi marginali, vicini al mare – dove vivono i pescatori e i contadini, più permeabili alla nuova dottrina; la cella dove padre Rodriguez viene imprigionato con altri fedeli, nella quale entra la luce ed è in costante comunicazione con il fuori; fino al pozzo, sorta di punizione infera dove i corpi sono costretti a testa in giù, con un taglio alla radice del collo che permette la fuoriuscita del sangue e la condanna ad una morte lenta).
A questo restringimento è ricollocabile l’apparizione ripetuta del Volto di Cristo del Greco (pittore – mistico che dedicò una serie di variazioni sul tema del Volto Santo e del panno della Veronica, fino alla deliquescenza finale e quasi informale dei tratti di viseità): volto che si sforma aderendo al velo e velo che, nel film, si deposita facendo presa sull’intercapedine del supporto-mondo (e che finisce per rappresentare, per trasmissione, una motion picture dell’anima che diventa lucore infetto e trasparenza opaca, in questa ostensione impossibile del viso insieme schermo di rifrazione-riflessione e pittura proiettata, lanciata, sgocciolante, che diventa vero frame-arresto, cuneo-chiodo passionale e vertiginoso che incide sullo scorrimento della pellicola stavolta davvero intesa come “derma”).
Nelle “proiezioni” di questo esercizio spirituale tutto concentrato sulla pars, il volto sembra, infatti, ostinato, conservare una sua consistenza dura, compatta, cucita di tela a maglie larghe, che insinua nell’ostensione fantasmatica della verità il sospetto del materico, l’eresia dell’immanente, del touchable, e quindi di uno sguardo che mentre guarda tocca, sfiora, fino alla vertigine abiurata del calpestamento.
È questo, di fatto, il fumi-e, classe di immagini (-e) fatte per essere calpestate (fumi, camminare sopra), soprattutto di pietra – per la sua durezza, ma anche di legno o dipinte, appunto, in una scala delle azioni da compiere sull’immagine che termina con il piede[1] (batallianamente parte del corpo imparentata con le radici e il bassofondo, glorioso, dell’esistenza), in un gesto quanto mai ritualizzato dove è il fool – rinnegatore seriale (corpo assolutamente kurosawiano) a offrire il corpo (temprato dall’abitudine data dalla ripetizione risibile del medesimo gesto) deputato a “di-mostrare” agli altri. A mostrare cosa? Il passaggio, in un certo senso, dalla contemplazione allucinata di una presenza cristiana, alla cancellazione del segno zen: calpestare significa infatti coprire con il piede l’immagine sacra (via via sempre più quasi teneramente scancellata) e quindi sostituire all’anima cristiana che anela il vuoto dell’anima zen, religione senza dio basata sull’enunciato opaco e la ripetizione[2], che trasforma le convulsioni del martire in aneddoto (si veda il movimento, puramente significante, di “sollevare una gamba e abbassare il piede” che l’inquisitore raccomanda ai cristiani scoperti[3]) per trovare, invece di Dio, il nulla, ma attraverso un accidente banale, procedendo dall’ Einfühlung all’Abstraktion.
Volto Santo che, nella visione febbrile di Padre Rodriguez, in una sovraimpressione impossibile, finisce allora per rimandare non ad un aldilà, ma a un aldiqua assoluto, che ricorda al gesuita non il Cristo dei sinottici, ma quello di Jean Paul e del “Discorso sul Cristo morto” dove il Figlio, impegnato in una vertiginosa ricerca del Padre, ammette di non averlo incontrato: «e quando il mio sguardo si fissò verso il mondo infinito il mondo mi fissò con un’orbita vuota e sfondata»[4], sfondata cioè rotta, spaccata produzione di un taglio, di un foro (come la virgola risibile, fra collo e orecchio, della tortura del pozzo, come uno dei buchi dei Concetti spaziali dedicati alla “Fine di Dio” di Lucio Fontana) da cui sibila il Silence del film, silenzio di Dio certo e in realtà saturo del rumore ottuso (della foresta, delle acque) delle cose minime che lo stream della materia trascina a un passo dall’insignificanza. Quindi più che direzione unica troveremmo qui, forse, una torsione essenziale del cammino, dalla fede al silenzio, dal pieno al vuoto? È quello che, in un certo senso, mettono in dubbio sia il lapsus (circostanza completamente accidentale-fatale) di Padre Ferranda (“Nostro Signore”, si lascia sfuggire mentre cerca monili cristiani abilmente nascosti fra gli oggetti dei mercanti) che il vertiginoso movimento in avanti (sorta di prosecuzione fino alle vertigini della prossimità di quello della traversata) che conduce (come le impossibili traiettorie fuori-dentro la Panic Room di Fincher) al corpo ripiegato dentro al feretro buddhista e alla mano leggermente schiusa che ci svela come il padre apostata tenga nascosto ancora in mano il piccolo crocifisso, segno povero e minimo, realizzando la profezia di Eliot: «l’esplorazione conduce al punto di partenza, al Silenzio fra un’onda e l’altra del mare, qui, ora, sempre»[5].
In effetti Padre Rodriguez aveva si cancellato anche lui l’immagine –fumi (il significante inizia sempre, infatti, dal cancellare la traccia) ma facendo come il Robinson Crusoe di Lacan che non cancella semplicemente la traccia del piede di Venerdì, ma mette al suo posto, “come minimo”, una croce, una barra su cui poggia un’altra barra: il significante “specifico” come qualcosa che può essere cancellato e che al contempo, nella stessa operazione di cancellazione sussiste come tale: «con la barra io annullo questo significante e nello stesso tempo lo perpetuo»[6].
[1] E che inizia con la mano. La mano di San Luca che stringe fra pollice e indice il pennello a punta fine con il quale dipinge la Vergine (ad esempio in Van der Weyden), non è il rovesciamento del piede ricolmo di fango con il quale i kirishitan calpestano l’icona e, in un certo senso, la pitturano con la traccia residuale della materia bassa, organica, vischiosa di quella “palude” che è il Giappone per i gesuiti?
[2] Come spiega Barthes, L’impero dei sensi, tr. it., Einaudi, Torino 1984, pp. 80-88.
[3] Si tratta di un vero happening zen, che, come spiega Cortázar, impone un «Universo apparentemente demencial […] unico modo de abrir el ojo spiritual del discipulo y revelarle la verdad. Esa violenta irracionalidad le parecia natural, en el sentido que abolia las estructuras que constituyen la especialidad del Occidente, los ejes donde pivota el emtendimiento historico del hombre y que tienen en el pensamento discursivo su instrumento de eleccion», in J. Cortázar, Rayuela, Alfaguara, 2013, p. 599.
[4] J. Paul, Il discorso del Cristo morto e altri sogni, Milano, Ricci ed 1977, pag. 30.
[5] T.S. Eliot, I quattro quartetti, “Little Gidding”, tr. it., Garzanti, Milano 1982, pag. 81
[6] J. Lacan, Il Seminari. Libro VI, “Il Desiderio”, tr. it., Einaudi, Torino 2016, p. 91.