Sidney Pollack. L’umanesimo intensificato
di Vittorio Giacci
Ci sono due modi di fare film: si può fare un film su quello che si sa e che si ha bisogno di far sapere. Oppure si può fare un film su quello che non si sa e che si ha bisogno di sapere. Io sono per il secondo.
E’ il piacere stesso di dirigere che mi risolve tutti i dubbi, sia culturali che tecnici.
In Sidney Pollack, autore tra i più sensibili e attenti del nuovo cinema americano, è sempre possibile rintracciare, pur nella (apparente) discontinuità della sua articolata filmografia, un costante senso di inquietudine, di minaccia e di paura che rende tutti i suoi film emblematici riflessi di una società attraversata da profonde contraddizioni ma anche da affascinanti rivisitazioni del grande cinema americano classico (“I problemi di cui parlano i miei film – ha detto Pollack – sono stati influenzati dal cinema americano, soprattutto dal cinema degli anni Trenta e Quaranta. (…) Tutti i film di gangster, i grandi melodrammi anti-realisti, sono cose con le quali la mia generazione è cresciuta”), da La vita corre sul filo, sorta di “giallo” problematico a sfondo razziale, a Questa ragazza è di tutti (che si avvale della sceneggiatura di Francis F. Coppola), storia di incomprensione e di solitudine ai tempi della “Grande Crisi”, a Joe Bass l’implacabile, un western già atipico, uno dei primi esempi di rinnovamento del genere.
Dopo aver collaborato alla regia per Un uomo a nudo (1967) di Frank Perry, acuta e simbolica analisi delle disillusioni di un uomo che adombrano quelle di una società, nel 1969 gira Ardenne ‘44, un inferno, dove, in una cornice da film bellico, si sviluppa un insolito ed originale discorso sul tema della conservazione della cultura e delle opere d’arte in situazioni drammaticamente contingenti come quelle, appunto, di una guerra.
Pollack realizza poi nel 1971 Non si uccidono così anche i cavalli?, tratto da un romanzo di Horace McCoy, uno dei più rappresentativi, ma anche meno noti scrittori della “letteratura della crisi”, insieme a James Cain e a John O’Hara, in cui è più presente una forte allegoria sociale. Affrontando il tragico periodo della depressione del ’29, quando la lotta per la sopravvivenza metaforizzata in un’estenuante maratona di danza, simbolo crudele della nascente “società dello spettacolo”, che riesce a trasformare in merce anche il dolore, prendeva gli aspetti di un’assurda gara, il film assume i toni di un’amara e lucida disamina di un mondo e di una mentalità fondate sulla legge di un’esasperata competitività individuale, che non era un aspetto limitato a un determinato periodo storico, ma la componente caratteristica e costante della società americana.
Nel 1972 Pollack gira Corvo rosso non avrai il mio scalpo, profondo momento lirico su temi tradizionalmente cari alla cultura nordamericana quali il rifiuto della civiltà urbana e il ritorno alla natura incontaminata, l’immersione nei grandi spazi come scelta di matura individualità.
In Come eravamo, Pollack si riallaccia agli anni seguenti il periodo riproposto in Non si uccidono così anche i cavalli?, rappresentando una vicenda che si sviluppa dal 1937 fino ai primi anni Cinquanta, per includervi il New Deal e gli anni precedenti la seconda guerra mondiale, l’inizio del conflitto, l’immediato dopoguerra, il maccartismo e la “caccia alle streghe”, l’inizio dell’era di Eisenhower e delle prime esplosioni nucleari. Un film contemplativo in cui la consapevolezza dell’autore si ammorbidiva in una commossa partecipazione emotiva, e l’aspirazione al ripensamento critico si stempera in una crepuscolare tenerezza che avvolge la vicenda e le figure umane che la recitano/vivono, facendo emergere sempre più questa sua particolare inclinazione dello sguardo che attraversa tutta l’opera successiva, da Yakuza, esemplare trattato sul dolore e sulla ineluttabilità degli eventi che va ben al di là della contingente ambientazione (l’organizzazione gangsteristica orientale di cui mette in scena i rituali in un’atmosfera di esoterica confraternita), a Tootsie, sulle costrizioni dell’identità sessuale, alle esercitazioni sul “poliziesco” di Destini incrociati e The Interpreter a Frank Gehry – creatore di sogni, un documentario sull’architetto Gehry, artista umanista capace di cambiare il mondo con i suoi sogni, passando per film di struggente emotività come La mia Africa e Un attimo, una vita, sulla relazione amore/morte a lui così cara, senza dimenticare il dolce omaggio ad un mondo mitico spazzato via dalla pubblicità de Il cavaliere elettrico, ai problemi esistenziali posti dalle prevaricazioni della politica e dello spionaggio (I tre giorni del Condor), dei mass media(Diritto di cronaca) e della finanza (Il socio),o come la sottile rivisitazione di un cult del cinema americano classico, Sabrina.
Spicca poi un’opera come Havana, uno dei film più coraggiosi del cinema statunitense, certamente il più libero, come lo sanno essere quelli più ostinatamente voluti dai loro autori, “magnifiche ossessioni” ravvivate dalla sola convinzione che nel Cinema conti, quella di compiersi, appunto, non per dire ma per conoscere.
In questa Casablanca ripercorsa dalla trascendenza, in questo Sipario strappato riletto alla luce della fine delle ideologie (“vuoi cambiare il mondo? – dice il protagonista alla donna che ama – comincia a cambiare me”), Pollack inscrive così la dolcissima metafora di un’ascesi compiuta nella coscienza di focalizzarsi sull’Individuo rispetto al Collettivo e che il mondo lo si cambia veramente solo con l’Amore.
L’interesse di Pollack è rivolto essenzialmente ai problemi esistenziali connessi alla difficoltà o all’impossibilità dell’uomo di inserirsi nell’ambiente, sia esso quello storico o contemporaneo, naturale o sociale, sviluppando un discorso che si ricollega sempre al presente e subisce in pieno il fascino/condizionamento del paese in cui vive. Come osserva giustamente Franco La Polla, “Pollack non cerca verità politiche, ottiche granitiche da proporre a uno spettatore che ne sa quanto lui. La verità che ha da comunicare riguarda la condizione del singolo, la sua desolata battaglia contro il mondo”[1].
Questa è la cifra che lo fa essere controcorrente senza rinunciare allo spettacolo e ai codici narrativi tradizionali. Pollack non urla, non provoca, non aggredisce, non costruisce “opere a tesi” e non rovescia i codici del linguaggio cinematografico, piuttosto li ribalta in maniera sottile, rimodellandoli al suo interno, impercettibilmente ma sensibilmente, ricorrendo alla modalità dell’ “approccio obliquo” e del “metodo allusivo della parabola”. “Prendere una forma tradizionale di racconto – afferma il regista – e trasformarla dall’interno, senza tentare di violentarla, è quello che ho sempre fatto”.
Pollack è un umanista, forse il più umanista tra i registi americani della sua generazione, e il suo è un umanesimo “intensificato”, accresciuto cioè nell’emotività e ravvivato da un languido struggimento. Nella sua diegesi ogni azione non esiste in quanto tale, ma si intreccia indissolubilmente con i sentimenti di disincanto, di amarezza, di precarietà affettiva che colpisce ogni suo personaggio, e i suoi film, in tal modo, si trasformano in accorate iperboli dell’impasse, in sommesse allegorie della défaillance, in pietose romances sul senso di non riuscita e di mancato riscatto, di fallimento morale e di perdita di scopo, di identità mancate. “La sua tenerezza sfiora quella di Truffaut nell’idea di eterna infanzia che ci fa essere quel che siamo” (La Polla), nella provvisorietà dei rapporti e nella caducità dei sentimenti.
Tema centrale dell’intera opera pollackiana è il concetto di tempo, figura circolare che ritorna inesorabilmente su sé stessa, struttura di eterni ritorni che ne impedisce lo scorrere lineare, spazio curvo entro cui ogni azione è circoscritta e dove “gli eventi accadono non secondo il modello della continuità ma secondo quello dell’iterazione” (…), una lunga linea il cui inizio coincide sempre on la sua fine (…), “un tempo senza progresso che non riesce a diventare Storia”(ancora La Polla).
Questa suggestione che il tempo sia “ciclico” (“Non facciamo che girare in tondo” – dichiara l’autore) ha per conseguenza che il grado della narrazione, espresso nelle tecniche della circolarità delle riprese e dall’uso delle dissolvenze incrociate, si orienti a descrivere spazi chiusi e avvenimenti compromessi dall’ineluttabilità del destino, colpe del passato che condizionano il presente, amori pregiudicati dalla ciclicità degli eventi, imprevisti che riemergono dalla memoria di ciò che è irreparabilmente accaduto. Il tempo ci ricorda che il passato è esistito, che è incancellabile ed è presente in noi, con effetti sulla nostra quotidianità, sui nostri affetti, sui nostri amori, che lo fanno in tal modo avvicinare, oltre le specifiche differenze, ad autori come Ophüls e Siodmak.
“Avremmo dovuto conoscerci in circostanze diverse”, dice Inga già in La vita corre sul filo, il suo primo film. “Vorrei saperne di più, di quello che era ieri, di quello che è oggi” le fa eco Kathy in I tre giorni del Condor, in una sorprendete contuiguità tematicache attraversa la sua stessa filmografia, significativamente costruita su personaggi già definiti fin dall’inizio e su opere nei cui incipit ne è già riassunto il senso globale, a testimoniare di un sincera e sofferta esperienza di introspezione esistenziale ed autoriale di un grande maestro di umanesimo quale è Sidney Pollack.
[1] Cfr. Franco La Polla, Sidney Pollack, Il Castoro, La Nuova Italia, Firenze 1978.
