Serhij Loznytsja: in attesa di Babij Jar. Kontekst
di Sergio Arecco
“Il film è un teorema che deve arrivare al suo punto finale”. Così Serhij Loznytsja, bielorusso per nascita, ucraino per adozione (si veda Maydan, dal nome della grande piazza di Kiev ove ebbe luogo il primo storico raduno contro il regime di Janukovyc), è un documentarista per vocazione – e lo confermano le limitate, insoddisfacenti incursioni nella fiction. Per esempio, il punto finale di Paesaggio (Pejzah, 2003, colore) è effettivamente coerente, nel teorema che occupa, con il punto iniziale. Ed è sì, in quanto interno a un teorema, compreso tra un assioma – l’immagine fissa (per lunghi secondi) del paesino di Okulovka, nel distretto di Novgorod, contemplata da lontano, da dietro le siepi ingiallite dall’inverno, con un paio di cuspidi a segnalare la presenza di un abitato – e un corollario – l’immagine di un albero spoglio, contemplato ancora da lontano, sopra un crinale, in una luce rossastra che potrebbe essere serotina come albale. Ma tutto il resto, vale a dire i 55’ sostanziali dell’esercizio di scrittura, è affidato alla visuale soggettiva di uno… spazzaneve – chiamiamo così i bruschi salti di rullo. Proprio così. La neve abbonda nel villaggio, sui tetti delle dacie e delle baracche di legno come sui bordi delle strade non asfaltate, in parte sgombre del manto nevoso ma coperte da quello strato di fanghiglia sudicia sul quale si devono avventurare i paesani per raggiungere il punto stabilito da Loznytsja, il ‘punto di raccolta’ o di ‘concentramento’, nel cuore per così dire commerciale di Okulovka, ove s’intravede qualche insegna di negozio o comunque di attività (la farmacia).
È lì il punto finale suggerito dal cineasta, verso il quale sono state chiamate a convergere centinaia di persone, perlopiù anziane (c’è solo qualche giovane che beve birra e fuma, più qualche bambino), perché si assembrassero, giungendo alla spicciolata, un po’ alla volta, onde costituire, alla fine, in una moltitudine in attesa – nella fiction del film, un’attesa che dura dal 12° al 55° minuto – degli autobus che la condurranno… Dove? All’interno di uno di essi si riesce a leggere, sopra il cruscotto dove gli autisti di solito appongono la targhetta bianca con la scritta del capolinea, la stazione di partenza, Okulovka appunto, ma non il nome della destinazione. La folla, sulle prime, sembra dare per scontato un ritardo dei mezzi di trasporto e aspetta paziente, chiacchierando – Loznytsja mette la sordina alle parole, le usa solo come brusio sonoro, sottofondo acustico, concomitante con il guaito di qualche cane o il rombo del motore di qualche automobile o motocicletta di passaggio. Fino che, quando finalmente i mezzi arrivano (quattro), la folla abdica a ogni pacifica tolleranza e si accalca impaziente sui predellini, come se temesse di non trovar posto, come se partire fosse per una necessità inderogabile, vitale.
Per dove? Moltissimi non hanno né bagagli né sporte, quasi tutti sono a mani vuote, mani saggiamente infilate nelle tasche dei giubbotti o dei cappotti (le donne) per proteggerle dal freddo intenso, così come, per proteggere il capo dal freddo, indossano colbacchi o berretti di lana (al 33° minuto della fiction inizia pure a nevicare, prima qualche batuffolo, poi un fitto nevischio). I personaggi – delle specie più varie, da chi indossa pellicce a chi indossa felpe logore – non sono dei coatti, come potrebbe far ipotizzare in primo luogo la loro rassegnazione e in secondo luogo la loro concitazione intesa all’occupazione dei posti migliori. Altrimenti, si potrebbe dedurne, sempre per via di teorema, la circostanza di un’evacuazione forzata, se non addirittura di una deportazione – deduzione subito smentita dalla totale assenza, sul posto, della forza pubblica, quale elemento convogliatore del flusso. Perché di flusso si tratta, nello spessore visivo e semantico di un ipertesto tipo Paesaggio: di un’astratta teoresi per immagini sulla genesi fisica dei flussi, su come possono strutturarsi e coesistere, su come possono condensarsi e sciogliersi; di un’analisi retorica della loro fenomenologia e della loro matematica.
Già nel corto La fermata del treno o L’attesa (Poselennja, 2001, sonoro ma non parlato), Loznytsja condensa, sullo sfondo di una stazioncina senza nome (nominata solo, quale set, nelle didascalie di coda: Malaja Višera, Russia nordoccidentale), lo scenario sonoro e fisico, fisso e mobile al tempo stesso, di passeggeri frustrati dall’attesa, imbacuccati per il freddo, reclini sulle panche, dormienti di un sonno all’apparenza invincibile: una sorta di olismo fenomenologico, per una riflessione in termini grammaticali sulla durata, sui pieni e sui vuoti (l’horror vacui), sulla complementarità di luce e ombra, sul movimento come stasi e sulla stasi come movimento – almeno cinque o sei passeggeri accennano a spostare un braccio, a riposizionare il capo vacillante, a flettere un arto, addirittura a svegliarsi per riaddormentarsi subito dopo. E, il tutto, già filmato a stacchi – il taglio tranciante da sinistra a destra che abbiamo pittorescamente definito a ‘spazzaneve’, e che ora potremmo più correttamente definire ‘paratattico’, come se un rullo si esaurisse e, dopo una tranche di schermo nero, si potesse ricominciare con un altro rullo, e da tutt’altra angolazione, secondo un’idea di stratificazione della visione: su un campo trasformativo la cui dinamica appare come bloccata, e la statica, dialetticamente, come in fermentazione.
Mentre, nel successivo corto Ritratto (Portret, 2002, sonoro ma non parlato), Loznytsja applica la sua nozione di astrazione a un campo trasformativo in cui la stasi – la messa in posa di decine e decine di contadini ritratti in b/n su sfondi georgici, in tre serie distinte – si alterna al flusso spaziotemporale – due serie in b/n di paesaggi in travelling da sinistra a destra –, inteso a quella progressiva, lentissima ma inesorabile scoperta del genius loci (qui l’acustica del vento, dei versi degli uccelli, del murmure del fiume, sposata alla veduta di orizzonti campestri una volta tanto rigogliosi e operosi) che connoterà Paesaggio. La cui paratassi, in perenne rituale alternanza, prima di onorare l’appuntamento con il centinaio di partenti presso la stazione degli autobus, si permette, per i primi 12’, di carrellare in piano-sequenza – interrotto da 5 stacchi talmente bruschi da mutare la prospettiva visuale – su una brulla periferia innevata, certo punteggiata di dacie e di casolari con comignoli fumanti (nonché antenne televisive), eppure apparentemente disabitata, o abitata da un vacuum che solo l’horror vacui susseguente s’incaricherà di colmare.
Dopodiché, quando, sempre in Paesaggio, gli toccherà mettere a fuoco i volti degli aspiranti viaggiatori, e dovrà stringere sempre più sulle loro eterogenee fisionomie, la paratassi di Loznytsja finirà per renderle ancora più eterogenee, in quanto non si soffermerà mai sul medesimo gruppo – il mediometraggio è ovviamente girato in più giornate e su più set – e mai insisterà su un singolo personaggio. Tanto che, a seguito della lenta approssimazione a una durata ormai vertiginosa – stacchi sempre più rapidi, quasi impercettibili –, esso finirà per configurare altri assembramenti, altri gruppi umani, moltiplicando il centinaio iniziale per due, per tre, per cinque, fin quasi a coprire, sempre a livello di teorema, il numero di abitanti di Okulovka, piccolo nucleo rurale che ne conta alcune migliaia. Per questo si sono usate parole forti e arrischiate come evacuazione e deportazione. Tra l’altro, alcuni di coloro che sono saliti sugli autobus, magari dovendo adattarsi a restare in piedi, lanciano gesti di saluto attraverso i finestrini, come se partissero per sempre. Verso chi i loro gesti, se la mdp di Loznytsja ha fatto, dopo il plenum, nuovamente il vacuum, e, come per darcene la conferma, inquadra, lungo la strada tornata disabitata, un unico contadino solitario che trascina a fatica, in mezzo alla guazza, una bicicletta carica di sacchi.
Esercizio manieristico? Nel lungo Austerlitz (2017) Loznytsja mimerà le macro-sequenze di Paesaggio addirittura con una candid camera, e con un b/n anonimo, spento e denotativo, a ribadire l’anonimato di una folla aggregatasi, come per una coazione a ripetere, in un punto di concentramento collettivo – che solo accidentalmente, nell’ottica ‘indifferente’ di Loznitsa, è, in Austerlitz (2016), il campo di ‘concentramento’ di Sachsenhause (Berlino) trasformato dal governo tedesco in una sorta di museo-parco sulle deportazioni naziste: al punto che i visitatori sembrano concepirlo più come la meta di una scampagnata che come la meta di un pellegrinaggio. No. Sia per il medio Paesaggio sia per il lungo Austerlitz sarebbe davvero improprio parlare di esercizio manieristico. Come sarebbe altrettanto improprio definire manieristico il lungo successivo, Victory Day (2018), qualificato dall’identico topos della folla-moltitudine, ammassata nella circostanza presso il Treptower Park di Berlino per il Memorial dei caduti in guerra sovietici. Loznytsja, nel suo far coincidere paesaggio umano coatto e paesaggio naturale coatto, non fa altro che personificare in essere una condizione d’inappartenenza, di permanente stato d’assedio.
Non s’intitola forse Assedio (Blokada, 2006) il medio esattamente speculare al medio Paesaggio? Dove l’assedio è, in ragione di un’antonomasia tutta russa, lo storico assedio di Leningrado (1941-1945, 871 giorni, un milione e mezzo di morti). Per evocare il quale Loznytsja, privilegia, rovistando nel raro (lo Stato sovietico minimizzò di proposito la portata storica dell’episodio, proprio perché episodio di eroismo quotidiano di popolo e non retoricamente di Stato) materiale d’archivio messogli a disposizione – tra cui i filmati del grande reporter, di regime ma di talento, Roman Karmen; lo stesso farà con Funerali di stato, sulla morte di Stalin, 2019 –, le scene di calca indistinta, magari a ridosso di sfilate di lerci prigionieri o di lerci spacci alimentari. Come se l’assedio fosse un cronotopo, un’interconnessione astratta di rapporti spaziotemporali tuttora vigente.
Loznytsja – ripetiamolo: documentarista doc – sa sapientemente ricostruire, con raro materiale d’archivio, eventi storici come appunto l’assedio di Leningrado, epopea resistenziale rivelatasi da sempre impraticabile per la fiction, prima a dispetto di Sergio Leone, poi di Giuseppe Tornatore); i processi farsa orditi da Stalin; la deportazione di massa nel corso della Seconda guerra mondiale; la transizione sovietica dalla stagione della dittatura del proletariato alla stagione del disgelo: con i rispettivi Assedio (2005), Rivista (Predstavlennija, 2008), Processo (Process, 2018) e con il magnifico Storia naturale della distruzione (The Natural History of Destruction, 2022), il lungo plasmato per intero con materiali di propaganda della Seconda guerra mondiale e presentato al festival UnArchive – Found Footage Fest di Roma. Ma si tratta di documentari privi per scelta di qualsiasi commento sonoro, anche musicale, forti della sola forza delle immagini e della loro ratio dialettica: una riformulazione del cronotopo in senso per così dire astrale, rarefatta, sublimata – il found footage dell’ultimo. Il Serhij Loznytsja grande cineasta diventa così il Serhij Loznytsja di documentari deliberatamente muti e concepiti in forma sì di teorema, ma di teorema inteso come stasi-estasi matematiche fondate sulla pura astrazione. Dove l’e-stasi sta per movimento perlopiù circolare, ritornante su se stesso e sui suoi stessi presupposti, che sono in gran parte i presupposti contemplativi della realtà povera, dimessa, ignorata della Russia profonda, preferibilmente contadina.
Tanto che diventa azzardato, a proposito di un Loznytsja, stabilire un qualsiasi confronto stilistico con un Aleksandr Sokurov, il quale, delle anime nella nebbia (un titolo fiction di Loznytsja), delle atmosfere brumose e ovattate, degli ectoplasmi, ha fatto un paradigma estetico, un sillogismo personale. Sokurov, non a caso, con ogni sua elegija, pur di carattere documentario, resta sempre un drammaturgo, un diarista introspettivo, un raffinato manipolatore dell’interlocuzione sia con se stesso sia con l’altro: in sostanza un affabulatore lirico, uno che del piano-sequenza fa una ratio esplorativa, uno sconfinamento solo apparente, in qualche modo contenibile. Loznytsja è invece uno sconfinante senza limiti, uno che articola il proprio teorema ma ne trascura l’indispensabile corollario, uno che non affabula perché non parla, mai, muto come i suoi film. Uno che lascia parlare, oltre che le immagini – sempre essenzializzate e radicalizzate, a rischio della dis-immaginazione – i suoni della natura: l’abbaiare dei cani come il muggire delle vacche, il mormorare dei fiumi come il frusciare delle foglie, oppure sì, lascia parlare le voci umane ma non la sua, e sempre in sottofondo, unicamente come coro indistinto, inudibile, mero brusio sonoro, al quale provvede sistematicamente a mettere la sordina, come in Paesaggio (2003).
In Lettera (Pismo, b/n, 35 mm), l’ovatta di Loznytsja non è un’ovatta sokuroviana, è una sfocatura perpetua di cose e persone immerse, al meglio, in una sorta di “collina incantata”, un luogo d’accoglienza per ‘matti’ non agitati, se mai atoni e silenziosi, dove è meglio, fotograficamente meglio, che si aggirino come ombre e fantasmi, partecipi di una comunità di assenti al mondo e presenti solo alle infermiere in camice bianco – ulteriore elemento di depurazione o decantazione – e ai semplici compiti lavorativi, rilassanti, con i quali i degenti vengono intrattenuti, ovvero tenuti sia intra muros, dove i muri sono i semplici muri di un ostello-casolare con la porta sempre aperta sugli scalini d’ingresso, sia extra muros, vale a dire in comunione con gli slarghi e i sentieri che volgono verso il bosco e probabilmente verso il paese vicino. Lettera è girato a Oksochi, nel distretto di Novgorod (Russia nordoccidentale), poco lontano da Okulovka, il villaggio dove è stato girato dieci anni prima, a colori e interamente in piano-sequenza, Paesaggio: location prescelta dal cineasta proprio per quelle qualità che egli, nel paesaggio rurale, aspira a individuare, magari dietro o grazie al velo delle brume o dellanforeste o delle nevi, ossia astralità, remotezza, cronotopia al massimo grado di purezza.
E Lettera si compone, in quanto teorema, di 10 istantanee dilatate nello spazio e nel tempo, la cui dilatazione giustifica in qualche modo la sfocatura perenne, estenuata. 1. lenzuola bianche messe fuori dalle donne a prender aria. 2. carretto per il fieno, e ospiti dell’asilo lungo il sentiero d’accesso. 3. prelievo del fieno dal carretto nel frattempo ritornato carico, suo spargimento da parte di infermiere e ricoverati. 4. rientro del carretto per il medesimo sentiero. 5. relax con la vacca in carico alla casa, sotto le finestre della cucina. 6. uscita e passeggio dei ricoverati. 7. inoltro pomeridiano per la strada e i sentieri. 8. panchina davanti a casa. 9. due ricoverati, uno più ‘matto’, uno meno, su uno spiazzo erboso, dove un altro matto suona la fisarmonica. 10. collina tra le nebbie, a imperfetto sigillo del teorema, il cui postulato figurativo è consistito nell’habitus della medesima collina, utilizzato come istantanea introduttiva ma da altra angolazione.
Ebbene, non è la prima volta che Loznytsja sceglie l’asilo psichiatrico per configurare un mondo a parte, un microcosmo di ‘alienati’ non tanto nel cervello quanto nella posizione di retroguardia che occupano in confronto a un mondo più densamente abitato, a un’ecumene più densamente popolosa. E Lettera – videolettera senza parole, alla maniera delle videolettere con parole di Chantal Akerman o di Robert Kramer o dello stesso Sokurov? – potrebbe, da qualcuno, essere interpretato come un sommario, magari postumo, del ben più lungo, un lungometraggio, Insediamento (2002), al cui più altisonante titolo corrisponde una struttura narrativa più ambiziosa, di piena acquisizione all’immaginario del diverso o del reietto. E, in effetti, le istantanee 3, 5, 6, 8 di Lettera suonerebbero come estratti di altrettanti segmenti più elaborati di Insediamento. Il quale Insediamento (Koloniya) non ‘gode’ tuttavia dell’aura nebulosa in cui vengono magicamente immersi il piccolo insediamento o la piccola colonia di Lettera, in altri termini non ‘gode’ dello straordinario potenziale di concentrazione straniante di icone visualizzate, nella loro inesorabile serialità, come altrettante macchie solari d’incandescente bellezza e, per quanto le sfocature dicano il contrario, di esemplare nettezza.
Tra l’altro, l’istantanea 9 di Lettera, quella del ‘matto’ un po’ più matto degli altri – che in quanto tale si permette di fare il buffone guardando in macchina, scambiandosi il berretto con quello del vicino – non è che la sintesi burlona, e perciò tanto più efficace, della lunga serie di ritratti finali di Insediamento, più lunga in ragione della lunghezza del film (77’), e coeva a sua volta a un altro piccolo teorema, Ritratto (2002), che del ritratto fa per l’appunto, e non solo per ragioni eponime, il proprio noema. 11 + 16 + 13: questo l’algoritmo delle istantanee dei contadini di Ritratto, ora singoli, ora in coppia (maschile o femminile o maschile/femminile), messi in posa da Loznytsja sullo sfondo delle opere agricole, in piedi o seduti, spesso inquadrati con forconi o rastrelli, oppure in momentaneo riposo. È un algoritmo imperfetto, anche se la somma dà un numero tondo, 40, così come è imperfetto il tempo d’alternanza con le istantanee più o meno dilatate del paesaggio, raggruppate in due serie, la prima compresa nell’intervallo tra 11 e 16 e la seconda compresa nell’intervallo tra 16 e 23. Dove sta allora la perfezione a cui dice di tendere Loznytsja quando parla di teorema necessitante di un “punto finale”? Sta, in Ritratto, nel corteo delle vacche, testo astratto dall’ipertesto, sospese nella bruma come se volassero, alla Chagall. In Lettera, nel corteo degli abeti padroni della foresta, testo astratto dall’ipertesto, sospesi nella bruma come se volassero. La perfezione sta insomma nell’imperfezione dell’anello che non tiene, nella mancata perimetrazione del confine.