Robert Altman
Lo stupore della forma. Il rigore della dissacrazione
di Vittorio Giacci
Non credo che si possa fare un’opera d’arte di qualsiasi genere senza riflettere la società contemporanea e quello che sta accadendo attorno a noi e nel mondo intero. Ogni film è politico e ogni artista è responsabile verso l’intera società.
Robert Altman
Robert Altman è stato uno degli ultimi cantori di un America in crisi, un poeta dal carattere anticonformista e dallo spirito dissacrante, un cineasta ribelle fino all’utopia, nella malinconia consapevolezza che il mito non era più.
Nato a Kansas City (Missouri) da una famiglia borghese (il padre assicuratore, la madre discendente dei primi coloni), entra presto nel mondo dello spettacolo, con radiodrammi e soggetti di film, poi con documentari industriali. Prima di approdare al cinema professionale, Altman realizza diverse serie televisive, fra cui quelle fortunate di Alfred Hitchcock presenta e di Bonanza, che gli permettono di maturare una grande esperienza del mezzo. Dopo i primi, interessanti film in cui già si vede chiaramente il marchio d’autore, come Conto alla rovescia e Quel freddo giorno nel parco, ottiene il primo importante riconoscimento internazionale con M.A.S.H., Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1970, una graffiante satira antimilitarista sulla guerra in Vietnam che aprirà la strada a tanto cinema sull’argomento.
Fra il 1970 e il 1975, anno in cui realizza il suo film più famoso, Nashville, straordinario affresco corale con 24 storie di altrettanti co-protagonisti che si intrecciano sullo sfondo della “country-music” la cui capitale storica dà il titolo al film, Altman realizza film che riflettono impietosamente sulle diverse sfaccettature del mito americano; descritto ed analizzato attraverso i “generi” più tipici, dal “western” alla “commedia”, dal “nero” alla “gangster story”. Sono opere coraggiose e sincere realizzate con piena maturità espressiva, da Anche Gli Uccelli Uccidono a I Compari, da Images a Il Lungo Addio, da Gang a California Poker, da Un Matrimonio a Tre Donne, ma che purtroppo non trovano adeguata risposta nel pubblico che non le premia come avrebbe dovuto costringendo il regista, intorno agli Anni Ottanta, a lasciare temporaneamente il cinema per dedicarsi a produzioni teatrali a basso costo.
Questa fase viene fortunatamente superata da una rinascita, negli Anni Novanta, del suo cinema, con pellicole di successo, sia di pubblico che di critica, da I protagonisti a Gosford Park in cui, riprendendo la costruzione “corale” di Nashville, sviluppa una storia a 48 personaggi; fino al suo ultimo Radio America.
Raggiunto ormai l’apice della notorietà e della piena maturità espressiva, a Robert Altman viene assegnato, sempre nel 2006, un meritato Oscar alla carriera che dopo anni di vicissitudini, insuccessi, amarezze, viene a riconoscere le qualità cinematografiche di questo cineasta, la cui immagine di gentiluomo del Sud, di lucido intellettuale e di anarchico solitario viene finalmente accettata come coerente testimonianza di un esponente fra i più autorevoli, con Martin Scorsese, Peter Bogdanovich, John Cassavetes, di quel Nuovo Cinema Americano che, alla fine degli Anni Sessanta, ha rinnovato dal profondo quella cinematografia e, con esso, tutto il cinema mondiale.
Con il rigore della sua coerenza morale; la forza incorruttibile del suo sentirsi autore contro le ragioni del denaro e del mercato; lo stupore della forma di un cinema impegnato a rinnovarsi nei contenuti come nello stile, Altman ci lascia un patrimonio prezioso di opere che sono già dei classici, come “classico” era già il suo sguardo, imbevuto di cinema italiano e di Neorealismo, il suo cinema preferito.
L’incontro
Nel 1979 Robert Altman era all’apice del successo e della notorietà. Aveva già realizzato i film che lo avevano reso famoso ed era considerato, soprattutto in Europa, un cineasta fra i più sensibili ed impegnati. Grazie a lui ed alle sue opere, il Nuovo Cinema Americano dava prova di democraticità ma insegnava anche che la correttezza ideologica non poteva essere disgiunta dai valori formali e drammaturgici. Ho provato una forte emozione quando Filippo De Luigi, regista del programma Alle prese con: cinema e televisione di cui ero co-autore e consulente, mi disse che saremmo andati ad intervistarlo. Complici Catherine Grellet e Stefania Casini che ci facevano da coordinatrici degli incontri ed efficientissime interpreti, lo incontrammo a Los Angeles presso gli uffici della sua società, la Lyon’s Gate. Sapendo che era nativo di Kansas City ed avendo ancora negli occhi le immagini vibranti di Nashville, pensavo di imbattermi in un regista dal look tipicamente yankee. Mi trovai di fronte invece a un signore elegante e sobrio, in cui era presente una forte componente occidentale, derivante sicuramente dalle origini tedesche del padre e da quelle inglesi della madre. Un gentleman, affabilmente distaccato ma anche incuriosito dal fatto che degli italiani lo avesse cercato non tanto per parlare del suo cinema quanto della relazione cinema/televisione, questione per lui risolta da tempo e talmente scontata da non richiedere tutta quella attenzione. Stava montando Quintet, una delle sue opere più sperimentali interpretata da un cast straordinario e cosmopolita, in gran parte europeo: oltre a Paul Newman, vi partecipavano infatti lo spagnolo Fernando Rey, la francese Brigitte Fossey, la svedese Bibi Andersson, l’italiano Vittorio Gassman. L’argomento del film, un gioco perverso (il Quintet appunto) che aveva per posta la vita dei partecipanti in una società del futuro) poteva evocare gli aspetti più tipici della televisione, quei “reality show” che avrebbero imperversato -e lo fanno tuttora- sui piccoli schermi di tutto il modo. Negli Anni Settanta il tema però era scottante, specialmente in Italia dove la totalità degli autori cinematografici, con la isolata eccezione di Rossellini, era contraria a priori a collaborazioni con la tv, temendo di perdere la propria libertà espressiva e compromettere ogni possibilità di approfondimento culturale. Si temeva, in altre parole, che dal cinema si dovesse inevitabilmente passare ad una realtà mass-mediologica che avrebbe inglobato tutto in un indifferenziato e massificato universo mediatico tale da far sparire la peculiarità stessa del film, la sua natura di “prototipo”. Noi pensavamo invece che cinema e televisione non dovessero farsi la guerra ma trovare forme di integrazione, in quanto parti di un medesimo sistema audiovisivo e ciò proprio per evitare di far soccombere la parte più debole e più qualificante, il cinema. La filmografia di Altman, iniziata dall’esperienza opposta, dalla tv al cinema, contraddiceva l’impostazione italiana e dimostrava che dalla televisione si potevano trarre vantaggi.
Pur sostenendo la diversità autoriale del cinema rispetto alla televisione, dominata e controllata dalla pubblicità, riconosceva l’importanza e l’utilità per un regista di lavorare per la televisione.
“La mia esperienza con la televisione? Credo di aver girato circa duecento ore di programmi televisivi – ci disse – e penso che il mio cinema non sia mai stato influenzato dalla tv ma anche di aver imparato molto da essa come strumento di lavoro. Ho imparato soprattutto a lavorare velocemente. Non potendo provare a lungo finché una scena non andasse bene, ho dovuto imparare anche a modificarla e questo mi ha fatto acquisire una grande esperienza tecnica. La televisione – ha aggiunto – può essere una buona scuola per i giovani registi: è come costruire un grattacielo per chi ha iniziato costruendo casette. In tv si impara ad usare gli strumenti del proprio lavoro”.
La chiarezza della sua esposizione e la serenità dei suoi giudizi, provenienti tra l’altro da un ambiente come quello statunitense dove la televisione non è un servizio pubblico ma una entità commerciale, ci convinse che la strada da battere fosse proprio quella, e cioè che il cinema non dovesse ritenere la televisione un nemico ma un alleato, pena la sua subordinazione. La testimonianza di Altman fu preziosa anche perché proveniva da un cineasta libero, di indiscusso valore culturale e indipendente ma restò inascoltata ed oggi, dove non esiste film in cui non sia previsto un finanziamento televisivo, in forma di coproduzione o di acquisto del diritto antenna) e il cinema, per non averlo capito, occupa un ruolo minoritario e di dipendenza verso il partner televisivo, fu profetica.