Rimontare la storia. Un brano delle Histoire(s)
di Giovanni Festa
Nella parte 4a delle Histoire(s) di Godard c’è una sequenza emblematica che monta insieme una figura femminile di Goya; Cathy O’Donnel in La donna del Bandito di Nick Ray in un piano americano tremante, che emerge dal fondo scuro come una figura di Caravaggio; Marfa de La linea generale di Ejzenštejn e, in sovraimpressione due mani consumate dal lavoro; il primo piano di una donna anziana che piange; il pope dell’Ivan il Terribile con il suo volto impenetrabile; un rilievo preromanico di legno assai usurato per il tempo (più che la rappresentazione dei tratti di una madre con bambino rivela la sua relazione di parentela con un objet trouvé incontrato su una spiaggia deserta dopo una tormenta, magari su quella, bretone, di Epstein, dove giungevano le piccole meraviglie delle navi naufragate o la spiaggia di Cautiva, dove Robert Rauschenberg, obbedendo al richiamo del terzo capitolo dell’Ulisse joyciano -che si chiama Proteo-, cercava reperti per i suoi Combine: “Stephen chiuse gli occhi per sentire le sue scarpe schiacciare scricchiolanti marami e conchiglie… Mi avvio all’eternità lungo la spiaggia di Sandymount? Crasc, crac, cric, criic”); il busto del San Giuliano l’ospitaliere di Piero della Francesca, con il suo elegante mantello rosso e la chioma dorata (anche questa di Piero è, in fondo, una “rovina”: staccata malamente dalla parete, il resto della figura è andata quasi del tutto perduta); il cacciatore dei primordi disteso e con il pene eretto, dettaglio della scena dipinta sulla grotta paleolitica di Lascaux che Emilio Villa certificò subito, con occhio infallibile, come sacrificale, e che ossessionò Georges Bataille ne L’Erotismo e in Una storia dell’occhio; ultima, la foto di un uomo che giace in mezzo alla strada, riverso, ferito a morte da un colpo di pistola. Cosa si nasconde dietro questa lunga durata di gesti sofferti? dietro questa cartografia del pathos? dietro questo campo di conflitti dove un gesto umano (del desiderio, della cura, dell’abbandono nella morte) sorge e si afferma, prima di scomparire?
Una sequenza come questa, forse per le immagini ejzenstejniane -l’autore probabilmente più presente all’interno dell’Atlante delle Histoire(s)-, fa venire alla mente, inevitabilmente, il montaggio estatico-patetico di Ottobre che mostrava proprio con una “rovina”, la statua dello zar, che veniva poi ricomposta sulla “tavola” anatomico-magica e dialettica del montaggio delle collisioni e che culminava con la celeberrima processione degli dei.
Entrambi, Godard ed Ejzenštejn, decidono di sviluppare un concetto attraverso l’ausilio di immagini fisse: se Ejzenštejn crea un montaggio “intellettuale” dove l’idea di Dio si contrae e si apre soggetta a forze di carattere sacrificale, Godard sembra preferire una modulazione di forze più discreta, però forse ancora più complessa e assai meno programmatica. All’inizio nella sequenza godardiana si assiste ad una tensione verso il basso e allo spegnersi delle forze, quasi un clinamen dalle immagini femminili che mostrano l’evocazione di un tempo effimero, fugace, transitorio (le differenti “età della vita”; la transizione dei sentimenti, che passano dal desiderio della giovinezza alla malinconia dell’età tarda), fino al volto di legno consunto della maternità pre-romanica. Altrettanto interessante è la tensione concentrata sui tratti del viso: Marfa che sorride, ideologicamente aprendosi al nuovo, in un’immagine che si oppone alle forze del passato incarnate dalla maschera del pope dell’Ivan, e dal volto smangiato dal tempo dell’idolo di legno. La prima parte della sequenza si potrebbe forse intendere come una serie di frammenti (tutti al femminile) che si riferiscono alla caducità del tempo e alle affezioni dell’anima: la voce over, quando si sovrappone alle immagini del desiderio di Goya e Ray recita “la giovane… è presente quando l’abbiamo spogliata, quando il suo busto sodo trema al battito del nostro desiderio” e quando passa a “commentare” quelle di Marfa (il cui volto, precocemente invecchiato, è segnato dalla fatica) e della donna anziana aggiunge “è presente poi, quando il suo volto si è riempito di rughe e le sue mani secche ci dicono che non guarda rancore alla vita per averle arrecato danno”.
Godard trasforma il poema barocco ejzenstenjano sulla relatività del concetto di dio in una riflessione amara, che ricorda il libro biblico dell’Ecclesiaste, con il suo monito sulla vanitas di tutte le cose. Nello stesso tempo questa consumazione dell’immagine non ci fa pensare anche ad una aspirazione all’essenzialità e ad un essere emancipato dalla logica della carne (il rilievo pre-romanico dopo il busto di Goya e la “donna del bandito”)?
Simultaneamente nella sequenza è presente un movimento che utilizza un altro ritmo, un contro-ritmo, del tutto opposto, che muove verso l’alto: dal frammento di legno dell’idolo si passa all’affresco di Piero, dove il paradigma geometrico-luminoso assimila e comprende le immagini transeunti del mondo nella legge dei solidi regolari. Poi, la testa del santo “buca” la superficie della roccia dove si trova la silhouette dell’ominide di Lascaux, morto – vivo, eterno rinato grazie all’aspersione che fuoriesce dal ventre aperto dell’animale mentre la voce over, di nuovo, commenta: “come se la sua silhouette già grigia potesse tornare ad apparire, in questo medesimo luogo”; segue l’uomo ucciso a bruciapelo nella Spagna della guerra civile. Il montaggio sacrificale di Ejzenštejn sembra, per un attimo folgorante, fare ritorno: in Sciopero il sangue del bue precipitava idealmente più in là del rigido e del tutto virtuale confine stabilito dall’inquadratura (margine che proprio il regista sovietico aveva iniziato a guardare con sospetto: pensiamo al suo “cine-pugno”, alla prefigurazione di una terza dimensione sonoro-tattile, oltre all’idea di un protoplasma incontenibile e originario che abita la vita delle forme) non solo per stabilire un legame metaforico fra la morte dell’animale e quella del popolo per mano della polizia zarista, ma soprattutto per fare del simbolo arcaico dell’aspersione del sangue un movente e agente “laico” di resurrezione; attraverso il passaggio “dentro” la morte e il negativo, la Rivoluzione. In Godard, invece, non si dà nessun movimento dialettico e sintetico (se non, al massimo, quello negativo di cui parla Bataille definendolo negatività senza uso, irrecuperabile nell’operazione della sintesi dialettica); in Godard non c´è nessuna rivoluzione che non sia quella delle immagini e del loro montaggio sintomale, con una voce over resnaisiana e robbe-grilletiana che recita “per sempre in un passato di marmo, come queste statue, questo giardino intagliato nella pietra, questo stesso hotel, con le sue sale adesso deserte, i suoi personaggi immobili, muti, morti, senza dubbio da lungo tempo”.
Da un montaggio che assorbe le differenze in una sintesi o fusione, passiamo ad una irriducibile esaltazione della differenza, e ad un concetto di storia inteso come caduta o catastrofe. La relazione fra le immagini, che in Ejzenštejn era conflitto fertile propedeutico alla rivoluzione delle forme e dei corpi, si apre ad un movimento di differenziazione infinita che “fa storia”, e apre ad uno spazio di immagini.
Godard, le sue Histoire(s) (e questa sequenza in particolare), esprimono quello che Benjamin chiamava “carattere distruttore”, caratterizzato per una diffidenza insuperabile verso il corso delle cose e l’ansia di constatare ad ogni istante che tutto può complicarsi. Godard non è forse colui che, benjaminianamente, sapendo che nulla è duraturo, vede percorsi ovunque? Non è colui che, dove gli altri cozzano contro muraglie, scorge, ancora, un sentiero, e, grazie all’ausilio di una forza “più nobile della semplice violenza”, si trova sempre davanti ad un crocicchio di vie? E ad esprimere e narrare questo crocicchio, ossia questa simultaneità di possibili eterogenei, non è forse il montaggio? Che non sceglie ma mostra, in una simultaneità sovraimpressa e sontuosa, in un gesto che è insieme gioco del bambino baudelairiano e profezia dell’angelo, una quantità interminabile di possibilità simultanee che, in quantità incalcolabili, si estendono e proliferano?