(ri)comporre il cielo
di Edoardo Mariani
UNE VAGUE IDÉE
«Dopo alcune ore di sonno, il padre sogna che il bambino è accanto al suo letto, lo prende per un braccio e gli bisbiglia rimproverandolo: “Babbo, non vedi che brucio?” Si sveglia, e nota una luce chiara che proviene dalla camera…»[1].
Questo sogno, fatto da un anonimo, viene inserito da Sigmund Freud come l’ultimo sogno del suo lungo testo sull’analisi dei sogni. Sembra ricordare la condizione dello spettatore “giovane d’oggi”, nato e cresciuto con un cinema già dell’universo e della ricerca della qualità (e mai della felicità, tanto meno di una certa verità), la visione in alta qualità di un’arte veridica. Ma cosa c’è di perfetto se quando il sogno è finito tutto torna come prima: nulla quindi potrà mai cambiare?
La capacità di immaginare è quindi quello strumento che abbiamo noi tutti per interpretare la realtà, e per donare un senso a tutte le cose che percepiamo e integriamo nella memoria come parte di noi. Siamo stati fortunati ad aver avuto la possibilità di veder rivivere oggetti e paesaggi, donne e uomini, dentro uno schermo che mentre lo si ammira si colora delle immagini del tempo. E per questo ci sembra che proprio il tempo non stia passando, abbiamo forse l’illusione di vivere noi dentro un film, ma noi siamo svegli, mentre sono proprio quelle visioni a dormire profondamente. Lasciandoci attivare sarà la nostra personale storia a immaginare nuove idee e sarà così che risveglieremo quelle anime di corpi che abitano nel mistero dell’arte cinematografica: la poesia del vedere, la pittura dello spazio, la musica delle immagini, l’anima dei colori, il cielo e i fiori. Gli occhi tuoi.
ADIEU
Le idee. Un mondo personale spiegato dalle parole.
Le mie. Le sue. Le loro.
Come se fosse un “addio al linguaggio”.
«In quelle foto di mia madre c’era sempre un posto riservato, preservato: la chiarezza dei suoi occhi […] era solo una luminosità tutta fisica, la traccia fotografica d’un colore, il blu-verde delle sue pupille»[2].
Foto. Gramma. Cine. Mamma.
Credevamo di poter (ri)splendere quanto lo fanno occhi quando si illuminano commossi da una visione. Invece abbiamo incominciato a credere in qualcosa. Ci eravamo immaginati completamente vestiti nel luogo dove credevamo di essere stati dati al mondo, e ci siamo ritrovati nudi, spogliati di tutto, sotto la pioggia di una doccia tiepida. Abbiamo (ri)considerato il movimento che hanno i ricordi nella mente quando ritornano alla luce, che è il senso stesso del narrare, e ci siamo sentiti cadere in un lontano vortice conico che, come in un girone infernale, ci lasciava roteare liberi in ogni direzione, chiusi in un suo preciso e matematico centro.
E se la realtà di questi giorni volesse darci la possibilità di guardarci tutti da vicino, per renderci conto realmente di chi potremmo essere? Allora staremmo sbagliando, il cinema deve rendersi capace di aiutarci tutti, di essere la nostra storia e le nostre lezioni di storia privata. Dobbiamo svegliare quel padre da quel sonno profondo prima di sentirci bruciare. Possiamo riuscire a non soffrire solo sapendo di poter guardare l’altro? Riusciremo a (ri)prendere uno spazio senza tempo?
STORIE(S)
«Un’immagine non è forte in quanto brutale o fantastica ma perché la solidarietà delle idee è lontana e giusta»[3].
Godard tra gli episodi delle Histoire(s) descrivendo il destino del cinema dice: «Esso è un figlio che non è cresciuto, un figlio castrato dal potere del padre. È un bambino cui i genitori hanno sempre impedito di diventare adulto».
Godard lascia spazio soprattutto alla sola realtà, la difficile verità fermata in simulacri: volti straziati, uccisi, accanto a sguardi fieri e solitari di personalità forti e potenti.
Charlie Chaplin si trasforma nel volto di Hitler, la fotografia del ghetto di Varsavia, la voce di discorsi politici di Malraux. Legge gli appunti sul cinema e sulla la realtà di Robert Bresson, trascrive colorati i nomi dei vincitori accanto a quelli dei colpevoli, trasforma sé stesso (cioè la foto del suo volto) in un viandante che da lontano somiglia a Van Gogh (Studio per un ritratto di Van Gogh di Francis Bacon), e scompare poi in una rosa bianca dopo aver detto: «Io sono quell’uomo».
SOGNO
Incamminarsi in un’avventura significa sfidare sé stessi e incontrare l’ignoto, combattere con le proprie paure e imbattersi nei propri limiti, catalizzando ogni energia verso la scoperta della “verità” scarabocchiata in dei segni che, come monete antiche in fondo ad una fontana, rimangono fermi nel tempo e vivi nel punto in cui sono caduti la prima volta. Nelle Histoire(s) du Cinéma ogni linguaggio è «presenza», ogni “poesia” sulla vita è immagine della storia, ogni immaginario dell’artista è la visione di una traccia lasciata al passaggio di «un’oggetto o di un essere»[4] che ci guida e ci insegna a «vedere solo ciò che può essere visto (non detto, non scritto)»[5].
[1] Sigmund Freud, S. Freud, Die Traumdeutung, 1899; tr. it. L’interpretazione dei sogni, Boringhieri, Torino 1993, p. 462
[2] Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, p.68
[3] Una frase che proviene dal pensiero (considerato pre-surrealista) di Pierre Reverdy.
Godard usa questa espressione già in Passion, detta da una voce maschile fuori campo, poi la ripete lui stesso in Scénario du film Passion, e ancora verso la fine delle sue Histoire(s): sulle immagini di JLG/JLG Autoportrait de Décembre (1994, JLG/JLG Autoritratto di Dicembre) si ode la sua voce che con queste parole spiega il metodo di associare idee e immagini come portatori di un senso comune, lasciando al pensiero il compito di raggiungerlo.
[4] A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, Éditions du Cerf, Parigi 1958; tr. it. Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1996, p. 162.
[5] J.L. Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, PGreco, Milano 2012, p. 78 (appunti scritti di Godard).