Quei Due di Wilma Labate
QUEI DUE. EDDA E GALEAZZO CIANO IL DESTINO É IL BUIO.
di Alessandro Cappabianca
Inesorabile, il bianco e nero della fucilazione. Inesorabile e terribile, accaduto per sempre, immodificabile. Galeazzo Ciano e gli altri condannati a morte nel processo di Verona, costretti sulle sedie, vengono fucilati, e due preti si incaricano di chiudere i loro occhi, in fretta, come se fosse la cosa più importante. E forse era tale, ma più per i fucilatori che per i fucilati. La sentenza va eseguita subito. I fucilati ci guardano, i loro occhi chiedono perché. Gli aguzzini non possono sopportare il loro riflesso abbacinante. Non a caso è questa la prassi d’ogni esecuzione, il colpo di grazia, la chiusura degli occhi.
Da bambino, credevo che il colpo di grazia significasse il perdono, la salvezza, poi mi spiegarono che non era così. Non era comunque un gesto di pietà, a meno di non ammettere l’esistenza d’una pietà che uccide, d’una pietà assassina. Ma allora bisognerebbe anche ammettere che il lavoro, uccidendo, rende liberi.
Nel documentario di Wilma Labate (co-sceneggiato con Beppe Attene), la voce off di Simone Liberati (Galeazzo) intanto recita le proprie disposizioni testamentarie, lascia a Edda la maggior parte dei propri beni, chiede di essere sepolto nella tomba di famiglia a Livorno, accanto al padre Costanzo. Scorrono altre immagini in bianco e nero, di ebrei rastrellati, uomini, donne, bambini. La macchina dell’orrore si sta mettendo in moto, ed è un moto inarrestabile, di fronte al quale le considerazioni “moderate” di Galeazzo sembrano ridicole: meglio non prendersela con gli ebrei in quanto tali – dice -, anzi, “presi in piccole dosi” possono perfino essere utili, come il lievito per il pane. Edda (Silvia d’Amico) è d’accordo, tanto più che era stata innamorata di un ebreo giovane, simpatico e bello ma non aveva avuto la forza di opporsi alle furibonde scenate del padre, scandalizzato al solo pensiero d’una cosa simile.
I bambini ariani corrono compatti verso il mare, oppure si radunano in coreografie a formare la parola DUX o la parola REX. Il trio Lescano canta il Pinguino Innamorato, mentre Edda rievoca gli schiaffoni di sua madre, la morale sessuale rigida che le inculcava, simile del resto a quella di Benito. Il viaggio di nozze in Cina mise Edda a contatto con una civiltà evoluta, molto più tollerante e liberale, a quei tempi, di quanto non fosse l’Europa.
La famiglia Mussolini era una famiglia proletaria, in fondo, di matrice socialista, con una mentalità diversa da quella alto-borghese dei Ciano. Ma era veramente fascista Galeazzo? Intendeva davvero tradire suo suocero, aprire la strada al re, a Badoglio, al crollo del regime? Era un traditore? Si considerava tale? Assolutamente no. Si considerava, anzi, il più fedele dei fascisti, il più lungimirante, circondato da una brigata di fanatici dell’ultima ora, rosi dall’invidia.
Come accade spesso nella storia italiana, il tragico sfiora il ridicolo. Ridicolo è il cappello a cilindro portato sulla divisa militare. Ridicolo il tentato scambio di vite con un diario che dovrebbe contenere chissà quali rivelazioni. Galeazzo, a differenza di Edda, non si fa più illusioni. Capisce, finalmente, che Benito Mussolini si camuffa da eroe con la vita degli altri, sacrifica se non i figli, il genero, ma così, indirettamente, anche sua figlia. Quei due vedono il loro destino, ne parlano, a volte rabbiosi, a volte rassegnati, illuminando reciprocamente i loro volti e i loro corpi alla luce di fioche lampadine elettriche, che la fotografia di Daniele Ciprì fa in modo sembrino sempre sul punto di spegnersi.
La Resistenza trionfa, le strade si riempiono di uomini in armi, ma il film di Wilma Labate si chiude col ritorno della sequenza iniziale, quella della fucilazione. Il destino è il buio.