Quei due. Conversazione con Wilma Labate.
a cura di Bruno Roberti e Daniela Turco
Non è un fatto nuovo per Wilma Labate occuparsi di Storia, la sua è infatti una scelta spesso ripetuta, che la porta a far entrare nel suo lavoro i materiali d’archivio, intesi come una presenza viva con cui dialogare e su cui focalizzare con passione la propria ricerca. Nel 1998 per realizzare “Lavorare stanca”, che faceva parte di Alfabeto italiano, progetto a più voci cui avevano partecipato diversi registi tra cui Marco Bellocchio, Mario Martone, Gianni Amelio, Salvatore Piscicelli, e altri, Wilma Labate dopo l’inventario e la selezione dei materiali nell’archivio della Cineteca Rai li aveva ricomposti sul tema, per lei essenziale e politico del lavoro, e, segnatamente, del lavoro all’interno della fabbrica. Più di recente, per il suo intenso, struggente Arrivederci Saigon (2018), documentario sulle tracce di un gruppo soul di ragazze toscane, che nel 1968, tutte ancora minorenni, avevano fatto, in piena guerra, una tournée in Vietnam, insieme alla commovente riunione tardiva della band Le Stars, era stato l’impressionante lavoro di selezione e di montaggio condotto su materiali stupefacenti e mai visti, scovati un po’ dappertutto negli archivi internazionali, a dare al film, senso e spessore.
Per Quei due, trasmesso di recente da RaiTre, Wilma Labate si è ancora rivolta all’archivio dell’Istituto Luce come vasta miniera in cui inventariare i materiali da far reagire con le nuove riprese, tutte realizzate all’interno di un grande teatro di posa di Cinecittà, il luogo in cui si attua la messa in scena, nello stesso tempo straniata e crudamente autentica delle scene da un matrimonio di due fantasmi della Storia, alquanto controversi: Edda Mussolini e Galeazzo Ciano. Da questo laboratorio/incontro spiazzante fra elementi e “passi” diversi, fra il bianco e nero dei filmati d’epoca e le riprese finzionali a colori, fra i corpi degli attori, Silvia D’Amico e Simone Liberati che interpretano, dentro e fuori dal tempo, Edda e Galeazzo, e i dettagli sofisticati delle scenografie di Valeria Zamagni – che riprendono con la giusta distanza, linee e forme del movimento Valori Plastici -, deriva la struttura seducente e ibrida di questo film continuamente sorprendente e in divenire, che non vuole essere né un documentario né un film di finzione, ma aprire la strada a una sperimentazione nuova, emozionante per la sua presa critica sulla Storia, osservata e letta attraverso la lente di una storia privata. Quei due, scritto da Wilma Labate e Beppe Attene, che avevano già collaborato per Alfabeto italiano, per costruire i dialoghi tra i due coniugi, prende direttamente spunto dai diari di Galeazzo Ciano, dal 1937 al 1943, e da alcune interviste rilasciate molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale da Edda Mussolini. Questa scelta rigorosa e anti-romanzesca di aderire il più possibile a fatti e parole realmente pronunciate o scritte, senza inventare nulla su “quei due”, sospinge la coppia Mussolini-Ciano/D’Amico-Liberati, coinvolti nel dialogo tra passato e presente, che fa anche comparire la presenza straniante di cellulari e computer, a confrontarsi ancora di più sia con la realtà della loro storia, pubblica e privata, sia con gli avvenimenti drammatici della Storia che hanno determinato la Seconda Guerra mondiale.
Ma è soprattutto il set del film a funzionare come centro catalizzatore e a prendersi in modo determinante la scena, che coincide con il grande teatro di Cinecittà, dove a un certo punto entra meta-narrativamente anche il tavolo intorno al quale la regista, con i suoi attori stanno lavorando al film, inclusa la presenza dei ciak e dei microfoni, che con altri elementi del set, precipitano in un unico flusso narrativo, discontinuo e per questo elettrizzante, nell’avvicendarsi tumultuoso dei filmati d’epoca con i dialoghi – e i monologhi – tra Edda e Galeazzo, che avvengono negli allestimenti di ambienti ritagliati nel set, fatti di pochi elementi – una poltrona, una lampada, un motivo di tappezzeria, un tavolo -, dettagli scarni, stilizzati senza alcun intento di ricostruzione, ma volti, se mai, a de-costruire la storia di “quei due” dentro la Storia, per provare, sulle tracce del pensiero di Walter Benjamin, a passare entrambe in contropelo.
Per questo, Quei due è stretto tra le medesime, durissime immagini, difficili da sostenere, della fucilazione di Galeazzo Ciano e degli altri, dopo il processo di Verona, che aprono e tornano a chiudere il film in un unico cerchio di morte, e sempre per questo entrano con un peso e una pietas infinita, le immagini del cancello di Auschwitz e dell’intero complesso del campo di concentramento ripreso dall’alto. Wilma Labate, con la forza e la ragione di un giudizio storico ormai definitivamente acquisito, vuole con questo film mostrare (e non dimostrare), attraverso il ritmo serrato del montaggio con cui si va componendo diritto e rovescio di una stessa storia dove il personale è già immediatamente politico, quale realmente è stato e come si è prodotto quel percorso di sangue e di morte che comincia a prendere corpo e a farsi intravvedere attraverso la storia di Edda e Galeazzo, che ne sono stati testimoni e spettatori, per poi definirsi sempre di più e andare oltre, dall’ascesa di Hitler, al patto d’acciaio, all’inarrestabile folle corsa agli armamenti fino a giungere al baratro della seconda guerra mondiale.
Oggi, in un paese come il nostro sempre largamente tentato dal revisionismo e dalle ombre mai definitivamente sconfitte di un fascismo con cui non sono mai stati fatti i conti nel profondo e che, quindi, come un fantasma revenant, può sempre, ancora, ritornare, magari sotto altre forme, meno eclatanti e più quotidiane – quelle che fanno più paura -, un film determinato e rigoroso come Quei due può aiutare a comprendere, soprattutto i più giovani, dall’interno e da vicino, per i fatti di allora, e cosa più importante, per comprendere anche quelli di oggi e di domani, che cosa il fascismo sia veramente stato. (d.t.)
Nel tuo film Quei due, al cui centro c’è la coppia formata da Edda Mussolini e Galeazzo Ciano, c’è una frase di Edda che, citando il Duce, dice: “I morti non raccontano la Storia”. Tu, invece, hai fatto un film in cui i morti raccontano la Storia…La prima immagine del film che è anche l’ultima, e cioè la fucilazione di Galeazzo Ciano e di altri, mi ha fatto pensare a Giorni di gloria, alla parte girata da Visconti sul processo a Caruso, a Koch, e alla fucilazione del prefetto…E quindi c’è nel film questa idea fantasmatica, cioè dei fantasmi, che sono anche dei fantasmi della Storia, che tu fai parlare, ma nel momento in cui tu fai questo, inserisci all’interno della struttura drammaturgica un secondo livello, che è lo sguardo del cinema. Lo sguardo del cinema e lo sguardo sul cinema…il cinema è una presenza che lavora molto all’interno del film…Cinema come macchina…
Sì, cinema come macchina… ma c’è anche un po’il racconto del cinema…
Sì c’è il racconto, oltre alla messa in abisso del set. Questa costruzione che è in fieri, dove il film sembra ricostruire la Storia e nello stesso tempo costruirsi…Lo sguardo tuo sulla Storia, su “quei due”, che è uno sguardo spostato, sembra continuamente ri-mediarsi, c’è infatti una ri-mediazione dei materiali. Ecco, questa cosa c’era già nel progetto, oppure, quanto il lavoro sul set ha spinto questa idea?
Credo che l’abbia spinta tanto… Io avevo a disposizione tre cose: i testi del diario di Galeazzo Ciano, perché niente di quello che c’è nel film è stato inventato, o scritto dopo, ma c’è stato solo un lavoro di selezione molto significativo sui testi del diario. Poi avevo anche a disposizione una lunga intervista che Edda aveva fatto con Nicola Caracciolo molti anni fa di cui non esistevano più le immagini perché si era deteriorata la pellicola, mentre il sonoro era rimasto intatto.
Che età aveva Edda all’epoca dell’intervista?
Mah, avrà avuto cinquantacinque, sessant’anni, forse…insomma, una donna adulta ma non ancora anziana, con una memoria di ferro per quanto riguarda il suo racconto, che entra nei dettagli, compresi quelli minimi…Poi avevo a disposizione due attori giovani, e che ho scelto giovani apposta. Perché nelle immagini di repertorio, i due protagonisti sembrano avere un’età più matura, ma in realtà avevano venticinque, ventisei anni…Edda che guida come una pazza a Shangai con la pelliccia di visone, aveva poco più di vent’anni… Era giovane…
E poi, terzo elemento, avevo un teatro di Cinecittà, dentro cui avevo già lavorato una volta, avevo girato lì La mia generazione. E quindi, sapevo come quel teatro potesse essere magico, un grande, immenso teatro dove mi potevo sbizzarrire. Va anche aggiunto che era un momento tristissimo della mia vita, come lo è anche ora, e quindi avevo un atteggiamento più libero, perché quando non hai niente da perdere, sei più libero, non hai nessun pudore, di nessun genere. Né remore, né paure. In più avevo del materiale che non avevo ancora visto completamente, anche se avevo capito da quella piccola parte già visionata, che era meraviglioso.
Ma era un materiale già selezionato da altri…
No, non ancora, di quel materiale avevo visto solo la fucilazione e ricordo di aver detto che il film sarebbe iniziato così, con la fucilazione.
Sì è un materiale molto duro e angosciante: si vede avvenire una morte reale…
Sì, è molto angosciante, vedi delle morte reali, non finte.
Per questo parlavo prima di Giorni di gloria, in cui analogamente si vede la fucilazione del prefetto…La fucilazione iniziale, che tu hai usato, è molto forte perché si sente molto questo colpo che abbatte…
Sì lo si sente come se lo si subisse. L’unica idea con cui sono partita per girare è stata: “ Mi giro tutte le prove”, pensando con un pizzico di presunzione a Vanya sulla 42° strada di Malle, tratto da Cechov…Quindi, l’idea era “Mi giro tutte le prove”, anche perché era necessario, dopo aver fatto già molte prove, che mettessi gli attori davanti alla macchina da presa, in modo che loro si mettessero a loro agio con un testo piuttosto difficile. Simone Liberati, che interpreta Galeazzo Ciano, ha ventinove anni, Silvia D’Amico che interpreta Edda ne ha trentatré…Tra l’altro, malgrado avessimo fatto tante prove, io volevo anche che loro sentissero l’atmosfera del teatro. Ed ero sicura che quelle prove, mi sarebbero poi servite in montaggio, ne ero proprio certa…Per cui ho speso tantissimo tempo nelle prove – per ritornare al tema del non aver niente da perdere – perché la produzione mi diceva, invece, di sbrigarmi, a cui io rispondevo che volevo fare con calma, che c’era tempo…
Nel film a un certo punto compare un tavolo interno al quale siete seduti tu e i tuoi attori, con i ciak a vista, e si tratta di un momento molto intenso, nel senso che compare in un punto cruciale del film, quando cioè attraverso le immagini di archivio si sente montare la guerra. La guerra reale da un lato e dall’altro quella metaforica, del cinema, sentito, appunto, come guerra. Era Samuel Fuller ad aver definito il cinema così in Pierrot le fou di JL Godard “ il cinema è come un campo di battaglia, amore, odio, azione, violenza, morte, in una parola, emozione” . In questa sequenza che rivela il set, è un po’ come se tu indicassi tutti gli elementi in campo: la Storia, la guerra e il cinema come strumento per vedere, e vedere di più.
Sì, infatti. L’altra cosa che avevo deciso prima ancora di iniziare le riprese è la contaminazione, e anche lì avevo un atteggiamento molto tranquillo, mentre la scenografa e la costumista erano impazzite, perché non capivano come fare. Allora io ho spiegato loro che cosa intendevo fare, in modo molto semplice, la mia idea era quella di far indossare agli attori dei costumi d’epoca, sì, ma solo nella parte superiore, fino alla vita, dalla vita in giù avrebbero invece indossato i loro abiti contemporanei. Nelle scene, analogamente, si trova un lume contemporaneo posato su un mobile d’epoca, e accanto a una poltrona d’epoca va collocato un oggetto contemporaneo. Questo per me era molto chiaro, tutto andava “sporcato”, e quello che non dovevo fare era la “ricostruzione”.
Tu parli di contaminazione, ma io indicherei il tuo rapporto con la Storia in una chiave molto affascinante, anacronica. Pensa ad esempio a Noi credevamo di Mario Martone, dove analogamente si fa uso dell’anacronia, in certe sequenze in cui si vede ad esempio la presenza del cemento armato nelle costruzioni, nei piloni, ecc…
Nel tuo film ci si trova davanti a una scelta molto forte, etica e poetica, perché dal punto di vista poetico tu vedi come questi due attori diventano Edda e Galeazzo e come entrano ed escono continuamente dai due personaggi che interpretano, quindi brechtianamente, senza però raggiungere una distanziazione fredda, perché il tuo è anche un film molto caldo
In che senso è molto caldo?
Bè, ho trovato anche nel loro rapporto, di Silvia D’Amico e di Simone Liberati, un feeling e delle contraddizioni che sono il feeling e le contraddizioni di Edda e Galeazzo, non c’è una distanza…
No, non c’è, poi loro paradossalmente sono modernissimi…
Questa anacronia comunque ritorna anche nella scelta dei materiali, perché tu fai vedere la Callas che canta molti anni dopo, mostri Totò mentre gira con Rossellini Dov’è la libertà; la libertà, appunto di usare il repertorio e la Storia come se fosse qualcosa che si interseca continuamente con il presente, dove la Storia non è data, ma è continuamente presente e anche le contraddizioni della Storia sono continuamente presenti. In questo senso c’è un momento molto emozionante, quando nel film c’è il 25 luglio, e tu hai già svelato questo grande teatro di posa, poi si ritornerà su questo progressivo svelamento del set…
Ecco sì, lo svelamento del set è stato progressivo, avviene piano piano…
Sì, e tu racconti il 25 luglio in questo modo crudo, tremendo, con Galeazzo che chiede a Edda di ucciderlo…ecco, in quel momento, non c’è una ricostruzione di quello che si sono detti, ma passa un’emozione forte, veicolata dai due attori che in quel momento sono molto coinvolti…
Sì, loro si sono identificati moltissimo e in quel momento c’è un’adesione totale alla situazione. Pensate che la segretaria di edizione, l’aiuto regista, ma un po’ tutti, ogni tanto mi dicevano: “Quando si immedesimano molto nel ruolo, si sente nelle loro voci un piccolo accento romano” e io gli rispondevo “ Ma, meno male!”. Loro erano sbalorditi, ma per me l’accento romano era perfetto, perché sentivo che così era meglio, erano molto più autentici…
Sì, perché tu metti in scena in maniera molto leale rispetto allo spettatore, due attori giovani che assorbono quelle battute e le fanno diventare vive, in questo senso nel film c’è un rapporto teatro/cinema molto forte, e quindi li fai entrare e uscire da quei personaggi ed è questo a creare emozione…
Sì, il senso è infatti quello di entrare e uscire, da quei personaggi…
La sera in cui hai presentato il tuo film al Festival del Tertio Millennio, dove tra l’altro Quei due ha vinto il premio della critica come miglior film, Marina Piperno che l’ha introdotto, ne ha parlato come di un film che l’aveva emozionata ed entusiasmata. Mi trovo completamente d’accordo con lei, anche perché nel tuo film c’è un lavoro sull’archivio straordinariamente vivo, nel senso che tu mostri attraverso il tuo film che la Storia non è qualche cosa di consolidato, di morto e di definitivo, ma è qualcosa che va continuamente riaperta e reinterrogata e le interpellazioni continue, insistite sia di Edda e di Galeazzo, sono interpellazioni dirette allo spettatore…
Ma perché il concetto che piano piano è venuto fuori in modo chiaro mentre lavoravo al film è che con la Storia ci devi parlare, perché se non ci parli e ne acquisisci le nozioni, non c’è un rapporto con la Storia e con la memoria, la mummifichi, la metti dentro una scatola, e questo è assurdo. La Storia deve essere in un continuo dialogo con te quando la osservi, quando la leggi, quando la studi, quando la scrivi o la racconti, perché solo così diventa Storia. Per questo, anche, le continue contaminazioni, le continue uscite, e a un certo punto, anche considerando il teatro di Cinecittà come un palcoscenico, ho cominciato a chiedere di mettere in mezzo ora una scala, ora un attaccapanni, a metterci sopra un cappello, perché è come se lì dentro non ci fosse niente di schematico, o di preconcetto…E allora che cos’è quella cosa che ho fatto? Francamente non la saprei definire, non so neppure se fa parte di un “genere”…
A me sembra un lavoro molto sperimentale, infatti, e molto emozionante proprio perché sperimentale, dove c’è un uso dell’archivio di stampo foucaultiano, qualcosa che si continua a riaprire, indicando una nuova strada. Mi ha molto colpito il fatto che all’inizio del film tu mostri il cancello e il campo di Auschwitz ripreso dall’alto.
Questo metodo che tu hai trovato sul campo, nel film fa venire fuori le contraddizioni della storia che sono poi anche le contraddizioni dei personaggi. Galeazzo che prima imita il Duce e che alla fine dice che era un pazzo, il rapporto di Edda con Hitler, le differenze di carattere tra i due… Si parlava prima di interpellazione e se c’è una cosa che nel film è molto sottolineata è la presenza degli sguardi in macchina, sia degli attori che interpretano i personaggi, ma non solo; tu hai scelto anche dei filmati in cui spessissimo ci sono degli sguardi in macchina…
Sì, perfino Hemingway, guarda in macchina… e Rachele…
Ma ci sono parecchi altri momenti, e lo sguardo in macchina è un invito allo spettatore a entrare nel gioco.
Sì, ma ho un dubbio…Secondo voi lo spettatore come lo vive un lavoro del genere, come lo vede: si annoia, cambia canale, si diverte, si emoziona un po’…
…ma l’hai detto tu stessa, lo vive…In qualche modo lo spettatore vive quei momenti di Storia, si sente interpellato nel momento in cui segue un racconto attraverso l’emozione dei personaggi. Edda e Galeazzo ad esempio parlano l’una del carattere dell’altro, c’è un rispecchiarsi, lei viene filmata davanti allo specchio e tutto questo fa pensare in termini di mise en scène a quanto ci si trovi lontani sia da un documentario storico, sia dal così detto cinema del reale…è una sperimentazione…
Probabilmente sì, anche perché io non avevo mai fatto prima una cosa così, anzi, all’inizio non ero nemmeno d’accordo…Ecco, ritorniamo per un momento al fatto del non aver niente da perdere. A me non piacciono le docu-fiction, quelle poche che ho visto, mi fanno orrore, quindi quando mi hanno proposto il film, io ho detto chiaramente che non volevo fare una docu-fiction, e che chiedessero ad altri, ma è lì che mi hanno risposto che potevo realizzarlo come meglio mi pareva. In realtà, proprio per questo ho cercato anche di tradirla, moltissimo, quella cosa lì, per dimostrare che si può raccontare la Storia in un modo diverso, più vivo, più divertente, e anche, divertendosi cioè sia a farlo che a vederlo…
Sì infatti c’è anche una dimensione di gioco nel tuo film, e di gioco che lavora su del materiale tragico e questo è molto affascinante, perché questo gioco non stride con quel materiale tragico, anzi entra in rapporto con quella tragedia.
Anche perché loro, Galeazzo e Edda, hanno giocato tanto nella loro vita…Hanno giocato, si sono divertiti, si sono auto-rappresentati, sono stati ricchi, famosi, personaggi pubblici; Galeazzo era un dandy, si sono anche molto traditi reciprocamente…volevo che venisse fuori tutto questo…
Hanno vissuto lontani dall’Italia, in Cina, in una dimensione cosmopolita…
Sì infatti, negli anni trenta abitavano a Shangai, quando non si sapeva neppure in Italia che cosa fosse Shangai, e allora, forse era anche giusto raccontare questi aspetti più nascosti e non solo il melodramma.
E’ bello che nel film ci sia un’apertura alla dimensione più intima di questa strana coppia, che fino alla fine viene mostrata, dove entrambi si guardano e si scoprono diversi, anche se nel corso della vita e degli eventi per ognuno di loro cambia significativamente la valutazione dell’altro. Galeazzo a un certo punto dice “Edda è il mio peggior nemico”, ma alla fine scriverà nel diario “Edda si è rivelata una donna eccezionale…” Ma la cosa fondamentale, è che attraverso l’osservazione ravvicinata di questa coppia, tu la usi come un cannocchiale per aprire la visione sulla tragedia che si consumava in quegli anni e che avrebbe portato alla guerra. Tra i materiali di archivio più incisivi che tu hai usato c’è una sequenza, a ridosso dello scoppio della seconda guerra mondiale, in cui si vedono dei bambini che giocano con dei carrarmati, degli aereoplanini e dei soldatini di piombo, approntando uno scenario di guerra…Per tornare alla dimensione del cinema, anche quella, continua, tu lo fai lavorare come macchina da guerra, non a caso Mussolini lo definiva l’arma più potente …
Sì, una grande intuizione….
Questa dimensione del cinema che nella Storia appare come una macchina e un’arma di propaganda, tu la fai diventare invece una macchina e un’arma di rivelazione, un’arma critica, anzi, a un certo punto il teatro di posa diventa una sala di proiezione, c’è la proiezione del film di Flaherty, Ombre bianche, e questi diari assumono una dimensione presente…penso anche al viaggio di nozze, di Galeazzo e Edda a Capri, girato come in un film americano anni ’40, con il chromakey…

Sì, come si vede in certi film di Hitchcock…
Sì le sequenze della loro fuga in macchina verso Capri, fa proprio venire in mente Caccia al ladro, e probabilmente queste cose sono emerse nel film in questo modo perché tu sei una regista che ha visto molto cinema…
Sì alcune cose di questo genere non sono state studiate, sono venute fuori spontaneamente, pensa che la prima volta quando sono andata a fare un sopralluogo in teatro, mi portarono in un teatro che non era nero, ma verde, già predisposto cioè per il green screen; tra l’altro, a loro sembrava di favorirmi, di offrirmi il teatro migliore a disposizione. Ma io gli ho detto che non lo volevo, diventava una cosa fasulla, mi sembrava già di vedere una cornice sul tipo dei programmi di Piero Angela. Non era possibile. Loro erano molto stupiti che io rifiutassi quella soluzione che era la più costosa, che mi volevano mettere a disposizione: il più grande teatro di green screen in Europa. Ma io ho continuato a ribadire di non volerlo, davanti a loro sbalorditi, e lì, quando ci si trova in un pozzo di disperazione come era per me, alla fine ti diverti, infatti ho continuato a tenere il punto, dicendo che non avrei girato lì, neppure se mi pagavano, con loro, sempre più interdetti che, si guardavano tra loro, senza dire una parola, pensando che io non capissi niente… Mi divertivo, e quindi mi distraevo moltissimo dal mio dolore, perché capivo che loro non capivano, e quindi, anche prendermi un po’ gioco di loro…insomma, mi ha divertito.
Poi, comunque, venivano sul set a vedere, e alla fine, poi, hanno capito. Vedete, c’è un’altra idea di raccontare la Storia, molto più ingessata, con un atteggiamento di grande pudore nei confronti della Storia, che alla fine però schiaccia la realtà, nel senso che schiaccia l’idea, il pensiero personale. Perché se tu la vedi come un Moloch, come un’entità che non puoi toccare, è finita, non ci puoi fare il cinema…Avevo visto il bellissimo film di Carlo Lizzani, Il processo di Verona, con Silvana Mangano…Il film era un melodramma, ma anche Lizzani ci gioca….Perché Lizzani è andato a Cinecittà, ha visto i materiali di repertorio e li ha girati di nuovo, punto per punto, senza cambiare niente. Che è una forma di gioco, una forma di cinema. Invece di usare i materiali di repertorio, inserendoli nel film, li ha usati per girare ex novo, rigirandoli tali e quali, ma con il suo sguardo. E’ chiaro che non so come reagiranno quei pochi o molti che vedranno il film…
Be’ speriamo molti…
Speriamo molti, però, non so neppure come reagiranno i critici, a vedere questa cosa…
Il film ha ricevuto il premio della critica e questo in sé è un fatto significativo, ma vorrei ritornare su una cosa che dicevi adesso, e cioè cogliere nel repertorio l’elemento di auto-rappresentazione e quindi di gioco, perché entrambi loro, Edda e Galeazzo, hanno in qualche modo anche recitato una parte nella vita…
Sì, certo, e l’hanno recitata alla grande… Edda andava a prendere il the con Hitler…
C’è un momento nel film in cui scegli un pezzo di un’intervista in cui questa cosa viene molto fuori; ci sono infatti tutti e due, e si trovano in Cina…
Sì, è il momento in cui quando scoppia il conflitto cino-giapponese Edda vuole rimanere lì, perché vuole rimanere a vedere…
E’ lì, in quel punto, che lui fa questa osservazione: “le donne, a casa”?
No, il momento in cui lui dice “le donne a casa” è un altro, sta progettando dei giorni da passare risalendo il fiume, ma solo fra uomini…
In questa chiave dell’auto-rappresentazione, Galeazzo dice questa frase ma la dice quasi ironicamente, per farla arrabbiare, quasi a voler prendere in giro un certo atteggiamento maschilista…in realtà erano molto intelligenti, quei due…
Sicuramente non erano stupidi.
Forse erano anche più intelligenti di Mussolini
Forse sì…tutti e due, compresa Edda che era comunque era una fascista a tutto tondo.
Tra l’altro Galeazzo riesce a capire prima del tempo certi errori di Mussolini, e però in contraddizione con se stesso, perché poi vive la sua ammirazione e successivamente il proprio distacco…Galeazzo è veramente un personaggio molto interessante dal punto di vista delle contraddizioni interiori, quando poi vota…
…quando vota contro Mussolini. E non gli conveniva…Sicuramente sia Edda che Galeazzo avevano anche una sorta di delirio di onnipotenza…
In Galeazzo si avverte anche una pulsione autodistruttiva, mentre Edda ha questa molla interna a rilanciare continuamente il gioco… Edda poi, è quella che a un certo punto si rende conto che la guerra è persa.
Edda se ne rende conto anche prima del padre, è questa la cosa significativa.
Ancora una volta si osserva come spesso chi detiene il potere, diventa cieco, mentre chi è accanto può vedere…Tu ci hai sempre fatto incontrare nei tuoi film delle donne “diverse”, difficili, strane, e allora mi chiedevo, quanto questo aspetto di Edda a sua volta figura decisamente insolita ti avesse toccato in modo particolare, se l’avessi sentita vicina per questo…
Sì, indubbiamente.
Infatti usi dei materiali di repertorio molto intensi, si vede Edda ragazzina a Villa Torlonia che gioca al pallone come un maschio, lei parla di quando giocava su una casa sopra un albero, insieme al fratello, mettendo in scena Le tigri di Mompracem, di Salgari, con lei nella parte di Sandokan… più che con una signorina abbiamo a che fare con un maschiaccio…
E’ chiaro che per me la figura di Edda Ciano è venuta fuori dopo anni di lavoro anche in questo senso che dici tu; una donna estremamente diversa rispetto all’epoca in cui ha vissuto e quindi anche più moderna, più avanti, su questo non c’è dubbio. Quello che volevo che venisse fuori – ci tenevo – è che a prescindere dal personaggio storico, perché Edda lo è un personaggio storico che ha vissuto un grande dramma, una tragedia e queste contraddizioni che esplodono senza un controllo, però volevo che venisse fuori anche il fatto che alcune donne, alcuni personaggi femminili, se non proprio tutte, fanno sempre pensare un po’ a Giovanna d’Arco. Mi viene sempre da pensare al film di Dreyer La passione di Giovanna d’Arco, perché comunque fra le tante stratificazioni di cose che dicono le donne c’è sempre una punta di verità per la quale poi vengono punite. C’è sempre un processo e una condanna al rogo, in tante forme… sia quelle più blande sia quelle più forti, però è sempre così, e quindi questo mi divertiva e mi piaceva cercare di raccontare di Edda, perché non è che lei diventa una vittima, perché non lo è, anzi lo è molto di più lui, alla fine viene fucilato, un’esecuzione barbara. E’ una cosa forte, molto forte. In più, quella morte viene ripresa dalle macchine da presa di Mussolini, quindi…
Quindi, shot, due volte, dal fucile e dalla macchina da presa
Sì, infatti, due volte. E’ più lui la vittima…Però lei, paradossalmente, pur essendo una fascista a tutto tondo, in tutti i sensi…sfugge, perché è una donna, e qualche volta, le sfuggono dei momenti… perché è il cinema, che anche quando è di confezione, capita però che tocchi al di là della sua presenza, una flagranza…
Attraverso il tuo film tu porti lo spettatore a prendere coscienza, in altre parole lo porti a comprendere non tanto le cose vere ma come stanno veramente le cose, usando le parole di Brecht, perché è dal particolare della storia privata di Edda e Galeazzo che si arriva all’universale, in altre parole, attraverso Quei due tu porti lo spettatore sulla scena della seconda guerra mondiale, che comunque “macina” ancora…
Guarda, dopo questo lavoro, mi è venuto in mente di realizzarne un altro, ma non ho ancora le idee chiare e forse non lo dovreste neppure scrivere, non so, ma…decidete voi…proprio facendo il processo di Giovanna d’Arco, perché Giovanna d’Arco ha subìto un processo lunghissimo; era una pastorella, ma rispondeva con parole acutissime, mettendolo in rapporto con le ragazze dell’Iran….
E’ una bellissima idea…
Ma ancora non so come fare, non ho ancora capito bene come sposare insieme queste due realtà, però in effetti oggi una iraniana che si toglie il velo e va alla manifestazione a capo scoperto, sa che va a morire, non può non saperlo. Lo stato iraniano ha fatto centinaia di morti dall’inizio delle proteste….
Per una donna europea è molto duro vedere che il momento di massima liberazione raggiunta dalle donne e dalle ragazze iraniane che si liberano del velo e quindi insieme del patriarcato, vada a coincidere con la repressione più violenta, che può comportare anche la morte. Poi, le donne iraniane, nella lunga distanza, vinceranno, lo sappiamo, perché è nelle cose che avvenga…
La contraddizione di Edda, tornando al film, è la contraddizione del potere del padre…
Sì, un potere del padre di cui ha usufruito, e che poi ha pagato. Edda per esempio non ha mai sostenuto Claretta, mai.
Da questi materiali tragici tu sei riuscita a tirare fuori le contraddizioni, sei riuscita ad inserirli all’interno di un gioco filmico, e a questo proposito sarebbe interessante sapere come hai lavorato con le luci di Daniele Ciprì, perché c’è un lavoro con le luci molto particolare in rapporto agli spazi, al modo di illuminarli, le silhouette…
Devo dire che con Daniele Ciprì mi diverto sempre a lavorare, perché è uno che raccoglie tutte le sfide con una risata, non ti dice mai che una cosa non si può fare. Viene dalla sperimentazione e quindi non si tira mai indietro. Con lui c’è sempre un terreno molto fertile, avevamo già lavorato insieme, e ci siamo sempre divertiti. Abbiamo fatto insieme nel 2018 Arrivederci Saigon, e un altro documentario, sulle navi dei veleni…Con Daniele è molto bello lavorare perché, appunto, è uno che accetta le sfide…Non è che poi io gli dicessi molto, gli proponevo delle cose del tipo “questa facciamola su un classico palco di teatro, oppure, questa facciamola con un telo bianco di sfondo con dietro la luce…” e lui, prima pensa per un po’ a come risolvere la cosa, e poi la fa. Perché Daniele è bravo, è creativo, fantasioso, non ha schemi. A un certo punto abbiamo chiesto una automobile in teatro, ed è arrivato questo macchinone d’epoca, ma con lui basta un cenno, mezza parola, ci siamo guardati e ci siamo detti Hitchcock…finito. E funziona.
A proposito di fantasmi della Storia si è visto di recente nelle sale il film di Sokurov Fairytale, non so se l’hai visto…
Sì, bellissimo. E…quanto gioca Sokurov! Quando l’ho visto ho avuto una piccola soddisfazione, nel suo film c’è una grande ironia. Che ci dice che bisogna fare una grande attenzione a non soccombere sotto il peso della Storia, altrimenti non ci si riesce a interloquire. E invece dobbiamo interloquire con la Storia, anche per capire chi c’è al governo oggi.
In questo senso il tuo film è molto politico. Infatti il tuo film mostra molto bene che cosa è stato il fascismo. Senza essere politicamente corretta, senza dare giudizi, ma, appunto, facendo vedere i fantasmi della Storia.
Non a caso apri il tuo film con Auschwitz, raccontando una storia italiana…
Sì, perché c’è un rapporto strettissimo.
Tu usi anche diversi filmati dove si vedono i bambini, che guardano in macchina, immagini di guerra, di fame, che entrano comunque in rapporto con la tua filmografia, in cui l’infanzia, l’adolescenza ha un peso particolare…
Sì…Tornando al film di Sokurov, per me è meraviglioso, perché si diverte, c’è un gioco ironico, pur essendo anche tragico…
C’è un’ironia della Storia, come se si andasse a visitare un al di là della Storia, e qui tu mostri un al di là del fascismo in qualche modo…
Sì penso che anche per questo motivo il film abbia fatto paura e non sia stato preso dai Festival. Solo con il Festival del Tertio Millennio, dove c’è un cattolico a dirigerlo, non ci sono stati problemi, e infatti l’hanno preso.
Ma il tuo film è molto aperto, sollecita molto lo spettatore, gli fa
prendere posizione…
Infatti ho un po’ paura di questo passaggio televisivo del film…
Tu osi molto con questo film, che è nello stesso tempo molto rigoroso; anche il ballo rock tra i due, anche la presenza dei computer o le scene al cellulare, fanno parte di questo gioco anacronico di contaminazione che però fa vibrare il film, che infatti è il film libero di qualcuno che non ha niente da perdere. Questa è la bellezza del tuo lavoro.
Be’ sì, non faccio cose su commissione.
Nel gioco visivo del film entrano anche le sfocature, dove la sfocatura si lega anche ad un processo del pensiero, man mano che quei due devono comprendere qualcosa, e per questo crediamo che il tuo film aiuti a capire molte cose, e che per questo sia importante.
Speriamo, anche se ho un po’ paura, mi dispiacerebbe una stroncatura…
E’ un film talmente vivo, e quando si sente questa libertà e questa sincerità nel lavoro, questo intimidisce i critici. E poi il film mobilita dei materiali che scottano, noi stiamo in un paese che con il suo passato non ha mai fatto veramente i conti.
Prima di tutto non ha fatto i conti con gli ebrei, per questo apro con i cancelli di Auschwitz, perché quella è una cosa che va riaperta, non è il nostro un paese che non ha fatto i conti soltanto con il terrorismo..
Sono tante le stagioni con cui questo paese non si è confrontato, pensa soltanto in questi giorni alla vicenda di Alfredo Cospito e del 41 bis, e di come si parla di una misura estrema praticata dentro il carcere che in quanto tale non dovrebbe neppure essere contemplata; il 41 bis non dovrebbe esserci per nessuno.
Sì infatti, perché è inumana.
La conversazione ha avuto luogo a Roma, il 13 gennaio 2023.
