Pinocchio e Gogol, ovvero la semantica del naso
di Alessandro Cappabianca
1.
Al MOMA di New York è stato il momento di Pinocchio, con una mostra incentrata principalmente sul Pinocchio di Benicio del Toro, animazione a passo uno del romanzo di Collodi. Recensioni in genere entusiastiche. Io ho già spiegato altrove le ragioni per cui il film non mi convince, e non ho molta voglia di ripeterle qui. Espongo solo la ragione principale: del Toro traspone le vicende del burattino dagli anni 80 dell’800 agli anni del ventennio fascista, e questo trascina con sè un invito anche troppo esplicito (politicamente iper-corretto) a NON essere burattini nei confronti del Potere. Con ciò, del Toro rovescia Collodi, cioè tenta di compiere un’operazione in sè lodevole, senza però riuscirvi. Da bravo bambino ubbidiente e rispettoso, come accade in Collodi, Pinocchio diventa una specie di Cristo indomito, di vittima in croce, con ricadute in pieno simbolismo. Il fascismo vorrebbe tutti burattini, pronti a credere, obbedire, combattere – ma l’anima di Pinocchio è intrinsecamente ribelle. Perfino la crescita del naso può essere salvifica, aiutando a uscire dallo stomaco della balena. Ottimo, se non fosse tutto troppo semplice.
Il Pinocchio di Zemeckis, uscito pochi mesi prima di quello di del Toro, è tutt’altra cosa, riallacciandosi esplicitamente al capolavoro Disney del 1940. Qui vorrei però mettere in evidenza alcune cose che tutti questi Pinocchi hanno in comune, e che forse hanno a che fare con la loro natura d’animazione cinematografica. Cose, dunque, che non a caso non è possibile ritrovare in prodotti dove Pinocchio, Geppetto, la fata Turchina, il Gatto e la Volpe, Lucignolo, Mangiafuoco, e compagnia bella sono incarnati da attori e attrici. Penso ai film di Carmelo Bene, Comencini, Benigni, Matteo Garrone, pur tanto diversi tra loro, ma anche al Pinocchio di Antamoro, interpretato nel 1911 da Polidor.
I caratteri dirimenti a mio parere sono soprattutto due, e riguardano principalmente da un lato la crescita d’importanza del Grillo Parlante come narratore della storia, dall’altro, il fatto che Geppetto, abilissimo falegname, non è mai davvero povero, come lo aveva descritto Collodi.
Primo elemento. Il Grillo Parlante, da Disney a Zemeckis a del Toro, in quanto coscienza di Pinocchio, si incarica di raccontare la storia, di scriverla, rinunciando, in quanto autore, a scrivere la propria autobiografia. Viene quasi da dire che qui il cinema assuma proprio la natura di Grillo Parlante, capace di scandalizzarsi per le bugie e le marachelle di Pinocchio. E’ al tempo stesso un Grillo Parlante buffo, un po’ goffo. Ha a che fare con il linguaggio, e dunque ne rimane spesso prigioniero, come la mosca nella bottiglia di Wittgenstein. Solo che il Grillo riesce sempre, fortunosamente, a uscirne. Anche schiacciato sotto un pesante librone, riesce a risollevarsi, a ricomporre se stesso, a riassumere il carattere decoroso cui soprattutto tiene – anche se a volte si lascia tentare lui stesso da estemporanee scappatelle.
Secondo elemento. Nell’animazione hollywoodiana, che Geppetto, un falegname cosi’ abile, possa essere povero suona come incredibile. Già nel Disney del 1940, e’ un magistrale fabbricante di orologi – solo che non vuole venderli, malgrado le offerte allettanti che riceve. Perché non vuole venderli? Perché li fabbrica per sua soddisfazione personale, e allora bisognerebbe riflettere su una certa identificazione Disney/Geppetto. Non è un caso, mi pare, se i meccanismi rappresentati dagli orologi, che scattano ogni ora, rappresentano quasi sempre scene di violenza e castrazione simbolica. Una sorta di riproduzione d’un trauma originario, in Disney, porta sempre con sè la paura, come è evidente guardando le streghe e le apparizioni magiche di quasi tutti i suoi film, pur restando valide le intuizioni di Mariuccia Ciotta sul valore politico-democratico (roosveltiano) della sua opera. Vero. Tuttavia, se ballano i fantasmi, in apparenza per divertire i bambini, la danza è macabra. Marcare il tempo, anche solo costruendo orologi, è sempre un esercizio pericoloso.
La povertà di Geppetto (Nino Manfredi), che era il cuore del Pinocchio di Comencini, torna invece nel Pinocchio di Matteo Garrone, dove Geppetto è Benigni (già Pinocchio per conto suo). Garrone insiste sul grottesco (non solo il Gatto e la Volpe, non solo Mangiafuoco, non solo Polentina), ma la Chiocciola supergrottesca, ad esempio, non ci pare particolarmente riuscita. A un certo punto, con una specie di incongruo salto mortale, Garrone tenta addirittura di ricollegarsi a Carmelo Bene, quando la fatina dice a Pinocchio: tu non crescerai mai, sei nato burattino, vivrai burattino, morirai burattino. Ma Garrone non ha il coraggio di Carmelo Bene.
2.
Paradossalmente poi, come si sa, Pinocchio non sarebbe neppure un burattino, ma una marionetta, i cui movimenti sono guidati da fili. Anche se lui può farne a meno. Il suo naso cresce, secondo la gravità delle bugie che spara, e in questo si può ricollegare anche al Naso del gogoliano assessore di collegio Kovalev, che lascia il viso del proprietario e se ne va in giro al suo posto, assumendo le sue funzioni. Che in questo caso il Naso (maschile) sia il pene, è ovvio, mentre diverso, e complementare, sarebbe il discorso per il naso femminile. Ci si può chiedere, certo: come mai nel Cyrano de Bergerac di Rostand, per esempio, non solo Rossana non si innamora del naso di Cyrano, ma neppure si accorge, se non in extremis, della passione senza speranza che il cugino nutriva nei suoi confronti? Lei è innamorata di Cristiano, della poesia che lo stesso Cyrano presta al rivale, e viene quasi da pensare che il naso di Bergerac non sia abbastanza lungo. Non sappiamo molto del naso dei numerosi interpreti (teatrali) del dramma di Rostand (tra cui in Italia un’attrice, Anna Mazzamauro), ma di sicuro, a livello cinematografico, troviamo abbastanza inadeguati sia il naso di Josè Ferrer che quello di Gerard Depardieu. Una sorta di timidezza nei confronti del narcisismo dell’attore? Credo di si, pensando anche alle dimensioni cospicue del naso di Steve Martin in Roxanne, satira girata nel 1987 da Fred Schepisi.
3.
Nel film Il naso o la cospirazione degli anticonformisti, del 2020, Andrey Khrzhanovskly, regista d’animazione russo, ultraottantenne, segue dapprima la falsariga del racconto gogoliano: il barbiere trova un naso, che riconosce come quello di un suo cliente, nel panino che la moglie gli ha preparato. Preso dal panico, timoroso d’essere accusato d’un crimine, esce di casa per buttarlo via, ma una guardia lo vede armeggiare lungo la Neva, si insospettisce, e non si sa come andrà a finire…
Poi, sempre sulla falsariga gogoliana, il regista passa a mostrare la disperazione di Kovalev, quando, svegliandosi una mattina, scopre che il suo naso è scomparso. La sua disperazione aumenta, tanto più che il suo naso se ne va in giro in carrozza e si spaccia per funzionario statale. Inutili i suoi tentativi di recuperare il naso mediante un annuncio sul
giornale. I giornali cui si rivolge si rifiutano di pubblicarle cose simili, ritenute sconvenienti. Finchè, alla fine, il Naso viene arrestato per tentato espatrio clandestino, e restituito al proprietario. A quel punto, il problema è solo nel riattaccarlo.
Ma il film va oltre. Risolto il problema del naso gogoliano, è Bulgakov a prendere il posto di Gogol, quel Bulgakov che ebbe il coraggio di rivolgersi a Stalin per capire le ragioni per cui le sue opere non venivano mai messe in scena. Tra Bulgakov e Stalin nasce una paradossale amicizia. Stalin protegge lo scrittore, impone al teatro d’Arte di Mosca di metterne in scena le opere, dietro adeguato compenso. Continuamente convocati dal dittatore, parecchi direttori del teatro muoiono per lo spavento, ma non importa. Per il resto, il realismo socialista imperversa, e un musicista come Šostakóvič si vede criticato dalla Pravda per l’eccessivo “intellettualismo” della sua musica. A salvare Ėjzenštejn è solo la sviolinata staliniana su Ivan il Terribile: sviolinata che in realtà non era tale, ma per tale fu fatta passare. A salvare Tonino Guerra è solo il fatto d’essere un’animazione, d’essere nato tanti anni dopo, di poter vedere le cose alla lontana, sul monitor individuale d’un aereo in volo.