Peter Bogdanovich, l’ultimo grande “homme-cinéma”
di Vittorio Giacci
Con la scomparsa di Peter Bogdanovich se ne va non solo un cineasta che della passione per il cinema aveva fatto il tratto performante di tutta la sua opera, ma anche, e forse per sempre se nessuno ne saprà cogliere l’eredità, un’idea di cinema, quella per cui ogni film non solo produce cinema, ma ri-genera a sua volta altro cinema, immergendosi nei segreti preziosi conservati dal cinema che fu per riversarli nel cinema che sarà, in un atto d’amore che si ri-propone all’infinito per riverberarli in una ininterrotta conversazione.
I suoi film, “classici” da subito (quel suo bianco nero, così antico e così moderno!), sempre perfetti, mai sbagliati per superficialità o per moda, facevano ri-amare di rinnovato amore i suoi amori, da Hitchcock a Ford, da Hawks a Keaton, da Griffith a Welles, da Lang a Minnelli, e con essi tutto il cinema d’autore, nel suo essere, senza dubbi o incertezze, quell’Arte che per Canudo avrebbe dovuto ricomprendere in sé tutte le altre.
E’ stato un maestro di teoria che poneva questioni azzardate che poi diventavano verità incontrovertibili, come: “il cinema è già stato fatto tutto prima del 1925, noi possiamo solo ri-farlo” non ameremo mai abbastanza il cinema finché continueremo a dire: “ieri ho visto un vecchio film” mentre non diremmo mai: “ieri o ascoltato una vecchia sinfonia” oppure “sono andato in un museo a vedere un vecchio quadro”, evidenziando la natura squisitamente artistica dell’opera filmica e quindi la sua eternità, al di là del suo sfruttamento commerciale in lotta con i pregiudizi di un vecchio (questo sì) pubblico, non ancora capace di accettarne questa valenza per lui così naturale.
Ho avuto modo di incontrarlo varie volte di persona, in America e in Italia, e mi incantava con le sue “lezioni magistrali” ma anche con le sue straordinarie imitazioni (indimenticabili quelle di Jerry Lewis, John Ford e Alfred Hitchcock). Con lui la cinefilìa non era astratta, fredda, arida, ma piena di calore, di gioia, di passione vitale e di ironia. Sì, perché amava i suoi miti umanamente proprio perché sapeva coglierne anche il lato comico o le debolezze.
Quando stavo girando, in Francia il mio documentario su Truffaut, mi trovavo a passare per Cannes con la troupe (allora non c’erano i telefonini per filmare), durante i giorni del festival. Bogdanovich era lì a presentare non ricordo più quale film, ma non me l’ero sentita di disturbarlo mentre era occupato con conferenze stampa e incontri. Passammo oltre e ci fermammo poi a pranzo in un ristorante di Antibes scelto a caso. Quanti locali potranno esserci lungo quella parte della Costa Azzurra? Centinaia, eppure proprio in quel ristorante c’era anche lui, a tavola con i suoi accompagnatori.
Mi è sembrato un segno e quindi, vincendo la riservatezza ma diventando sfrontato come sanno esserlo solo i documentaristi quando devono “portare a casa” il risultato, andai a salutarlo e a chiedergli se voleva concedermi un’intervista sul regista francese. Lo feci più che altro – lo confesso – perché avrebbe dato un tocco di internazionalità al lavoro in quanto non sapevo cosa ne pensasse di Truffaut poiché non avevamo mai avuto occasione di discuterne insieme.
Ho avuto l’impressione che se l’intervista fosse stata su di lui probabilmente avrebbe risposto di no, ma al nome di Truffaut ha interrotto immediatamente il pranzo e siamo usciti sul lungomare. Bene ho fatto perché quell’intervista si è rivelata una testimonianza bellissima (per il piacere dei cinefili è riportata integralmente in questo stesso sito) in cui Bogdanovich ha dimostrato non solo la sua conoscenza ma anche la sua acutezza di critico nell’osservare che in Truffaut coesistevano le caratteristiche di regista di situazioni (come Hitchcock) e di personaggi (come Renoir), ma che era più grande quanto più si avvicinava a Renoir rispetto a Hitchcock, esibendosi poi, come dono finale, in una sua indimenticabile imitazione.
