Perfect Days di Wim Wenders
L’invidiabile seduzione dell’iper-ordinario
di Vittorio Giacci
È maggiormente il fatto di contemplare che mi ha affascinato facendo dei film.
Wim Wenders
Nel cinema erratico/contemplativo di Wim Wenders viaggiare è sempre guardare e l’atto del vedere si identifica ogni volta nella percezione di un movimento, quand’anche falso o soltanto apparente.
E così anche in Perfect Days, viaggio dello sguardo dalla prima all’ultima inquadratura, uno sguardo minuzioso e incessante sull’esistenza quotidiana di un personaggio iper-ordinario che proprio nella semplicità delle piccole cose di ogni giorno trova una personale risposta al senso della vita.
Originariamente nato con l’intento di documentare il progetto “Tokyo Toilet” di abbellimento urbano della capitale relativamente alla edificazione di un circuito di 17 nuovi bagni pubblici affidata a un pool di creativi di chiara fama per aggiornare la consolidata simbologia giapponese di luoghi di aggregazione e ospitalità con architetture razionali e altamente innovative, visibilmente piacevoli e, in qualche caso, vere e proprie opere d’arte collocate nei diversi parchi cittadini, il film, respinta da Wim Wenders la richiesta di farne un documentario, si de-canta immediatamente in riflessione d’autore sul vivere nell’epoca dell’iper-modernità e, in particolare, nella città più iper-avanzata del continente asiatico.
Hirayama (Koji Yakusho) è un uomo sulla sessantina che vive da solo a Tokyo in un piccolo e ordinato appartamento. Tutte le mattine si sveglia all’alba, apre gli occhi, si lava la faccia, si rade, consuma una rapida colazione sorseggiando un caffè dal distributore automatico, innaffia con cura le piantine del giardino, esce di casa, osserva il cielo sorridendo al nuovo giorno e poi, raccolti gli strumenti di lavoro, sale sul suo camioncino dove ascolta, durante il tragitto, canzoni pop degli anni Sessanta e Settanta mentre si reca ai bagni pubblici della città di cui è addetto alle pulizie.
Dopo una mattinata di intenso lavoro si gode una breve pausa per nutrirsi con un panino in un piccolo parco, fare muti cenni di saluto ai vicini di panchina, e scattare fotografie alla luce del sole che filtra dalle foglie degli alberi, per poi tornare alla propria occupazione e infine rientrare e, dopo aver cenato al solito ristorantino, dedicarsi alla lettura di un libro fino al sopraggiungere del sonno e, con esso, di sogni calmi, soffusi, astratti nel loro essere in bianco e nero, e risvegliarsi il giorno seguente per reiterare le medesime incombenze.
Una routine meticolosa che si ripete giorno dopo giorno e che si articola in una costante esigenza di pulizia e di igiene, non solo nel tempo lavorato ma anche in quello liberato, e sia nel corpo (nelle spa che frequenta) sia nei capi di vestiario (nelle lavanderie dove porta a lavare i propri indumenti), senza per questo risultare monotona, in una replica pacata di minuscoli gesti che non sembrano apportargli alcun senso di noia o di ansia ma che, al contrario, gli arrecano una benefica sensazione di non stress, di satura serenità.
Hirayama conduce una vita solitaria che non gli pesa, parla pochissimo eppure questa volontaria parsimonia fonetica risulta essere una prospettiva molto diversa sia dall’apatia, risposta negativa a una insoddisfazione individuale, che dall’afasia, perdita della facoltà di comunicare di una intera classe sociale che costituiva l’incubo e la denuncia di Pasolini nei confronti della società contemporanea, per avvicinarsi piuttosto al concetto di atarassia, conquista cosciente di uno stato di benessere interiore, di una pace dello spirito raggiunta con il distacco liberatorio dalle passioni materiali.
E’ un pensiero che appartiene certamente alla elaborazione occidentale classica greco-romana, da Democrito a Platone, dal Lucrezio Caro del De Rerum Natura al Seneca di De Tranquillitate Animi e di Vita Beata ma che Wenders, innamorato della meditazione orientale e della stilizzazione rappresentativa del cinema di Ozu, da lui omaggiato in Tokio-Ga (1985), illumina, insieme al co-sceneggiatore Takuma Takasaki, di un bagliore Zen, intingendo quella che era stata, agli inizi della carriera, la tersa itineranza della “trilogia della strada” (Alice nella città, 1973; Falso movimento, 1974; Nel corso del tempo, 1975) in una ibridata convivenza di sensibilità e di mondi tanto lontani.
Il regista si accosta al Giappone nel modo più appropriato, non sociologicamente bensì semiologicamente, come aveva fatto Roland Barthes ne L’impero dei segni (1),diario di viaggiosulla loro onnipresenza nella vita quotidiana di quel Paese, poiché in Perfect Days sono proprio i segni a guidare la narrazione, a parlare al posto della parola.
Dai gesti ai comportamenti, dagli oggetti ai luoghi, dai libri alle canzoni, è un universo polisemico, non verbale che prende il sopravvento relegando fatti, azioni, incontri, caratteri, a poco più di un sottofondo, sottotesti sottovoce a far emergere la personalità e il temperamento del protagonista, i suoi stati d’animo, soprattutto la sua nuova identità, mentre quella passata resta volutamente nell’ombra.
Lo stesso ambiente lavorativo e la sua prestazione professionale sono un segno rivelatore: se, nella civiltà nipponica, il bagno è tradizionalmente concepito come una sorta di santuario di pace, distante dall’abitazione e immerso nel verde di un giardino, nel film esso esprime indole e scelta di vita del protagonista il quale mostra di trovare, proprio nel mestiere più umile che ci sia e nella sua attitudine a svolgerlo con esperta accuratezza, un’inedita dignità che lo accomuna a un atto rituale, a una limpida liturgia i cui elementi fondativi sono i servizi igienici medesimi,simulacri di purificazione da ogni impurità che Hirayama, più che pulire, deterge quasi con devozione, in un tacito cerimoniale di embrionale, immacolata dedizione.
Ed è grazie a tale energia interiore che egli, totalmente privo di invidia sociale, di competitività, di rivalsa, si realizza nella prospettiva solidale dell’ascolto, dando suggerimenti e prestando consigli a chi gli sta accanto, come il suo aiutante Takashi (Tokio Emoto) che aiuta e sostiene anche economicamente nel non facile rapporto con la fidanzata Aya (Aoi Yamada); o accondiscendendo agli sporadici incontri con la nipote Niko (Arisa Nakano) con la quale si intrattiene sull’amicizia degli alberi in quanto nostre radici e a cui prospetta pareri e convincimenti di naturale saggezza; con la sorella Keiko (Yumi Aso), la cui apparizione a bordo di una lussuosa automobile con autista tradisce le condizioni di agiatezza della famiglia quindi dello stesso Hirayama di cui si ignorano i trascorsi ma che sicuramente non sono stati d’indigenza, rendendo le sue scelte ancor più meritevoli; con la ristoratrice Mama (Sayuri Ichikawa) da cui è probabilmente attratto e che gli canta la versione giapponese di The House of the Rising Sun dove il sole nascente della New Orleans cantata da Eric Burdon si traduce, con plausibile colleganza artistica, nel Sol Levante; con un senzatetto (Min Tanaka); con Tomoyama (Tomokazu Miura), l’ex-marito di Mama, che gli rivela di essere malato terminale prossimo alla morte con il quale improvvisa scaramanticamente il gioco di schivare ciascuno l’ombra dell’altro.
In questa presenza leggera, senza risentimento, dissuasione o rimpianto, Hirayama non si limita al dire, ma, omissivo di parole tanto quanto prodigo di condivisione psicologica, si apre anche al dare, con generosità e concretezza, donando quello di cui dispone, denaro, libri, audiocassette musicali, sigarette, senza alcuna contropartita.
Nel bivio primigenio tra Cosmo e Caos, tra la frenesia della megalopoli su cui svetta la torre delle telecomunicazioni più alta del Giappone il cui nome è significativamente, Sky Tree, “albero del cielo”, e le irrequietezze della modernità globalizzata, Hirayama opta per la lentezza, l’equilibrio percettivo, la stabilità emotiva, in una morbida imperturbabilità che non vuol essere né indifferenza né ripiegamento bensì il conseguimento della felicità con altri mezzi, rallentando, decelerando, decalando, i ritmi convulsi di una tachimania che ammassa e sovrappone bulimicamente informazioni, immagini, suoni e rumori, provando a riscoprirla in una specie di desistenza felice conseguita nella duratura semplicità del vivere giorno per giorno.
“Arriva il momento – dice Wenders – in cui liberare te stesso dal troppo, dalle cose inutili, dal superfluo, per apprezzare meglio le cose. E’ un lento processo di apprendimento”. (2)
E’ un approccio consapevole che si risolve nella fattispecie comunicativa della sottrazione, del “più con meno” (Less is More), espediente diegetico proprio a ogni arte ma che nel cinema trova il suo maggior ostacolo in quell’impressione di realtà che può appesantire il senso e mortificarne la forma, e che Wenders supera però procedendo appunto per segni, accenni, dettagli di eventi solamente abbozzati, simili ad altrettanti Haiku, componimenti poetici estremamente sintetici in soli tre versi utilizzati nella letteratura giapponese prevalentemente per descrivere la natura e le vicende umane ad essa direttamente connesse.
Nella seduttiva, attrattiva iper-ordinaria quotidianità di Hirayama trova così spazio il leggere libri; l’ascoltare musica; il fotografare i raggi del sole tra le piante, e ciò in una dimensione completamente analogica, pre-digitale, otticamente sottolineata restringendo le proporzioni dello schermo dal formato in 4:3 del cinema classico rispetto al panoramico 16:9 di quello attuale.
I libri vengono presi in biblioteca e letti singolarmente, uno dopo l’altro; le fotografie sono scattate da una macchinetta anch’essa rigorosamente analogica, un rullino di sole 36 pose alla volta, per essere archiviate, conservate e riviste con calma e a tempo debito; i brani musicali sono riprodotti anch’essi non in affastellate play list ma in specifiche e introvabili audiocassette trasmesse da un’ autoradio obsoleta ma ancora perfettamente funzionante. Una filiera di fonti che Hirayama sa gestire senza esserne gestito.
Non lo si vedrà mai utilizzare un computer per navigare su Internet, chattare, apporre like o condividere Social Media o servirsi di uno smartphone o di un tablet per effettuare dei selfie o photo opportunity, cionondimeno non si ha la sensazione di qualcosa di pregresso, di scaduto, di non più valido, al contrario, e ciò perché Hirayama questo suo mondo lo vive come un suo peculiare presente che lo soddisfa, affidabile e non invasivo, funzionante e non prevaricante, che preferisce avvertire non costituito di cose “vecchie” da buttare o di supporti tecnici da ammodernare quanto piuttosto organizzato in consuetudini “antiche” che è bello mantenere e preservare con amorevolezza non velata di nostalgia, centellinandole come beni preziosi da assaporare con i tempi giusti.
Ma quali sono le sorgenti di tale appagamento che Wenders vuol condividere con lo spettatore?
Per la musica, soprattutto quella rock che ha avuto un ruolo determinante nella decisione di diventare cineasta (“è stato il Rock and Roll che mi ha spinto a fare del cinema”) e da esperto musicologo già rivelatosi con film come Lisbon Story (1994); Buena Vista Social Club (1999); The Soul of a Man (2003), propone motivi che si riversano mirabilmente nel tessuto dell’opera filmica: The House of the Rising Sun (Animals); Redondo Beach (Patti Smith); Pale Blue Eyes (Velvet Underground); Sittin’ on the Dock of the Bay (Otis Redding); Sunny Afternoon (Kinks); Brown Eyed Girl (Van Morrison); Feeling Good (Nina Simone); Walkin’ Thru the Sleepy City (Rolling Stones); e, ovviamente, Perfect Day (Lou Reed).
Per quanto riguarda la lettura, a Hirayama fa leggere: Le palme selvagge di William Faulkner; Le urla dell’amore di Patricia Highsmith; Gli alberi della scrittrice giapponese Aya Koda, anch’essi connessi al testo filmico dall’essere strutturati in raccolte di racconti che descrivono personaggi che, per una ragione o per l’altra, scappano dalla società, oppure esseri viventi come fiori e piante a cui Hirayama dedica tanta attenzione in quanto emblemi di vitalità e costanza.
Wenders stesso non potrà non aver letto Libro d’ombra scritto nel 1933 da Jun’Ichirō Tanizaki in difesa della civiltà orientale che si sofferma proprio sul delicato equilibrio tra luce e ombra, rappresentato fedelmente dal regista in cifra stilistica del film, nell’equilibrata alternanza tra la luminosità del giorno (nel lavoro) e l’oscurità della notte (nel sogno), e alla loro profonda relazione con i bagni.
Scrive Tanizaki: “il solo gabinetto giapponese è interamente concepito per il riposo dello spirito. Discosti dall’edificio principale, i gabinetti stanno accucciati sotto minuscoli cespi selvosi da cui viene profumo di verde di foglie e di borracina. E’ bello là accovacciarsi nel lucore che filtra dalloShōji e fantasticare, e guardare il giardino”.(3)
Questo film così in-cantato dentro una “narrazione “fatta di niente” dove, secondo la più aggiornata interpretazione letteraria, l’estasi domina sull’azione, termina con la sequenza di un lungo primo piano sul volto di Hirayama, viaggiatore immaginifico nel cinema di viaggio wendersiano per abbracciare un nuovo giorno dall’altra parte del mondo, immerso nella luce calda di un assolato tramonto mentre guida il furgone nel viaggio di ritorno al termine di una giornata di lavoro come le altre ma che per lui è già quasi una nuova alba, sequenza che, dopo tanta quiete, esplode, sulle note di Feeling Good, in una deflagrante lode dello “star bene” che coinvolge simultaneamente lo schermo e l’immagine, l’attore e lo spettatore.
“E’ una nuova alba, è un nuovo giorno e una nuova vita per me – dicono le parole della canzone – e mi sento bene. Gli uccelli volano in alto, sai come mi sento; il sole è nel cielo: le canne sono trasportate dalla corrente, e sai come mi sento: come un pesce nel mare; un fiume che scorre libero; i fiori sugli alberi; una libellula fuori al sole; delle farfalle che si divertono; dormire in pace quando il giorno è terminato. E’questo quel che sento. E’un nuovo giorno, una nuova vita per me. E mi sento bene”.
L’ espressione di sorridente, contemplativa dolcezza di Hirayama (basterebbe questa sola per attribuirgli il premio come miglior attore, come è infatti avvenuto al Festival di Cannes) cresce sempre più di intensità, in una felicità non più trattenuta e conseguita, semplicemente, seguendo il sole.
Se questa non è beatitudine, per Hirayama le si avvicina parecchio.
Lo aveva suggerito Henri Laborit nel suo Elogio della fuga (4), come via d’uscita contro le contraddizioni della società d’oggi, per il quale la felicità consiste in uno stato d’equilibrio non passeggero che abbraccia la successione ripetuta di desiderio, piacere, benessere, e così accade nel film nei comportamenti esistenziali del protagonista.
Nelle mani di un altro autore un soggetto così poteva rischiare di assumere un tono involutivo, un sapore passatista. In quelle di Wim Wenders ri-suona come una “perfetta” poesia visiva per la gioia di occhi intelligenti.
Note
- Roland Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino, 1984.
- Wim Wenders, Intervista, Skytg24, 2/01/2024.
- Jun’Ichiro Tanizaki, Libro d’ombra, Marsilio, Venezia, 2020.
- Henri Laborit, Elogio della fuga, Mondadori, Milano, 1982.
