Per Sebastian Schadhauser
Nello scorso mese di marzo, Sebastian Schadhauser, ci ha lasciati. Da tempo malato, gli ultimi anni erano stati per lui particolarmente faticosi e difficili, impegnato costantemente nella cura dell’amatissima moglie Sira, a sua volta gravemente malata. Sebastian aveva fatto parte per molto tempo della redazione di Filmcritica, una rivista cui si sentiva estremamente legato, per la circolazione libera delle idee e per una medesima passione critica e militante, nel segno politico del cinema radicale ed esigente di Danièle Huillet e Jean Marie Straub, suo grande amico personale. Oltre a svolgere l’attività di giornalista e critico cinematografico, Sebastian era anche un appassionato e originale artista-artigiano del legno: la redazione di Filmcritica in piazza del Grillo era arredata con molti dei suoi bellissimi mobili, tra cui una splendida, luminosa scrivania di legno chiaro – ne aveva costruita una anche per Alberto Moravia -, sempre ingombra di libri, che risaltava nella stanza dove si facevano le riunioni di redazione. Ma è soprattutto importante ricordare che Sebastian con grande generosità è stato l’artefice del ritorno online di questo sito dopo l’oscuramento forzato a causa di un virus nel 2020, durante la pandemia. E’ stato grazie a Sebastian, attraverso l’intervento risolutivo di suo nipote Tommaso, se siamo tornati di nuovo online, qualcosa di cui gli saremo sempre grati.
Per ricordarlo ancora una volta nel rivolgergli il nostro ultimo, affettuoso saluto, pubblichiamo qui di seguito il suo ultimo testo con cui era intervenuto nel 2020 sul n° 700, l’ultimo numero in cartaceo, della rivista Filmcritica.
Non essere riconciliato
di Sebastian Schadhauser
Per arrivare a Filmcritica, vado indietro nel tempo. È una sorta di approdo in barca a remi. È un approdo con la vendita di bottiglie di vetro, con lo smantellamento nelle rovine del dopoguerra di rame e piombo, la sottrazione di gomme americane, sigarette, cioccolata e pane in barattoli all’esercito americano. Il baratto di questo in cambio di spiccioli per pagare i pomeriggi all’HansaFilm, Wettersteinpalast, Bergpalast, IsatorKino e più tardi al Theatiner – Filmkunst. L’Ocam – Studio arrivava molto più tardi. Quell’approdo erano Il grande sonno, Il grande cielo, Red River, Red Line 7000, Mogambo, tutto molto mischiato per il fatto che molti titoli non li ricordo. Ma erano tanti. Vedevo film giapponesi con sottotitoli che non leggevo, essendo troppo affascinato dai costumi. Ero infatuato di Deborah Kerr e molto più tardi di Angie Dickinson e poi non più, quando lei recitava accanto a Lee Marvin. Gli eroi di questi film avevano raramente un nome che io conoscevo, ma l’aspetto artigianale del fondale scenico rivelava tale illusione fascinosa che faceva battere il cuore di molteplici emozioni. Soltanto il Theatiner – Filmkunst mi intrigava con i figli dell’Olimpo, con i nomi di Ophüls, Ejzenštejn, Lang, Pabst, Buñuel, Griffith, Welles, Hitchcock e chi se li ricorda tutti i nomi che scorrevano veloci nei titoli di testa… Mi ricordo che tifavo per il Sergeant Rutledge, per Jeff Chandler in Kociss, per Richard Widmark in Garden of Evil e, di questo mi ricordo, per Kirk Douglas in Il grande cielo. Le grandi emozioni erano destinate ai film americani. Oltre ai film americani, emergeva lo stupore il fascino, la curiosità, l’incomprensione, la conoscenza geografica. Appariva L’Africa, le città europee, l’oriente e anche il sonoro di musiche mai sentite prima. Sullo schermo bidimensionale si apriva una profondità illusoria che portava dentro una realtà di sogni dai quali non volevo più uscire. Finalmente l’artigianalità dell’illusione faceva vivere e sommergeva l’obbligo del giorno dopo giorno dell’esse- re quotidiano. Ero veramente non riconciliato con la scuola, con la casa, con il pranzo e con il venir messo a letto.
Non essere riconciliato mi ha portato a Filmcritica. Non c’erano più giorni di gloria. Tutto ciò che avevo visto fino a questo punto doveva far spazio nella mente a interpretazioni e abbandonare le emozioni. Per uno strano fatto confluivano e dominavano poi le emozioni che dovevano essere le interpretazioni. Ma questo non sempre si rivelava nello scritto. Si insinuava una sorta di censura. Se volevo abbracciare un film, doveva fare i conti sotto il segno dello scorpione o di un’altra costellazione. Molto si rivelava come una strategia del ragno. All’orizzonte non c’era niente per la semplice ragione che vivevo in città e i palazzi e le strade avevano un nome così come i film avevano un autore e per andare da qualche parte dovevo conoscere le strade così come per parlare di un film dovevo conoscere l’autore, il titolo, la dramma, il contenuto scenico e tanto altro. A un tratto era importante la retroscena, il fuoricampo, l’intenzione, il visto e il non visto. All’ improvviso il film era immerso in una botte che era più immensa del primo piano sullo schermo. Filmcritica mi ha impregnato dell’essenza dei film e di una conoscenza ignorata fino a quel momento. Film, goduti, senza essere consapevole di ciò che avevo visto. All’utopia mancava la parola o meglio alla parola mancava l’utopia. Non come all’inquadratura, che era consapevole della posizione della macchina da presa. Quella coscienza, che più in là è mancata con l’inserto del digitale nel film. È qui che la forma non oltrepassa i fatti e non diventa neanche più lettura poetica della metafora. Il film non torna più nel cinema, ma diventa metafisica per il fatto che si presenta fuori del cinema su uno schermo tutto tecnologico. L’età della ragione rimane età di passaggio e fa spazio al conformismo senza la dinamica artigianale del film in costruzione, dettagliata nell’intento della ripresa fissata sullo schermo. Viene a mancare la polvere che cattura il proiettore quando manda l’immagine sullo schermo. È non è la stessa cosa, come quando si vedono muoversi le foglie e i ramicelli di una quercia in assenza di vento. Intenzione o distrazione. Significato o ignoranza. A un tratto viene a mancare il connubio indicibile tra film e cinema–sala. Ho vissuto tanti cambiamenti. Il set costruito che ha fatto spazio al set ripreso dal reale. Il cartone animato dove un’anatra parla con la voce di un attore. Questo per dire un esempio non tanto metaforico. L’occhio, la mente vigile e l’orecchio acuto trovavano nel film le infinite interpretazioni, grazie a Filmcritica. Film, sala e Filmcritica erano un insieme per comprendere Kurosawa e rinnegare altri non nomina bili salvo poi potersi ricredere. Il definitivo di un film non era sempre un definitivo dell’interpretazione del film.
Il digitale nel cinema in un certo senso è l’aspetto metafisico. È una sorta di cortocircuito dei neuroni. La psicoanalisi usa ricordi, situazioni, impressioni prodotti dall’inconscio dell’infanzia degli adulti per comprendere il loro stato psichico attuale. La psicoanalisi crede perciò che il circuito dei neuroni del cervello, in un certo senso, abbiano eseguito un contatto errato e indotto il comportamento dell’adulto a interpretare avvenimenti dell’infanzia irrazionalmente. L’adulto subi sce una deviazione perché i neuroni hanno creato un circuito non previsto dall’ortodossia che comunemente viene considerata normale. Qui poi diventa complesso. Il normale ha bisogno di un’ancora che è il termine naturale. Ma il termine naturale non è confinato per il fatto che galleggia dentro il termine reale. Soltanto da quando l’umano esprime il suo pensiero ed è diventato creativo si è rotto l’argine. Da allora esiste l’artificio come opposto al naturale. E così tutti e due i termini sono nello stesso guscio, nel reale. Prima di ciò l’umano ha interpretato spesso avvenimenti naturali come avvenimenti metafisici di cui il termine Dio è il più eclatante. Sia per lo strano bisogno di materializzarlo figurativamente, sia per volerlo immateriale onnipresente e inafferrabile. Dio è l’entità, è l’ostacolo dove la scienza, la filosofia, la mente umana in generale si ferma. Dio è quel corto circuito dell’infanzia umana che la psicologia tratta come un trauma sessuale subito, che la scienza tenta di negare e, peggio, la politica crede di poter canalizzare. Con questa piccola escursione torno al digitale o meglio al cinema informatico. Questi ingegneri informatici e geniali intingono e pescano nel passato dei film come lo psicologo nell’infanzia dell’adulto, per creare quel mondo affascinante d’immagine che poco hanno a che fare con un film. Una volta Il luogo cinema si chiamava anche “Filmtheater”, tradotto, teatro di film. Il luogo teatro per la rappresentazione di opere teatrali diventava luogo per la proiezione di film. Ma come spesso accade, vince la pigrizia, e cosi tutto è diventato cinema. Il “film maker” un cineasta onnicomprensivo. Così queste immagini di creazione informatica passano per cinema e vengono compresi come film. Questi cineasti informatici sono però anche defraudatori della storia di film. Di questi film che lo spettatore con la sua presenza in sala ha reso importanti, e i veri autori artisti hanno creato. Questi film di macchinisti, scenografi, sceneggiatori, tecnici di luci, direttori di fotografia, attrici, attori, questi collaboratori per crea- re sogni, mondi fantastici e storie vivibili e invivibili, oggi, sono merce di ingegneri informatici virtuali della tastiera del computer. Riconosco la loro genialità ma se sono cosi geniali perché devono usurpare il termine film? Non hanno abbastanza fantasia per trovarsi un altro termine per definire le loro opere? Perché si comportano come l’industria pubblicitaria che usa Beethoven per vendere dentifricio, gli attributi femminili per pubblicizzare auto, e i prodotti inutili soltanto per incrementare il consumismo? Loro intingono e, pescano nel passato e presente. Chiamano auto puzzolenti con il nome di Cherokee e Tuareg. Per dire, la loro fantasia si ferma spesso a ripescare l’esistente, impregnato, memorizzato nella mente, sulla storia dei cittadini e popoli. E questo non per approfondire la storia, ma per vendere, per il consumismo. Curioso è quando con il metodo del digitale si crea un viaggio spazio tempo a ritroso. La messa in scena di un Tom Hanks in Forrest Gump (1994) che incontra J. F. Kennedy, morto il 22.11.1963. Qui si compie sullo schermo il viaggio della finzione filmica verso una realtà documentata filmicamente. Qui si fissa sullo schermo una realtà metafisica. Una realtà metafisica che per molti futuri spettatori potrebbero costituire una realtà storica documentata. Così come emergono nella psicoanalisi eventi infantili con l’interpretazione dell’analista. L’infinità memoriale fa spesso emergere delle combinazioni che sono pur sempre reali, ma non sempre veritiere. E questi ricordi si collocano nella sfera metafisica, quando non sono più verificabili, ma soltanto supponibili. Combinare messa in scena con un documento storico, con una distanza temporale tra uno e l’altro, per creare una sorta di migrazione d’anima con il digitale è forse un passo a evidenziare con l’immagine il sogno di una mezza notte di estate. Potrebbe essere un metodo per i neurologi ad attribuire a una connessione neurologica un’immagine e proiettare così miliardi di connessioni con le rispettive immagini sullo schermo. Magari sono contenute immagini geneticamente conservate dell’homo erectus. Magari la mente umana è in grado di correggere le immagini che la scienza antropologica ha disegnato nelle ricostruzioni estrapolate dai ritrovamenti. Con il digitale esiste la possibilità della migrazione virtuale nella sfera del passato sullo schermo o sul monitor del computer o mezzo televisivo. Nella vita reale manca però il comprendere la migrazione delle persone reali che sconvolge l’Europa da tempo. Manca la comprensione che la causa di questa migrazione è di stampa “Europea”. Da Alessandro Magno all’Impero Romano e poi i navigatori spagnoli, portoghesi, olandesi, inglesi e altri europei hanno sempre invaso terre lontane dal loro habitat. E questo non accadeva esclusivamente per la voglia di conoscenza. C’era anche una sottile voglia di dominare altre culture, di metterle sotto un unico cielo. Sotto il cielo dei loro interessi. L’opposizione a questa voglia di dominio ha causato il disastro che oggi l’Europa non sa più gestire. L’America di oggi è l’America europea. Il trauma che ha partorito la Russia di oggi è forse da ricercare nel- l’espansionismo di Napoleone. E anche la grande Cina è stata stuzzicata dagli europei e questo ha insegnato al popolo della Cina che le vie della seta e delle spezie sono un’opportunità per un’invasione commerciale. Perfino l’India poteva rimanere nel suo sogno della sua immensa cultura se l’Inghilterra avesse accettata la rivolta pacifica di Gandhi.
L’informatica, la virtualità del digitale può disegnare scenari di cui il popolo senza questa conoscenza è ignaro. Gli scenari virtuali dei bombardamenti, delle migrazioni e le conseguenze di ciò possono diventare modelli per come condurre un nuovo tipo d’espansionismo, un nuovo tipo d’imperialismo. Un imperialismo di guida informatica, ma non con la guida di un condottiero, di un Alessandro Magno, ma di un ingegnere sottomesso a un folle. Il punto è che la conoscenza di questo ingegnere può essere trasmessa comunque e non muore come Alessandro Magno. La conoscenza non muore, come non muore l’immagine di Madonna nel film Evita (1997) accanto a Francisco Franco morto nel 1975. La conoscenza è metafisica finché non la possiamo cancellare dalla mente di tutta l’umanità. Ma in ogni caso sopravvive nella virtualità del digitale.
La stampatrice digitale è in grado di realizzare costruzioni materiale di provenienza digitale. La virtualità di un ingegnere informatico forse è anche capace di realizzare una bomba atomica, se si fornisce alla stampante l’ingrediente materiale necessario. E qui torniamo al film digitale, quello del tri-dimensionale. Forse il film tri-dimensionale spinge allora la sua smania del realismo virtuale a far esplodere in una sala cinematografica una bomba atomica realizzata con la stampante digitale in diretta cinematografica. Basterebbe inserire nella proiezione all‘ultimo momento fotogrammi (intendendo pixel) mancanti per l’innesto della bomba e al cinema Metropolitan di Roma si è pronti per la verifica della prima esplosione atomica in Europa. I film di stampa negativo, positivo, quelli artigianale con un set costruito in uno stabilimento alla De Paolis o Cinecittà o anche in luoghi reali di sottofondo non davano questi scenari “futuristi non troppo”, ma costruivano sogni, racconti, storie di immaginazione sul passato, presente e futuro. Questi film artigianali univano letteratura, fotografia, pittura, musica, luce e ombra, registi e attori, lavoratori e produttori. Questi film raccontavano da e di luoghi lontani e vicini sconosciuti. Questi film esploravano ambienti, culture e popoli diversi. Questi film lo facevano nelle panoramiche lente e con i primi piani. Questi film avevano la capacita di esasperare la fisionomia di un’attrice o attore. Questi film davano il tempo allo spettatore di identificarsi con l’eroe di turno o di rifiutarlo. Questi film creavano complicità o dissenso tra gli spettatori. Questi film avevano una posizione morale (Einstellung) data dal posi- zionamento della macchina da presa (filmcamera). Queste pellicole di film avevano una fluidità cromatica e non un montaggio cromatico con pixel digitale. Questi film avevano un montaggio seguibile dall’occhio umano mentre la proiezione digitale può esercitare una sorta di interdizione sulla capacità fisica – biologica dell’occhio. Il cinema digitale è un’arte nuova come recita un film dei fratelli Coen: “non è paese per vecchi”, intendo con ciò è una cinematografia che richiede un adattamento speciale. Può essere per tutti, ma ancora non lo è. Forse si può svolgere nelle menti nuove ed io sono troppo vecchio per comprenderlo e poco adatto a indagarlo. Anche per questa ragione ho scritto da nostalgico e poco da critico illuminato. In un certo senso rispondo con questo a Edoardo Bruno riguardo alla sua prefazione.