The Act of Killing
Il film del mese.
The Act of Killing di Joshua Oppenheimer
I CORPI DEI CARNEFICI
di Alessandro Cappabianca
La finzione non esiste. Oppure: la finzione è la forma pura del documentario (e viceversa). Sul n. 637-638 di “Filmcritica”, Lorenzo Esposito ha scritto un magnifico pezzo sulla finzione del documentario. Parallelamente, nello stesso numero, scrivevo che un “documentario” come Sacro GRA è un documentario che non documenta niente, se non nel senso che accresce il mistero della cosa su cui investiga (anche Edoardo Bruno usa, nel suo pezzo da Venezia, l’aggettivo “misterioso”).
Questo come premessa a The Act of Killing: quasi un making-of, un documentario (ebbene si) di Joshua Oppenheimer, co-prodotto da Herzog e Errol Morris, sulla lavorazione di un film di fiction, che però finirà per coincidere col making-of stesso. E su cosa investiga il film? Quale mistero cerca di penetrare? Cerca forse di fare Storia, inducendo gli assassini e torturatori, appartenenti agli squadroni della morte indonesiani (responsabili del genocidio d’un milione di comunisti o presunti tali, in seguito al colpo di stato militare del 1965), a ripetere davanti alla macchina da presa, dopo quarant’anni, le tecniche e le procedure di interrogatori, torture ed esecuzioni sommarie, utilizzate allora? Ho l’impressione che non sia questo il punto.
Fare storia semmai è il pretesto. Un pretesto così forte da funzionare anche al contrario – ossia, tale da essere utilizzato dagli assassini stessi (tutt’altro che pentiti), orgogliosi delle loro azioni e desiderosi di trasmetterne la memoria ai giovani che magari non sanno, non conoscono. Nessuna paura di conseguenze penali, nessuna remora: orgoglio, piuttosto, per aver fatto ciò che a loro giudizio era necessario fare, e sarebbero pronti a rifare oggi. Il governo attuale li protegge, li onora, li considera eroi. Erano chiamati gangster, ma il Governatore della provincia di Sumatra spiega: gangster è una parola inglese, che significa free men uomini liberi.
The Act of Killing lo considero invece soprattutto un film di corpi, corpi di carnefici, che hanno somatizzato la violenza – o, più precisamente, corpi che metabolizzano un atto, quello di uccidere, che la coscienza si rifiuta di prendere in considerazione – di cui, magari, invita a essere orgogliosi. Personaggio principale è Anwar Congo, ideatore di un sistema per uccidere i prigionieri in modo più pulito, senza troppo spargimento di sangue, mediante strangolamento con un filo di ferro. Ora è un arzillo vecchietto, che veste camicie multicolori, accenna volentieri passi di danza, canta, ogni tanto si tiene su con un po’ di alcool o di marijuana ed è affezionatissimo ai nipotini. Dichiara di avere la coscienza a posto, e così sembra, per quasi tutto il film. Conduce la troupe sul terrazzo coperto dove avvenivano le esecuzioni, mima le procedure di strangolamento: “Qui probabilmente ci sono molti fantasmi – osserva – perché qui molta gente fu uccisa”.
Ci sono mostrati molti altri assassini, torturatori e gangster, nel film, chiamati a fare gli attori, alcuni nelle divise dell’Organizzazione paramilitare fascista Pancasila: corpi obesi e pance debordanti, visi da cui traspare l’abitudine alla violenza e alla corruzione: tutti orgogliosi di se stessi, sorridenti e bene in carne. Tra tanti corpi obesi e pance debordanti, Anwar, a dire la verità, è il solo magro, ed è il solo a mostrare, alla fine, segni di turbamento. E’ in grado di ripetere per finta, davanti alla macchina da presa, tutte le fasi delle trascorse uccisioni, senza fare una piega, ma, una volta indotto a interpretare, in una scena, anche il ruolo di vittima torturata (l’addetto al trucco disegna ferite ed ecchimosi sul suo viso), sembra scattare in lui un meccanismo di identificazione che non è in grado di sopportare.
Si pente, dunque, Anwar? Assolutamente no. E’ il suo corpo a pentirsi, se così si può dire, malgrado lui. Nell’ultima scena del film, di notte, sul terrazzo delle torture, vomita.
Almeno nel suo caso, dunque, la finzione, una finzione poco verosimile, congegnata alla meno peggio, tra scenografie ridicole, con attori dilettanti, la cui unica legittimazione consiste nell’essere stati un tempo i veri protagonisti dei fatti, produce un effetto di reale : la maldestra illusione risveglia le sopite ossessioni, suscita incubi, dà vita al ritorno dei fantasmi terrificanti o grotteschi degli assassinati, che la finta riconciliazione in un paradiso kitsch, con prati verdi, cascatelle d’acqua, danzatrici discinte e un pittoresco travestito come maestro di cerimonie, non basta a scongiurare.
Mi chiedo se questo non si possa considerare, in qualche modo, uno studio antropologico di tipi umani, un po’ alla Pasolini: l’approntamento d’una tipologia di corpi, che portano stampato sui volti (e nelle pance), il marchio della loro abiezione. Mi chiedo se la “diversità” di Anwar non consista proprio nella sua magrezza, come segnale di una segreta inquietudine che, ostentando felicità, egli tenta in ogni modo di mascherare, prima di tutto a se stesso.
La finzione smaschera. A condizione, tuttavia, che possa essere intesa come ritorno spettrale del rimosso, ombra di Banquo, spettacolo teatrale, allestito a beneficio del Re, nel castello di Elsinore. Messo il criminale di fronte alla rappresentazione dei suoi delitti, o meglio ancora, indotto egli stesso a rappresentarli in veste d’attore, non è detto che la sua coscienza si risvegli, che la sua anima vacilli (cos’è poi la coscienza? cos’è l’anima?) – a vacillare invece è il suo corpo, per la stretta ferrea d’una mano misteriosa che gli stringe lo stomaco. Anwar vomita, siano veri o no i suoi conati – ma se fossero simulati, sarebbero ancora più veri, in quanto verosimili. E i bambini, coinvolti loro malgrado nella scena drammatica della distruzione di un villaggio, tra fiamme che divampano, urla e furore, terminate le riprese, ancora impauriti, continuano a piangere.