NON ESSERE CATTIVO di Claudio Caligari
SELVAGGIA INNOCENZA
Daniela Turco e Lorenzo Esposito
La periferia di Ostia, oltre trent’anni dopo Amore tossico è ancora l’estremo confine di fronte al mare dove si spendono un giorno dopo l’altro tra espedienti e piccolo spaccio di droga, le vite marginali di Cesare e Vittorio (per inciso: il nome del protagonista di Amore tossico e il nome di Franco Citti in Accattone), amici fin da quando erano bambini, volti strafottenti e indifesi, coinvolti in un conflitto inestricabile tra tenerezza e aggressività, magico accordo dissonante del film.
Claudio Caligari ha sempre praticato un cinema concentrato sui corpi, Amore tossico era già stato un canto terminale e vitale sulla tenerezza e sulla bellezza e innocenza di un gruppo di ventenni, che nemmeno i buchi d’eroina continui, spaccio e prostituzione occasionale e i furti continui per “svortà” e procurarsi la roba, avrebbero mai potuto scalfire.
Finzione e documentario mischiati in un’unica dose, messo in scena con partecipazione e distanza da un gruppo di ragazzi che avevano avuto tutti problemi di tossicodipendenza, Amore tossico non si era mai liberato dall’etichetta di film “malato” e maledetto, malgrado i premi ricevuti, il lavoro di ricerca molto serio e dettagliato che lo sosteneva e, soprattutto, l’estremo coraggio e l’onestà di Claudio Caligari (che, a differenza di altri romanzi criminali – per esempio quelli di recente fattura televisiva, a loro modo belli per confezione e capacità di ripresa, ma ben lontani dal volersi sporcare le mani, quei luoghi e quell’umanità, prima ancora di filmare, li sperimentava in prima persona) e di quei ragazzi – Cesare, Ciopper, Loredana, Michela, e tutti gli altri – di cui oggi pochissimi sono rimasti in vita -, che avrebbero lasciato impresso di sè un segno indelebile, di cruda, rara bellezza. La pera di cocaina (per sentire ancora il brivido de ‘na vorta) sotto il monumento a Pasolini all’idroscalo, senza che gli ‘attori’ neppure sapessero, senza bisogno del commento sonoro di Keith Jarrett, ma così, nudo e crudo, come appunto anche l’ultimo Pasolini aveva intuito saremmo diventati o dovuti essere per resistere, è ancora oggi un esempio di cinema puro, tutto visivo, anti-moralista, perfettamente ambiguo, anti-contenutista, che riflette in una volta sola su realtà e sua rimessa in gioco, sulla storia e sulla storia politica e umana di un Paese intero (senza contare che questa – anche inattesa – eredità diffusa lasciata da Pasolini, e compresa solo da Abel Ferrara, ma vedi anche quest’anno Uccellacci e uccellini che scorre in filigrana Bella e perduta di Pietro Marcello, e poi ancora e sempre Accattone per Non essere cattivo, dovremmo prima o poi valutarla con attenzione).
Non essere cattivo, si salda a quel mondo perduto fin dalla prima inquadratura, che vede Cesare attraversare di corsa la stessa strada di allora, per raggiungere Vittorio – come già in Amore Tossico Ciopper e Enzo – appoggiato a un muretto, intento a mangiare un gelato. Qualcosa, tuttavia, è cambiato. Il film si svolge nel 1995, e all’eroina sono subentrate – anche se mai definitivamente – cocaina e ecstasy, mentre resta, come legame potente che abbraccia tutto il lavoro di Caligari, L’odore della notte incluso, l’estrema attenzione verso la lingua, restituita nell’impasto violento del suo dirsi, presa nelle sfumature delle variazioni temporali e meticolosamente aggiornata nei vari idioletti parlati nei suoi film.
Sergio Citti, Alberto Grifi, Marco Ferreri, sentiti e sfiorati anche qui come mondi paralleli e orbite di riferimento, così come le schegge di Fellini, Preminger, Scorsese e De Palma entrano in queste immagini deviate e già irriducibilmente “altre” rispetto alla contemporaneità del cinema italiano che arriva nelle sale. Anzi colpisce l’etica con cui Non essere cattivo parla anche di cinema e del cinema amato, con una capacità di scolpire l’immagine che non si impara nelle scuole di cinema e che non ha bisogno di dichiarare grandi bellezze. Qui non si gira a vuoto, qui si filma una caduta e il suo vuoto, ci si tuffa a capofitto nell’abisso, e proprio nelle tenebre si cerca strenuamente una luce.
Non essere cattivo, sceglie ancora una volta la periferia e la strada come luogo definitivo e acutamente poetico per inquadrare le vite perdute, mentre la colonna sonora, un mosaico di contrasti brutali, firmata da Cristiano Balducci, Paolo Vivaldi, Riccardo Senigallia, mai illustrativa, invade e corrode come sempre le immagini nell’intreccio di spirali acide techno con incursioni struggenti di trombe e flicorni jazz. Sono i tramonti inquadrati lungo i canali e i campi incolti che portano al mare, che nel film anticipano la fine imminente di Cesare, che l’affetto di Vittorio non potrà salvare, e se si dovesse indicare che cosa rimane dei film di questo cineasta, ostinato e schivo, si dovrebbe parlare di un senso di comunità e di appartenenza, raro da sentire nel cinema italiano, che proprio là dove non ci si aspetterebbe mai di trovarlo, come puro atto di resistenza contro cinismo e individualismo imperante, tuttavia, esiste. Un rispetto, infine. Per le storie. Per le persone. Per l’immagine.
Non essere cattivo finisce con la morte di Cesare, e con quella di Claudio Caligari, cineasta difficile come i suoi personaggi, ma con sensibilità sufficiente per scoprire e mostrare, dove i più vedevano solo desolazione e degrado, una violenta, dissonante innocenza.